La cooperazione nell'economia italiana

Di Alberto Zevi Martedì 01 Novembre 2005 02:00 Stampa

Secondo le valutazioni ufficiali la crescita reale finirà per essere nulla o pressoché nulla nel corso del 2005 e non raggiungerà che uno scarno 1,5% nel 2006. L’inflazione dovrebbe attestarsi sul 2,1% circa nel 2005 e sul 2,2% nel 2006. Nel 2005 e nel 2006 l’Italia non rientrerà nei parametri, per quanto resi meno stringenti, del Patto di stabilità e il rapporto fra deficit pubblico e prodotto interno lordo rimarrà abbondantemente al di sopra del limite del 3%: al 4,3% nel 2005 e al 3,8% l’anno successivo. Nel 2005 l’avanzo primario – che solo fino a cinque anni fa era pari, se non superiore, al 5% – supererà a stento lo 0,5%. Dopo dieci anni di discesa ininterrotta, infine, si prevede che il debito pubblico nel 2005 ricominci a salire.

 

Secondo le valutazioni ufficiali la crescita reale finirà per essere nulla o pressoché nulla nel corso del 2005 e non raggiungerà che uno scarno 1,5% nel 2006. L’inflazione dovrebbe attestarsi sul 2,1% circa nel 2005 e sul 2,2% nel 2006. Nel 2005 e nel 2006 l’Italia non rientrerà nei parametri, per quanto resi meno stringenti, del Patto di stabilità e il rapporto fra deficit pubblico e prodotto interno lordo rimarrà abbondantemente al di sopra del limite del 3%: al 4,3% nel 2005 e al 3,8% l’anno successivo. Nel 2005 l’avanzo primario – che solo fino a cinque anni fa era pari, se non superiore, al 5% – supererà a stento lo 0,5%. Dopo dieci anni di discesa ininterrotta, infine, si prevede che il debito pubblico nel 2005 ricominci a salire.

Queste le grandezze macroeconomiche che ufficialmente fanno da cornice alla legge finanziaria 2006 che il parlamento si appresta a varare. In estrema sintesi, il governo pensa di reperire qualcosa come 27 miliardi di euro grazie a una serie di misure, quali: a) taglio dei trasferimenti agli enti locali; b) taglio dei trasferimenti all’ANAS e alle Ferrovie; c) tagli alle spese delle amministrazioni centrali; d) recupero di evasione fiscale; e) ridefinizione del trattamento fiscale delle società di trasporto e distribuzione di energia; f ) vendita di parte del patrimonio immobiliare. Dei 27 miliardi di euro, 11,5 saranno usati per la riduzione del deficit, per portarlo sotto l’0,8%. Il resto verrà utilizzato per finanziare aumenti di spesa considerati imprescindibili (o, per meglio dire, politicamente inevitabili, come gli aiuti all’agricoltura), per tagliare il costo del lavoro (2 miliardi), per sostenere, una tantum, i redditi familiari (1,1 miliardi), e infine per segnalare l’attenzione del governo verso una serie di temi di interesse «particolare» in prossimità delle elezioni (si va dal risarcimento «di Stato» agli investitori in Tango Bonds alla malaugurata creazione con soldi pubblici di una Banca del Mezzogiorno).

Non mancano i motivi per pensare che diversi degli obiettivi citati potrebbero non essere raggiunti. È certamente vero che l’indice di fiducia delle imprese è cresciuto in settembre per la quarta volta consecutiva e che per la prima volta in un anno le scorte di magazzino sono scese sotto la media di lungo periodo. E quindi, la ripresa del ciclo economico toccherà – e lo sta già facendo – anche l’Italia, sostenuta dall’aumento della produzione industriale europea, nonostante gli elevati prezzi dei prodotti petroliferi. Ma ciò non toglie che – nell’opinione di molti istituti di previsione e pur senza sottovalutare i segnali incoraggianti – nel 2006 si potrebbe non andare oltre il tasso di crescita potenziale e l’1.5% potrebbe finire per essere un obiettivo più che una previsione. Allo stesso tempo – pur non sottovalutando gli interventi aggiuntivi succedutisi nel corso della sessione di bilancio – è piuttosto difficile considerare realistiche le previsioni ufficiali di finanza pubblica. Il taglio alle spese dell’amministrazione centrale negli anni recenti si è dimostrato molto difficoltoso e tutto fa supporre che tale resterà. Annunciare poi un inasprimento della lotta all’evasione non è esattamente credibile dopo quattro anni di ripetuti condoni fiscali (soprattutto se questi ultimi rimangono l’obiettivo non confessato della maggioranza parlamentare in vista della definitiva approvazione della legge finanziaria 2006).

Si obietterà che, a sei mesi dalle prossime elezioni politiche, occuparsi della legge finanziaria in discussione è un esercizio, tutto sommato, rivolto al passato. Ma non è così. Per tracciare un quadro dell’economia italiana nel medio-lungo termine non è affatto inutile partire dalla finanziaria 2006: la sua relativa inconsistenza – come del resto quella della finanziaria dell’anno precedente – non è, infatti, frutto solo del clima pre-elettorale. Essa è anche l’inevitabile conseguenza degli errori di analisi economica commessi dal governo in carica fin dal suo insediamento e in particolare della sua erronea lettura delle tendenze di fondo della economia italiana.

Torniamo agli anni 2001-2003, all’inizio della legislatura. In quel triennio la politica economica viene impostata sulla base di una esplicita valutazione: a partire dall’11 settembre l’economia italiana sarebbe stata oggetto nient’altro che di un rallentamento del ciclo economico. In quel contesto, una politica economica accorta non avrebbe dovuto far altro che aspettare l’inevitabile ripresa ciclica, evitando attentamente di rinviarla nel tempo. Da questa premessa hanno origine tre anni di condoni a 360 gradi e di misure una tantum, di ogni genere. Per un triennio l’Italia si ferma per aspettare un Godot (e cioè la ripresa) che – oggi lo sappiamo – non sarebbe mai arrivato. L’economia italiana cresce in media dello 0,8% tra il 2001 e il 2003 (lo 0,2-0,3% in meno dell’economia europea) con un’inflazione in crescita fino al 2,9% (anche in questo caso divergendo significativamente dalla media dell’area dell’euro). Finché, nel 2003, il declino strutturale che affligge l’economia italiana diventa l’oggetto principale del dibattito di politica economica e il punto di partenza delle analisi dello stato di salute dell’economia italiana. Ma, sfortunatamente, a quel punto è politicamente troppo tardi per mettere mano a riforme strutturali significative, mentre i conti dello Stato si piegano sotto il peso dei condoni, delle una tantum e di interventi emergenziali sul fronte della spesa. A distanza di due anni, toccherà al risorto ministro dell’economia, durante la presentazione della legge finanziaria per il 2006, finalmente sottoscrivere questa analisi degli ultimi anni. È appena il caso di osservare: troppo poco e troppo tardi.

Che cosa era andato storto? La politica economica dei primi anni della legislatura aveva semplicemente dimenticato il fatto che sin dalla metà degli anni Ottanta la crescita potenziale dell’economia italiana aveva cominciato a scendere velocemente (fino ad arrivare oggi a valori compresi fra l’1 e l’1,5%). Nessun economico favorevole avrebbe potuto contrastare questo stato di cose che, se analizzato sotto la giusta luce, avrebbe portato a scelte completamente diverse, basate sull’avvio di riforme strutturali in numerosi campi. Nel 2001, al momento del suo insediamento, il governo Berlusconi accusò il centrosinistra di aver portato il deficit al limite del 3% (ben oltre, quindi, l’1,4% ufficialmente indicato). Un’accusa, più che infondata, mal posta: il governo Berlusconi avrebbe dovuto piuttosto accusare gli esecutivi precedenti di essere stati esitanti più del dovuto e fin troppo timidi nel tentativo di invertire il trend al ribasso della crescita economica potenziale.

La legge finanziaria per il 2006 non è niente altro, in questo senso, che il risultato finale di una evoluzione dell’economia del tutto male interpretata. La strada seguita dal governo è diventata sempre più stretta proprio in conseguenza dell’impostazione che il governo ritenne, fin dall’inizio della legislatura, di dare alle sue azioni. E al governo, oggi, non rimane altro da fare che spostare il carico conseguente alla correzione dei conti pubblici su altri soggetti (soprattutto a livello locale) e sulle generazioni future (attraverso il debito pubblico).

Questo per quanto riguarda il passato. Domandiamoci ora cosa ci attende nell’immediato futuro e, in particolare, nella tarda primavera del 2006. Questa – decimale più, decimale meno – la situazione con cui si dovrà confrontare il prossimo governo: è più che probabile che tra l’aumento della crescita globale potenziale (indotto dalla integrazione economica senza precedenti dell’ultimo decennio, da una crescente apertura dei mercati e dalla liberalizzazione di quelli finanziari, da una crescita della mobilità del lavoro e dei capitali e da un diffuso trasferimento di tecnologie e di conoscenze) e l’aumento del prezzo del petrolio prevarrà nei prossimi mesi il primo fattore (influenza aviaria permettendo). Il prossimo governo potrà quindi fare affidamento su un contesto ciclico più favorevole rispetto a quello prevalso fino all’estate. Tuttavia, come si è già detto, è francamente improbabile che la crescita nel 2006 finisca per essere superiore a quella potenziale (e quindi possa raggiungere e superare l’1,5%). Di converso, è altamente probabile che lo scenario si riveli assai meno rassicurante del previsto sul fronte dei conti pubblici: il disavanzo potrebbe risultare significativamente superiore alle stime ufficiali, piuttosto ottimistiche, e prossimo al 5%. L’avanzo primario potrebbe sfiorare lo zero e il debito, in rapporto al prodotto, riprendere a crescere (in un contesto segnato, come se non bastasse, dal rischio di un onere crescente per interessi). Non mancherà, certo e per fortuna, lo scudo dell’euro, ma sarà pur sempre con questi elementi di fondo che dovrà confrontarsi il prossimo governo della Repubblica (e, auspicabilmente, il prossimo governo dell’Unione).

In breve, non sarà una situazione facile. E ancora una volta (come nel 2001) il rischio per il paese non starà nello scenario macroeconomico in cui si troverà ad agire il prossimo governo, ma soprattutto nelle scelte politiche che esso dovrà compiere. Se l’attesa di un ciclo economico positivo può portare a errori rilevanti, come è accaduto in questa legislatura, è bene rendersi conto che la effettiva presenza di una ripresa ciclica potrebbe domani portare danni ancora più seri. Detto in altre parole, il prossimo governo sarebbe molto imprudente ad accontentarsi di dati sulla produzione industriale, sugli ordini e sulle scorte leggermente più confortanti e a perdere di vista quello che rimane il fondamentale problema italiano e cioè che il paese non cresce. Al contrario – con l’aiuto di una fase ciclica favorevole e non già nascondendosi dietro di essa – sarebbe una gran cosa se la cifra dell’azione del prossimo governo (il «senso della direzione», per dirla con Alessandro Profumo) fosse sintetizzabile in uno slogan mutuato da quello, ormai noto, di una nota casa informatica: «Italy’s potential, our passion».

A questo scopo, sarà fondamentale marcare la differenza dal governo Berlusconi fin dai primi giorni e fin dai primi provvedimenti. Ma sarà altrettanto fondamentale disporre di una strategia di politica economica di legislatura e comunicarla adeguatamente. I problemi saranno seri e radicati nel tempo. Le aspettative elevate e diffuse. I vincoli pressanti e stringenti. I tempi stretti, anzi strettissimi. Senza con questo pretendere di anticipare i contenuti del programma economico del prossimo governo, domandiamoci dunque quali potrebbero essere gli elementi essenziali di questa strategia economica di legislatura.

Così come si denota con il termine di Washington consensus la ricetta ortodossa di politica economica solitamente prodotta fra il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale ed avallata dai mercati, allo stesso modo si può forse indicare con il termine Rome consensus la ricetta ortodossa di politica economica di medio periodo che l’Unione potrebbe finire per trovare allettante perché rassicurante. Essa suona più o meno come segue: a) si contratti con l’Unione europea un graduale e regolare percorso di rientro tale da permettere il raggiungimento di un rapporto deficit/PIL pari al 3% al termine del terzo anno della legislatura; b) si vari, ogni anno, una manovra finanziaria di importo, ad esempio, prossimo all’1,5% del prodotto, da destinare per metà al riequilibrio della finanza pubblica e per metà a misure intese a sostenere lo sviluppo e/o a intervenire sui settori socialmente più scoperti (dagli ammortizzatori sociali per alcune fasce di lavoratori alla riduzione del cuneo fiscale). Insomma, si indichi al paese un percorso cauto e graduale, misurato e costante. In grado di arrestare le tendenze più pericolose della finanza pubblica e di cominciare, con molta prudenza e attenzione, a porre mano alla lunga agenda ereditata da cinque anni di non governo. Si tratterebbe però, a ben guardare, di un percorso solo in apparenza rassicurante. In realtà pericoloso, perché probabilmente inadeguato. Un per corso che non sconterebbe il fatto che i ritmi del rapporto fra maggioranza ed elettori saranno, nella prossima legislatura, più accelerati del solito. Un percorso, quello precedente, che potrebbe dunque deliver troppo poco, troppo tardi.

Vi è motivo di pensare, invece, che per percorrere il sentiero angusto entro il quale si muoverà necessariamente la politica economica del governo prossimo venturo cautela e prudenza potrebbero non bastare e potrebbe, invece, essere necessario saper coniugare rigore e fantasia, disciplina e innovazione. Tanto per cominciare è bene dirsi, con chiarezza, che non sembra immaginabile che l’aggiustamento sul fronte della competitività – che l’Italia era solita realizzare, fino a qualche tempo fa, attraverso periodiche svalutazioni – possa intervenire oggi attraverso una nuova fase di compressioni delle retribuzioni. Queste ultime sono oggi, in termini reali, ai livelli dei primi anni Novanta. In questo quadro, sembra francamente difficile pensare che alle retribuzioni si debba, in primo luogo, guardare per sostenere la competitività delle nostre imprese. Inoltre, dalla metà degli anni Novanta l’Italia ha posto mano in modo abbastanza efficace al suo mercato del lavoro. Certo, qui e là non manca la necessità di intervenire, ma non sembrano le regole del mercato del lavoro il primo punto nell’agenda della competitività.

Ciò, naturalmente, non implica non agire sul carico fiscale (IRAP) e contributivo che incide sul costo del lavoro. Ma, anche qui, è bene sapere fin d’ora che lo stato della finanza pubblica non permetterà su questo versante interventi di portata massiccia in tempi molto rapidi.

Rimane, allora, solo un’altra strada: quella delle riforme di struttura il cui impatto sui bilanci delle imprese è, in buona misura, indiretto ma tutt’altro che minore. È ragionevole pensare, in altre parole, che il prossimo governo possa voler focalizzare la sua attenzione soprattutto sul settore dei servizi pubblici e privati con l’obiettivo di rendere competitivo il settore esportatore la cui capacità di stare sui mercati internazionali è seriamente messa in discussione dalle rendite di posizione che ormai caratterizzano sezioni importanti del settore dei servizi privati (ma anche dal fardello di inefficienze che contraddistinguono ampi segmenti della pubblica amministrazione).

Le regole del mercato sono, infatti, ancora un optional in ampi segmenti del settore dei servizi e una maggiore concorrenza e una migliore regolamentazione consentirebbero di fare molta strada a difesa del benessere dei consumatori e della competitività delle nostre esportazioni. Le aziende italiane pagano prezzi dell’energia significativamente superiori rispetto a quelli che possono sperimentare nel resto d’Europa. Barriere di ingresso e tariffe minime garantiscono solide rendite e impediscono la mobilità sociale. Un sistema di regole obsoleto nel settore del credito e dei mercati finanziari sono alla base dei fatti e dei comportamenti che purt roppo hanno campeggiato nelle pagine del «Financial Times». Nello stesso tempo un’estesa mancanza di concorrenza è alla base delle pessime performance di settori come l’acqua e il trasporto locale, mentre la mancanza di concorrenza e l’eccesso di regole provocano l’estrema debolezza del settore della logistica.

Incidendo sui costi diversi dal costo del lavoro e in particolare sui costi sopportati dalle imprese e originati nel comparto dei servizi, la scelta della «disinflazione competitiva» avrebbe una razionalità macroeconomica. Un contrasto determinato delle tante posizioni di rendita che tuttora permangono e che si sono andate irrobustendo in questi ultimi anni nel mondo delle professioni, in quello dei servizi a rete (anche a livello locale), nel comparto dei servizi finanziari o in quello dei servizi alle imprese può, da un lato, contribuire ad alleggerire in misura significativa i bilanci aziendali e, dall’altro, sostenere considerevolmente il potere d’acquisto dei bilanci familiari e quindi consentire una evoluzione delle retribuzione nominali più contenuta.

Nel contempo, concentrare l’attenzione dell’esecutivo non solo sul versante dei servizi privati ma anche su quello dei servizi pubblici può finalmente condurre a modificare permanentemente le procedure e i meccanismi che regolano la spesa pubblica (dalla sanità all’istruzione, dall’assistenza alla ricerca, per non parlare del pubblico impiego). Ponendo le premesse per una modifica strutturale delle attuali, incontrollate, tendenze di segmenti importanti della spesa pubblica e, di conseguenza, ponendo le condizioni per un risanamento realmente duraturo delle finanze pubbliche.

Un’analisi anche superficiale dei costi-benefici della spesa pubblica italiana suggerisce che deve esserci un modo di essere efficienti senza necessariamente sprecare risorse. Non a caso, tra le aneddotiche vicende del settore pubblico italiano, si annoverano una mancanza cronica di aule per l’insegnamento e, nel contempo, uno sperpero significativo di medicinali. È proprio qui che sta uno dei compiti più importanti per il prossimo governo: riportare la pubblica amministrazione alla sua missione principale, rispondere alle necessità dei cittadini e controllare. Ed è proprio agendo su questo aspetto che sta la possibilità di avere finanze pubbliche sotto controllo. Non più misure una tantum, ma un diligente programma di medio periodo finalizzato a dare una diversa impostazione alla struttura del bilancio molto più che a tentare di metterlo sotto controllo anno dopo anno, intervenendo al margine.

Una strategia che sarebbe in grado, simultaneamente, di rassicurare gli italiani (ancora piuttosto sconcertati e confusi dagli eventi degli ultimi anni), di dare, al tempo stesso, una scossa a quei settori della società italiana – e sono tanti – che vogliono rialzare la testa e combattere e, infine, di ridistribuire equamente su tutte le componenti della società italiana il carico di flessibilità e di competizione necessario per restituire al paese un ruolo nei mercati globali.

Partendo peraltro da una fondamentale premessa: tanto le politiche per spingere la crescita potenziale del paese ai livelli dei nostri partner, europei e non, quanto quelle per riportare permanentemente in equilibrio la finanza pubblica non si improvvisano né, tanto meno, è pensabile che le si possa realizzare operando in termini incrementali, come impone ogni legge finanziaria. Perché allora non immaginare di porre l’intero peso di autorevolezza e di credibilità del prossimo governo dell’Unione su un programma di riforme strutturali concordato – tanto nei modi quanto nei tempi – con l’Europa che impegni i primi due anni della prossima legislatura e che ponga le premesse per un sostenibile e duraturo rientro della finanza pubblica nel triennio successivo (fino e oltre il limite del 3%)? Perché non immaginare un biennio di semplice (ma severa e accurata e soprattutto concentrata sullo stock di debito e attenta all’evoluzione dei tassi di interesse) manutenzione della finanza pubblica che faccia da sfondo a un impegno corale a varare, per fare solo degli esempi, la legge sul risparmio (quella vera!), la riforma delle professioni e quella del sistema radiotelevisivo entro il 2006, la liberalizzazione del settore energetico e dei servizi pubblici locali e la piena operatività di nuove procedure di controllo della spesa in campo sanitario, per farne altri, nel 2007? Questa sequenza temporale consentirebbe, da un lato, di non veder strozzata l’attività di riforma dall’impellenza delle annuali «manovre» e, dall’altro, permetterebbe di disporre nel secondo triennio della legislatura degli strumenti necessari per abbattere il disavanzo a velocità superiore e in maniera permanente anche – ma non solo – a ragione di una diversa dinamica del potenziale.

Ci sono poi due temi specifici che sono caduti nel dimenticatoio e che non possono non far parte integrate di una strategia di medio periodo. Il primo riguarda i rapporti tra il centro e la periferia dello Stato. Negli ultimi dieci anni l’Italia è stata sottoposta a un grande, e per molti versi necessario, processo di decentramento. Non è stato sempre ben ponderato e potrebbe anche diventare pericoloso se seguirà le linee discusse in parlamento negli ultimi due anni. Tuttavia, il tema che riguarda come tenere sotto controllo la spesa locale e regionale e come delineare la parte fiscale del federalismo è destinato a diventare una delle questioni principali della prossima legislatura. La situazione attuale è infatti semplicemente intenibile: trasferire responsabilità su livelli decentrati di governo senza rispondere in maniera adeguata al problema di una tassazione locale e regionale non può durare a lungo. Nello stesso tempo ci troviamo di fronte, infatti, a una spesa incontrollata e a un taglio di quei servizi che dovrebbero essere forniti soprattutto a livello locale.

La seconda questione da tenere a mente è quella del Mezzogiorno. Molto probabilmente oggi si tratta della causa principale di sperpero di finanze pubbliche. E quindi, dopo dieci anni segnati dalla retorica del definitivo superamento dell’intervento straordinario, da un lato, e «dei» Mezzogiorni, dall’altro, forse è arrivato il momento di riconoscere le difficoltà che questa ha generato: la frantumazione dell’intervento pubblico, la moltiplicazione dei livelli di intermediazione, la sproporzione fra l’impegno massiccio di energie e di risorse e l’esiguità dei risultati. Nella prossima primavera si andranno a definire le linee guida delle politiche di coesione per il periodo 2007-2013. Qui è necessario che nel breve spazio di poche settimane la rotta venga consapevolmente invertita rispetto a quella prevalsa negli ultimi anni.

Per ricapitolare, l’euro ha messo gli italiani di fronte a una realtà rimossa da sempre. Il risultato delle elezioni del 2001 può essere interpretato come un tentativo disperato di dimostrare che Milton Friedman aveva torto e che c’era ancora la possibilità, proprio in Italia, di trovare un «pasto gratis». Di fatto noi dovremmo ringraziare il governo Berlusconi per aver dimostrato agli italiani, nella maniera più convincente e assoluta, che invece Milton Friedman aveva inequivocabilmente ragione. Il compito più importante per il prossimo governo sarà proprio quello di far vedere chiaramente agli italiani la realtà di un paese immobile, invecchiato e impaurito, ma anche di convincerli delle grandi potenzialità di quello stesso paese. Di persuaderli che un nuovo inizio è non solo possibile, ma anche desiderabile.

Non sarà una strada facile, non c’è dubbio. E non mancherà chi osserverà che per fare tutto ciò è necessaria molta ambizione e tanto coraggio. Ma è bene dirsi, senza infingimenti, che senza ambizione e senza coraggio questo paese non si rimetterà in piedi.