Il non profit della ricerca italiana: cause e rimedi

Di Rita Levi-Montalcini e Ignazio R. Marino Lunedì 01 Maggio 2006 02:00 Stampa

Un paese che non investe sulla ricerca e sui suoi giovani è un paese che svende il proprio futuro». Questa frase, pronunciata al termine di una trasmissione televisiva da un anziano professore universitario americano di origine italiana, racchiude in sé i due problemi principali che riguardano la situazione attuale del settore della ricerca in Italia e le prospettive per gli anni che verranno e che determineranno la posizione del nostro paese tra le grandi nazioni che trainano la crescita e il progresso del pianeta, oppure la sua retrocessione nel gruppo dei paesi in via di sviluppo o forse, sarebbe meglio dire, di quelli in via di «incerto» sviluppo.

 

Un paese che non investe sulla ricerca e sui suoi giovani è un paese che svende il proprio futuro». Questa frase, pronunciata al termine di una trasmissione televisiva da un anziano professore universitario americano di origine italiana, racchiude in sé i due problemi principali che riguardano la situazione attuale del settore della ricerca in Italia e le prospettive per gli anni che verranno e che determineranno la posizione del nostro paese tra le grandi nazioni che trainano la crescita e il progresso del pianeta, oppure la sua retrocessione nel gruppo dei paesi in via di sviluppo o forse, sarebbe meglio dire, di quelli in via di «incerto» sviluppo.

I dati più organici attualmente disponibili sono stati raccolti dal Censis1 nel 2002 in un rapporto realizzato sulla base di un questionario inviato a 2.600 ricercatori e professori italiani all’estero, 737 dei quali hanno inviato le loro risposte. «Nel nostro paese – si legge nel rapporto Censis – non esiste una chiara misura del fenomeno della fuga dei cervelli, che sembra essere grave non tanto in termini numerici quanto nelle modalità e nelle caratteristiche che assumono le traiettorie di fuga». Nonostante i dati frammentari e la difficoltà di ricostruire un quadro esatto del fenomeno, appare evidente il cambiamento di tendenza rispetto a quanto accadeva in passato quando giovani medici, biologi, genetisti ecc. lasciavano l’Italia alla ricerca di opportunità più vantaggiose o per occasioni di crescita professionale migliori; oggi, sempre più spesso, chi opta per un lavoro o un progetto di studio all’estero lo fa come unica prospettiva di lavoro.

A questo proposito, vale la pena soffermarsi sulle caratteristiche dei ricercatori che lasciano l’Italia alla volta di un paese straniero per accedere a posizioni e a progetti di ricerca qualificanti.

Secondo il Censis, tra i ricercatori italiani che operano in università o enti di ricerca all’estero, il 90% si è laureato in un’università pubblica italiana, il 68,5% ha un dottorato di ricerca conseguito dopo la laurea (di cui il 63,1% conseguito all’estero), il 34% ha una specializzazione post-laurea. È significativo il dato secondo cui il 58,8% lascia il paese tra i trenta e i quarant’anni, ovvero nella fase più creativa e produttiva della carriera professionale di ogni individuo. Molti partono per completare un percorso di formazione che in Italia considerano insufficiente, ma l’esperienza, considerata inizialmente come provvisoria, si trasforma spesso in permanente data la scarsità delle offerte in patria e la chiusura del sistema universitario nell’accogliere chi abbia maturato una ulteriore specializzazione o crescita professionale all’estero. Tre quarti delle persone intervistate, infatti, riferisce di risiedere stabilmente all’estero da un minimo di quattro anni a periodi superiori ai dieci anni. Del resto, i tentativi e i progetti concreti per tentare di fare rientrare in Italia i cosiddetti «cervelli» sono stati sempre modesti e i finanziamenti destinati in passato a questo scopo sono stati congelati dall’ultima finanziaria.

I paesi di destinazione di chi sceglie di dedicarsi alla ricerca all’estero sono noti: il principale polo di attrazione è rappresentato dagli Stati Uniti, che attirano il 34,3% dei ricercatori italiani, in particolare nei settori della fisica (23,8%) e della medicina (18,9%). Al secondo posto troviamo il Regno Unito, con il 26% dei ricercatori emigrati, seguito dalla Francia, meta preferita dai ricercatori impegnati in campo medico, in particolare in progetti di studio sui tumori.

Ma perché andarsene? Il 60% parla di scarse risorse disponibili per le attività di ricerca, di condizioni economiche migliori all’estero, di prospettive di un più rapido sviluppo di carriera. A queste ragioni si aggiungono i motivi per non tornare che vanno dall’eccessiva burocratizzazione della ricerca, alla carenza di tecnologie e laboratori, dalla chiusura del mondo universitario che si esplicita in posti di lavoro non adeguati fino all’incertezza rispetto alle prospettive di carriera. Ma, probabilmente, l’aspetto più rilevante che tutti i ricercatori italiani all’estero vorrebbero comunicare, è il timore di ritornare in un sistema che non attribuisce alcun valore al merito e che invece offre promozioni e opportunità, oltre che finanziamenti seppur modesti, sulla base di meccanismi non trasparenti e non misurabili.

Non siamo di fronte ad una fisiologica mobilità scientifica; sono i diretti interessati a mettere in evidenza, attraverso l’analisi e il resoconto delle proprie esperienze personali,2 che la fuga dei cervelli costituisce un fenomeno unitario, proprio dei ricercatori italiani non liberi viaggiatori ma spinti dallo stato di malattia della ricerca italiana. I ricercatori non si sono spostati, sono andati via e continuano ad andarsene in maniera progressiva e sempre più accelerata. I blocchi delle assunzioni nelle università e nei centri di ricerca e il progressivo taglio dei finanziamenti rendono sempre più difficile, se non impossibile, accedere a posizioni permanenti, o per lo meno dignitose, all’interno delle università e degli enti di ricerca italiani.

Mancanza di strategie favorevoli, carenza di strutture e finanziamenti adeguati, assenza di criteri trasparenti e meritocratici di valutazione: sono questi i mali della ricerca italiana, aggravati da un disinteresse politico.

Una rapida osservazione della situazione attuale degli investimenti in Italia serve a supporto di tale ragionamento. I dati ufficiali dimostrano che l’Italia investe in ricerca l’1,14% del PIL contro il 4,27% della Svezia, il 2,50% della Germania, il 2,19% della Francia, il 2,59% degli Stati Uniti.3

Ma è significativo che negli ultimi anni paesi emergenti, in particolare Cina e India, abbiano puntato molto sulla ricerca, favorendo il rientro dei loro cervelli dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna dove tradizionalmente emigravano e creando per loro le condizioni per poter mettere a disposizione le competenze acquisite all’estero e allo stesso tempo aumentando gli investimenti nel settore della ricerca.

Se si osserva poi il numero di persone impegnate nel settore della ricerca, le differenze sono ancora più evidenti: nel 2002 in Italia i ricercatori che lavoravano a tempo pieno erano 71 ogni 1.000 occupati, in Gran Bretagna erano 157, più del doppio, in Francia 186 e in Germania si contavano 265 ricercatori ogni mille persone occupate.

Oltre alla quantità di fondi destinati alla ricerca e al numero di persone impiegate, va valutata la qualità della ricerca italiana, ben documentata in un’analisi pubblicata sulla rivista inglese «Nature» nel luglio del 20044 da David A. King, allora primo consigliere scientifico del governo Blair. L’analisi sul rapporto tra la produzione di ricerca scientifica e gli investimenti pubblici, non solo rende tangibile la superiorità americana, nota da tempo, ma mette in evidenza alcune strategie nazionali che hanno determinato il successo o il fallimento di politiche di sviluppo in Europa e nei paesi più avanzati del continente asiatico. L’Europa è al secondo posto dopo gli Stati Uniti per produzione di ricerca scientifica, ma il distacco è tale che non ha senso parlare di reale competizione.

Tra il 1997 e il 2001 il 62% delle più significative pubblicazioni scientifiche sono targate USA, mentre tutti insieme i quindici paesi della vecchia Unione europea arrivano al 37%. La seconda nazione più produttiva è stata la Gran Bretagna, con il 12,78% delle pubblicazioni, mentre l’Italia si posizionava, cinque anni fa, solo al settimo posto, con il 4,31% di pubblicazioni significative, e con molta probabilità oggi la situazione sarebbe anche peggiore dato l’impegno minimo compiuto dal nostro paese a fronte di importanti investimenti e sforzi a favore della ricerca compiuti negli ultimi anni dai paesi emergenti. Un tale distacco da parte degli Stati Uniti è il frutto di una precisa strategia, vincente, perseguita con costanza da cinquant’anni. In Nord America i cosiddetti «cervelli» vengono considerati una risorsa non solo necessaria, ma essenziale e imprescindibile per la crescita del paese, una conditio sine qua non per garantire progresso scientifico, tecnologia e sviluppo economico. Gli USA hanno intrapreso una politica volta ad attrarre medici, scienziati e ricercatori da tutti i continenti (nel 2003 i visti concessi per personale straniero altamente qualificato sono stati quasi duecentomila) e così si sono arricchiti, e continuano a farlo, mentre gli altri paesi perdono risorse preziose, per di più dopo averle formate a caro prezzo se si pensa che in Italia lo Stato spende circa 500.000 euro per un percorso formativo di una persona dalla scuola elementare fino al dottorato. Se tuttavia si punta l’attenzione sull’aspetto della qualità della ricerca, riscontriamo notizie più incoraggianti: l’Italia si colloca infatti al settimo posto per impact factor sulle 140 nazioni del mondo che hanno una produzione scientifica di qualità. Vale a dire: i ricercatori in Italia ci sono, ma lavorano in condizioni precarie. È facile così dedurre che, se fossero finanziati adeguatamente, l’Italia potrebbe eccellere, o per lo meno risultare competitiva a livello internazionale.

Ma per aspirare al raggiungimento di risultati positivi bisognerebbe prima avere le idee chiare e una strategia in mente. Il Giappone, ad esempio, ha scelto la strada della «fidelizzazione»: si accede a un posto di ricercatore anche senza una formazione di alto livello, ma si rimane a lavorare nello stesso posto per tutta la vita, così la formazione avviene internamente e il ritorno sull’investimento è assicurato sul lungo periodo. Gli USA hanno invece adottato l’atteggiamento opposto: si assume solo personale altamente specializzato pronto a produrre, meglio se straniero e quindi già formato nel paese d’origine, e in questo modo non si spende nemmeno un dollaro per sostenere i costi della formazione. Il Regno Unito, consapevole del ritardo accumulato nei confronti dei cugini d’oltreoceano, negli anni Novanta ha puntato sul coinvolgimento della grande industria per favorire la ripresa del settore della ricerca, conscio che lo Stato da solo non avrebbe potuto sostenere l’onere di investimenti massicci. Così, grazie ad interessanti accordi reciproci, i settori più produttivi del capitalismo industriale inglese hanno portato la Gran Bretagna ad avere il più alto tasso di investimenti in ricerca pubblica di tutto il mondo.

In Italia, nonostante il fenomeno dell’emigrazione massiccia dei ricercatori sia riconosciuto da tutti, per il momento l’unica strada che si continua a perseguire è quella di una miope generosità nei confronti degli altri paesi: si formano i ricercatori a spese del sistema scolastico pubblico per poi lasciarli andare a lavorare all’estero a tutto beneficio del paese di destinazione. È legittimo, di fronte ad uno scenario che non mostra segni tangibili di cambiamento, concordare con Umberto Veronesi quando scrive: «Non investire in ricerca scientifica e non creare una comunità scientifica adeguata significa condannare il paese all’obsolescenza culturale e alla dipendenza tecnologica che, come la storia ci conferma, facilmente si trasforma in dipendenza politica».5

La ricerca italiana è in crisi da molti anni e molte proposte sono state avanzate per intervenire in un settore da tutti riconosciuto come cruciale. I progetti di riforma sono stati tanti e tali da dieci anni a questa parte che ormai si parla di «riforma continua», come riferito anche a livello internazionale in un ampio articolo pubblicato su «Nature» lo scorso marzo.6 Nel 1996 il governo Prodi ha avviato una prima fase di riforma degli enti di ricerca, spazzata via dopo cinque anni dall’impostazione del governo Berlusconi, che ha ridotto i già insufficienti fondi destinati alla ricerca di base per orientarsi quasi esclusivamente sul settore della ricerca applicata, trascurando il fatto che le applicazioni di maggior rilievo derivano proprio dalla ricerca di base.

L’articolo pubblicato sull’autorevole rivista anglosassone sottolinea ancora una volta che i problemi principali riguardano l’eccessivo peso della burocrazia, un’irragionevole aspettativa di ritorno immediato sugli investimenti, i finanziamenti troppo esigui (circa la metà di quelli che si attenderebbero da un paese con le caratteristiche di grandezza e di ricchezza dell’Italia), oltre che la pochissima meritocrazia. E il commento di Carlo Rubbia, premio Nobel per la fisica nel 1984, è forse il più eloquente: «I fisici hanno sviluppato una teoria per il caos, ma l’Italia sta conducendo una vera sperimentazione sul caos».7

Per invertire questa tendenza sarebbe necessario modificare la formazione universitaria e post-universitaria, così come ripensare le carriere professionali, i salari, ma anche le responsabilità e i doveri dei ricercatori di maggior talento, puntando sulla trasparenza e sulla meritocrazia.

La prospettiva strategica proposta dal programma dell’Unione, riassunta nello slogan «conoscere è crescere», mira a invertire la rotta e avanza proposte precise e concrete per recuperare consistenti ritardi e squilibri legati alla ricerca, che si riflettono anche nel campo economico e sociale. «Sul piano degli investimenti necessari al sistema università, enti di ricerca, ricerca industriale, occorre varare un piano di incremento che comprenda anche le risorse umane, e che permetta di raggiungere, entro la fine della legislatura, l’attuale media europea pari al 2% del PIL».8

Oltre all’investimento nelle risorse umane è necessario per il nostro paese attuare una totale revisione delle strutture esistenti, incrementare i finanziamenti alla ricerca e favorire la sinergia tra università, enti di ricerca e industria privata.

Un esempio di quanto potrebbe essere fatto anche in Italia nell’ambito del settore delle biotecnologie è rappresentato da un progetto americano chiamato «Incubator», nato da poco ma che ha già dimostrato risultati incoraggianti. Partendo da uno stanziamento di fondi pubblici di venti milioni di dollari, la società BioAdvance, che ha inventato l’Incubator, ha selezionato i venti progetti più promettenti sui duecento presentati da altrettanti ricercatori, tutti relativi alla ricerca sulle biotecnologie. La fase di start-up di queste piccole aziende biotecnologiche è stata così finanziata tramite prestiti agevolati con fondi pubblici di moderata entità e successivamente sostenuta da investimenti da parte di partner privati come le università, le aziende farmaceutiche, le camere di commercio ecc. Statisticamente si calcola che almeno quattro dei venti progetti avviati avranno successo e nel giro di dieci anni il ritorno economico che produrranno sarà di dieci volte superiore all’investimento iniziale. Le giovani compagnie potranno a questo punto essere vendute a società più importanti o attrarre l’interesse di eventuali venture capital. L’Incubator riscuoterà il prestito iniziale e gli eventuali proventi ottenuti dalla vendita delle società e utilizzerà questi guadagni per proseguire con il finanziamento di nuovi progetti di ricerca. Un circolo virtuoso che favorisce l’iniziativa dei singoli ricercatori, offrendo loro la possibilità di fare ricerca, libera e creativa, anche al di fuori dall’ambito universitario.

Il professor Nicola Cabibbo nel considerare il problema delle strategie da promuovere nel settore della ricerca a livello universitario o di istituzioni scientifiche ha prospettato un punto di vista che è valido non soltanto per la fisica, ma anche per tutte le altre scienze, in particolare quelle biologiche: «Il potenziale innovativo di una struttura scientifica deriva in ultima analisi dalla capacità di mantenere un vigoroso flusso di conoscenze nei due aspetti del sapere», cioè di produrre nuove idee scientifiche e tecnologiche e della loro applicazione.

Fatte queste considerazioni, si deve affrontare il problema della definizione dei criteri per il finanziamento della ricerca scientifica e tecnologica che devono essere basati principalmente sulle tre fasi della valutazione: ex ante, che riguarda la proposta del progetto di ricerca; in itinere, che concerne il monitoraggio periodico; e ex post, che considera i risultati conseguiti.

Nello stabilire i criteri di giudizio è quanto mai importante la scelta dei valutatori, che debbono essere reclutati in base alla loro competenza e all’alto valore etico. Importante l’inserimento, tra questi, di scienziati stranieri che godono di prestigio nel settore in esame e non hanno rapporti di lavoro con i proponenti.

Nella prima fase, ex ante, la competenza e l’impegno devono essere qualità inscindibili del proponente. La validità del progetto di ricerca deve essere basata su una profonda conoscenza del problema in esame e sulla capacità di affrontarlo in modo non convenzionale, senza lasciarsi condizionare dai dogmi imperanti. Il ricercatore generalmente ritiene che nel finanziamento si tenga conto della rilevanza della ricerca volta a problematiche particolarmente scottanti. Tuttavia, la rilevanza non ha valore se non sostenuta dalle qualità esposte.

Nella seconda fase, in itinere, la verifica dell’andamento della ricerca e di una sua eventuale deviazione a seguito dei risultati conseguiti possono imporre un cambiamento di rotta e richiedono perciò una flessibilità valutativa.

Nella terza fase, ex post, si devono considerare, non soltanto i risultati conseguiti alla fine della ricerca, ma anche a distanza di anni per un possibile ulteriore sviluppo, cioè l’apertura di nuovi scenari o di ulteriori progressi.

Se si riuscirà a stabilire le norme per una rigorosa valutazione dei progetti nell’assegnare un adeguato finanziamento, si può sperare in un apporto innovativo, per raggiungere il livello necessario per competere con altri paesi nei quali la ricerca è sottoposta ad un attento controllo e valutazione. L’uno e l’altro sono a tutt’oggi carenti nello scenario scientifico e tecnologico della ricerca italiana.9

 

 

Bibliografia

1 Rapporto annuale Censis 2002, XXXVI Rapporto sulla situazione sociale del paese.

2 ADI (Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani), Cervelli in fuga. Storie di menti italiane fuggite all’estero, Avverbi Edizioni, Roma 2001.

3 Fonte EUROSTAT, dati relativi al 2003.

4 Cfr. «Nature», 15 luglio 2004, pp. 311-316.

5 U. Veronesi, Cervelli, addio ritorno, in «La Repubblica», 10 maggio 2006.

6 Alison Abbott, Saving Italian Science, in «Nature», 16 March 2006.

7 Ibid.

8 Cfr. Per il bene dell’Italia. Programma di Governo 2006-2011 e www.unioneweb.it.

9 Si ringrazia la Dott.ssa Alessandra Cattoi per l’aiuto ricevuto nella ricerca del materiale e nella stesura del testo.