Cooperazione e politica: un modello interpretativo

Di Mattia Granata Martedì 01 Novembre 2005 02:00 Stampa

Il 15 aprile scorso duemila cooperatrici e cooperatori di tutta Italia entravano nella rinnovata Scala di Milano ad assistere al concerto promosso dalle Associazioni delle cooperative di produzione e lavoro della Legacoop, per rendere omaggio alle imprese che avevano contribuito in modo fondamentale al restauro del Teatro simbolo di Milano e del paese. Quando pochi mesi dopo l’Unipol annunciava la sua OPA sull’ex Istituto nazionale di credito per la cooperazione, pareva aprirsi la porta di un altro «salotto buono». Sono solo alcuni dei numerosi segni, tanto simbolici quanto concreti, che testimoniano la solidità e la maturità che questo «sistema» di imprese ha raggiunto. Non bastassero queste certezze, vi sono i dati che confermano come esso da solo, con i suoi soci e il suo milione di addetti, contribuisca per l’8% al PIL nazionale.

Il 15 aprile scorso duemila cooperatrici e cooperatori di tutta Italia entravano nella rinnovata Scala di Milano ad assistere al concerto promosso dalle Associazioni delle cooperative di produzione e lavoro della Legacoop, per rendere omaggio alle imprese che avevano contribuito in modo fondamentale al restauro del Teatro simbolo di Milano e del paese. Quando pochi mesi dopo l’Unipol annunciava la sua OPA sull’ex Istituto nazionale di credito per la cooperazione, pareva aprirsi la porta di un altro «salotto buono».

Sono solo alcuni dei numerosi segni, tanto simbolici quanto concreti, che testimoniano la solidità e la maturità che questo «sistema» di imprese ha raggiunto. Non bastassero queste certezze, vi sono i dati che confermano come esso da solo, con i suoi soci e il suo milione di addetti, contribuisca per l’8% al PIL nazionale. La rilevante consistenza che la cooperazione manifesta oggi quanto a capacità di competere nel mercato è conseguenza, innanzitutto, delle caratteristiche stesse di tale modello di impresa. Tali caratteristiche, dopo che negli anni Ottanta e Novanta si compiva un generalizzato processo di trasformazione dei sistemi politici ed economici, hanno favorito il dispiegarsi di quello che, molto efficacemente, è stato definito: un «istinto a crescere»;1 istinto che ha permesso alle imprese cooperative di sfuggire ad alcune note debolezze genetiche del sistema imprenditoriale italiano. Più in generale, in questa fase storica arriva a compimento un processo di sviluppo e di consolidamento – anche teorico – del movimento nel suo complesso che, avviato nel dopoguerra, ha riprodotto una prima onda di crescita infrantasi, drammaticamente, agli albori del fascismo.

Sono centoventi anni, infatti, che la cooperazione bussa alla porta dei «salotti buoni». In alcune fasi per allargare il diritto di cittadinanza nel mercato a soggetti che, altrimenti, ne sarebbero stati esclusi. In altre, come avviene oggi, per affermare la necessità, oltre che il diritto, che nel mercato agiscano soggetti economici differenti per natura e forma e non necessariamente omologati ad un unico modello.

La richiamata «polemica estiva» generata dall’operazione BNL e gli argomenti utilizzati per alimentarla non stupiscono chi guardi alla storia della cooperazione. La polemica ha coinvolto il movimento, ampliandosi poi pervasivamente, e ha prodotto l’interessamento della pubblica opinione rispetto ai rapporti tra «cooperazione e politica», trasferendo su questo tema il fuoco di analisi degli osservatori. Tali rapporti hanno storicamente rappresentato un elemento ampiamente stigmatizzato da parte delle forze avverse al fenomeno cooperativo. Questo fatto tanto più avvince perché avviene nel paese che, malgrado le non proprio trasparenti relazioni tra politica e mercato che ne hanno segnato la storia, è oggi ancora governato dal «grande imprenditore d’Italia» (secondo la definizione di Massimo Giannini), da oltre un decennio «prestato» alla politica. Il contesto in cui la cooperazione si è sviluppata nel nostro paese, poi, ha per lungo tempo fatto sì che il tema non venisse adeguatamente affrontato, oltre che per implementare una teoria economica dell’impresa cooperativa, anche per disarmare quelli che una volta venivano definiti i «nemici della cooperazione», che oggi potrebbero essere indicati in quei soggetti fautori di una cooperazione resa marginale sotto il profilo imprenditoriale e della facoltà di competere concorrenzialmente nel mercato.

Ravvisando tale lacuna, in tempi evidentemente più sereni si è ragionato su un modello interpretativo che, lungi dall’esaurire il tema, voleva richiamare alcune categorie utili a un dibattito interno alla cooperazione e alle comunità scientifica e politica che con esso condividono valori – quali la responsabilità sociale che è intrinseca all’agire in forma associata e democratica nella competizione dei mercati – contribuendo a razionalizzare un aspetto dell’agire cooperativo che pareva incombere sul movimento come un irrisolto trauma del passato.2 Tale modello mira ad enucleare dalla storia del movimento cooperativo i momenti di conflitto che lo hanno opposto alla «politica», per individuare tratti comuni e persistenze utili a comprendere i motivi per cui un’impresa economica attiva nei mercati in cui si producono e commerciano merci, prodotti, servizi, ha avuto, nel corso della sua storia, nemici altri dai suoi competitors e, inoltre, i motivi per cui questi nemici nei conflitti ingaggiati con il movimento cooperativo hanno individuato proprio nel suo presunto comportamento «politico» l’elemento da attaccare, tentando di affondare il proprio colpo definitivo. Questa riflessione basava sull’assioma teorico che la cooperativa è, e deve essere, allo stesso tempo un’impresa e anche un soggetto partecipe di un movimento sociale che persegue finalità non riconducibili unicamente all’economico. È a partire da questa duplicità in natura che il suo agire nei mercati si svolge nel continuo riprodursi di un equilibrio tra motivazioni economiche e motivazioni extraeconomiche, sociali, che ne determinano l’agire e ne perpetuano il senso, su un crinale che, se continuamente individuato e percorso, rappresenta il mantenimento della cooperativa sulla via del perseguimento dei fini per cui essa sorge; oltre che la salvezza dallo snaturamento (sempre in agguato nel suo pendere dal lato del mercato), o dall’indebolimento economico (nel caso contrario). È solamente tenendo conto di questa coesistente dicotomia che ogni avvenimento che riguarda la cooperazione può essere interpretato, poiché in ognuno di questi l’originaria duplicità si manifesta e invera.

Così è anche per il suo rapporto con la politica. Un rapporto virtuoso, quando sottoforma di ideali condivisi la politica (come altrimenti la religione) ha agito quale elemento costitutivo delle imprese e coesivo delle basi sociali; o quando si è «fisiologicamente» impostato, come è normale e lecito nella democratica rappresentanza degli interessi, con i partiti politici che rappresentavano la proiezione del substrato ideale e valoriale più largamente diffuso nel movimento. Un rapporto vizioso, invece, nei momenti in cui la relazione con questi stessi partiti è degenerata «patologicamente», in dipendenza di avvenimenti storici di ampia portata; o, per l’appunto, nei momenti in cui la cooperazione veniva coinvolta in conflitti ingaggiati con quelle porzioni del sistema politico diverse dai partiti in cui si rivedeva.

È in particolare osservando quest’ultimo aspetto che si comprende come anche la natura del conflitto tra cooperazione e politica sia duplice e prodotto da un duplice ordine di motivi. Se, infatti, la cooperativa è sia impresa che movimento sociale, i comportamenti che essa persegue hanno un carattere da un lato economico, dall’altro politico, e i conflitti in cui è coinvolta presentano, intrecciati tra loro, aspetti economici e aspetti politici.

Il primo tipo di conflitto si realizza tra il movimento cooperativo e i partiti di volta in volta avversi a quelli che rappresentano gli orientamenti politico-culturali più diffusi nel movimento cooperativo stesso. In tale caso si verifica che a uno scontro a livello partitico, corrisponde un’avversione nei confronti della cooperazione avvertita come «di parte», che ha lo scopo di indebolire le forze politiche-partitiche ad essa relazionate. Il secondo tipo di conflitto, diversamente, poggia su motivazioni di ordine «economico»: l’impresa cooperativa, agendo nel mercato, si relaziona e compete con altre imprese di cui, nei casi in cui sappia operare con efficienza, ottiene di ledere gli interessi economici. La cooperazione quando nella sua storia è stata in grado di concorrere, pur nel rispetto delle leggi, delle regole dei mercati e dei propri valori, con le imprese tradizionali, di erodere ad esse quote di mercato, e quindi di dispiegare pienamente le possibilità che sono alla base del suo stesso sorgere, è stata avversata proprio per il suo essere impresa. La tensione che l’incremento della frizione concorrenziale genera nei mercati, si può trasferire nell’agone politico dove agiscono anche i partiti che, rappresentando gli interessi lesi nel mercato, sono spinti ad avversare la cooperazione. Tipicamente, questi due ordini di motivi si presentano intrecciati tra loro, ma nell’intreccio è possibile ravvisare una prevalenza tra ragioni politiche ed economiche, tra avversione diretta da parte dei soggetti politici, o avversione da questi mediata perché proveniente da interessi del mercato. Ovviamente questo schema prevede che, oltre al famigerato rapporto cooperazione-politica, sussista un rapporto potenzialmente patologico, perché distorsivo della concorrenza, anche tra politica e imprese tradizionali.

In tale quadro interpretativo, sinteticamente richiamato, paiono collocarsi anche gli avvenimenti di quest’estate e i ruoli assunti nella polemica dagli attori coinvolti.

Nel dialogo tra Alessandro Profumo e Massimo D’Alema pubblicato sul numero scorso di «Italianieuropei»3 è presente anche un altro passaggio, cui è importante riferirsi perché relativo a questioni attuali per il sistema cooperativo. La definizione che Massimo D’Alema propone di «animale strano» traduce, impressionisticamente ed efficacemente, le caratteristiche salienti di un movimento che, come detto, giunge al compimento di un’evoluzione attraversato dalle fisiologiche contraddizioni che sempre segnano le trasformazioni. La cooperazione è da sempre un organismo articolato e complesso in cui coesistono imprese diverse per dimensioni e settori di attività, in cui convivono avanguardie imprenditoriali che ricoprono posizioni di leadership nei mercati di riferimento, e imprese il cui il connotato sociale prevale su quello economico.

Le problematiche sono quindi molteplici. Ve ne sono al livello della struttura associativa e riguardano la capacità degli organi di indirizzo del movimento di modellarsi sul sistema di imprese ponendosi in grado di fare fronte ai temi sempre più complessi che queste sottopongono, aggiornando quindi le proprie competenze e i propri compiti. Come sottolinea Alessandro Profumo, le «percezioni dell’opinione pubblica contano», e ciò indica un campo di intervento significativo per organismi che vogliano rappresentare – e far rappresentare – la meritevole distintività nei comportamenti delle imprese cooperative non solamente agli agenti del mercato, ma anche, appunto, all’opinione pubblica. Allo stesso modo si impone l’impegno nella formazione manageriale e nella promozione cooperativa per un sistema che voglia favorire la riproduzione di èlite dirigenti che alle capabilities affianchi la trasmissione di un sistema valoriale fondamentale al mantenimento della peculiarità cooperativa.

Vi sono poi le tematiche presenti al livello delle imprese. L’autorevole riferimento al «problema della governance», che proviene dalla conversa zione, ha il pregio di indicare un punto nodale, sintetizzando problematicamente argomenti propri del movimento cooperativo con altri provenienti da osservatori ad esso esterni, così evidenziando l’opportunità del confronto.

La cooperazione non è mai rimasta immobile e immutata; la sua storia è un percorso di stratificazioni delle strutture di rappresentanza e di modificazioni nelle strutture organizzative e di governance delle singole unità d’impresa. Queste modificazioni sono avvenute storicamente per reagire a stimoli provenienti dal mercato che sollecitavano al cambiamento parti del movimento. Il caso più evidente in tal senso riguardava il settore consumo della Legacoop nel secondo dopoguerra,4 ossia quando, per affrontare l’avvento della grande distribuzione, esso smetteva il concetto della «cooperativa ogni campanile», che lo incardinava su una moltitudine di piccole unità, ed elaborava la concezione: «cooperazione è concentrazione». Una concezione, quest’ultima, che, attraverso un tortuoso e sovente conflittuale e doloroso processo di fusioni, avrebbe portato alla costituzione del moderno marchio cooperativo leader italiano del settore. Il ruolo fondamentale nell’avviare e gestire questi processi di concentrazione era di alcuni lungimiranti esponenti del sistema associativo, del management cooperativo, nonché della politica, che guidavano una palingenesi rigeneratrice attraverso cui la cooperazione di consumo assumeva la forma di impresa più adeguata ai tempi, per rispondere agli originari compiti. Tale fase vedeva realizzarsi un vasto processo di riallocazione delle risorse umane e materiali, e delle competenze strategiche del movimento, in funzione della costruzione di un sistema di proprietà e di una struttura di governance che, in ossequio alle teorie dell’efficienza dell’impresa, permettessero di perseguire in forme nuove, riattualizzandola, la mission cooperativa. Questo processo di trasformazione, nella continuità, si svolgeva in un continuo confronto/scontro tra i due poli costitutivi, in continua tensione, del binomio fondamentale della cooperazione: ossia tra le esigenze del mercato e quelle della socialità. L’osservazione e l’analisi in una prospettiva diacronica del movimento cooperativo, nei suoi diversi settori, in conclusione, permette di osservare come raggiunto un determinato livello di sviluppo, al suo interno e ai vari livelli, si razionalizzi la necessità/capacità di ipotizzare modalità di confronto con le sfide del mercato.

Pare opportuno, quindi, lo stimolo che sollecita una riflessione sulla teoria della proprietà cooperativa, riflessione che tenga conto della capacità di adattamento del movimento alle esigenze poste dal mercato che, evidente nell’emblematico caso del consumo, emerge pure nelle esperienze condotte in settori, momenti storici o fasi di sviluppo diversi.5

Da questa capacità deriva la vitalità dimostrata i questi anni dalla cooperativa nonostante – o in virtù – il suo essere impresa non profit, intergenerazionale, legata al territorio e ispirata a principi quali il voto capitario o la «porta aperta». Aperta, a differenza della porta dei «salotti buoni».

 

Bibliografia

1 P. Bersani, Prefazione. Attualità dell’idea e dei valori cooperativi, in M. Granata, Impresa cooperativa e politica. La duplice natura del conflitto, Bruno Mondadori, Milano 2005, p. 7.

2 M. Granata, Impresa cooperativa e politica cit.

3 A. Profumo e M. D’Alema (intervistati da M. Giannini), Dialogo sul capitalismo italiano, in «Italianieuropei», 4/2005.

4 M. Granata- F. Lavista, Coop Lombardia. L’impresa e la responsabilità ereditaria, Centro per la cultura d’impresa- Coop Lombardia, Milano, 2004.

5 Su ciò cfr. G. Sapelli, Cooperazione, proprietà, management. Il modello Ccpl, Libri Scheiwiller, Milano, 2004.