La crisi attuale segna un profondo cambiamento d’epoca. Non si tratta soltanto di una crisi finanziaria, economica e ormai pesantemente sociale; si tratta di una crisi politica e culturale. Si chiude un ciclo caratterizzato da una globalizzazione senza regole, dal dominio dell’ideologia ultra liberale. Tramonta l’illusione dogmatica dell’infallibilità del mercato. Al centro del dibattito pubblico tornano idee fondamentali che sono proprie della tradizione socialista. La crisi attuale segna un profondo cambiamento d’epoca.
Quali sono le ragioni della crisi in cui versano le socialdemocrazie europee? La causa principale di queste difficoltà risiede probabilmente nella loro incapacità di proporre un programma politico adeguato alle trasformazioni che, negli ultimi trent’anni, hanno riguardato le strutture produttive del capitalismo. Sebbene spesso lucide nella comprensione delle trasformazioni che stavano alterando la natura del lavoro, le strutture dell’economia e il quadro geopolitico, le socialdemocrazie non hanno fatto seguire all’analisi azioni politiche e sociali adeguate.
L’offensiva delle forze neoconservatrici e neoliberiste guidata dalla Thatcher e da Reagan al predominio socialdemocratico, che aveva caratterizzato il periodo compreso fra la fine della seconda guerra mondiale e gli anni Settanta, fondata da un lato su alcuni rapidi cambiamenti delle strutture produttive e delle tecniche organizzative del lavoro e rafforzata, dall’altro, da eventi epocali come il crollo dell’URSS e lo sviluppo economico di Cina e India, ha colto impreparate le socialdemocrazie europee, messe in crisi dal profondo cambiamento delle condizioni che ne avevano garantito l’ascesa e il consolidamento. Quali sono quindi, ora, le premesse per una possibile ripresa della socialdemocrazia?
Negli anni successivi alla caduta del muro di Berlino e al crollo del comunismo, la sinistra ha cercato di costruirsi una nuova identità senza riuscire a sfuggire alla sua tradizionale dicotomia: massimalismo e verbalismo rivoluzionario da una parte, compromesso parlamentare dall’altra. E senza riuscire a rispondere all’interrogativo se il 1989 abbia sanzionato il fallimento di un’esperienza storica (quella del comunismo) o non invece la vittoria del capitalismo e la scomparsa dall’orizzonte storico di un suo possibile antagonista.
L’attuale crisi economica offre uno spunto di riflessione per analizzare un’altra crisi, quella delle socialdemocrazie europee, che è stata drammaticamente messa in evidenza dai risultati delle ultime elezioni, ma che ha le sue radici più indietro nel tempo e, in particolare, nell’incapacità dei partiti socialisti e socialdemocratici europei di intuire e sfruttare a proprio vantaggio la portata internazionalista del processo di globalizzazione. La “tempesta perfetta” economica offre un’imperdibile occasione per fornire risposte adeguate e sviluppare un nuovo progetto politico.
Alla fine dell’Ottocento Eduard Bernstein espresse una dura critica al marxismo e individuò alcuni tratti dello sviluppo capitalistico che ne avrebbero impedito il crollo predetto da Karl Marx. La socialdemocrazia, secondo Bernstein, avrebbe dovuto riadattare la sua strategia, per aiutare la classe operaia a migliorare la propria condizione economica, sociale e culturale. Nel corso del Novecento la socialdemocrazia europea ha ottenuto importanti risultati. Ma le ultime elezioni europee hanno evidenziato come essa versi in un profondo stato di crisi, dovuto ai radicali mutamenti avvenuti in seno alle società europee e nella classe operaia in particolare.
In seguito alle sconfitte elettorali subite, sembra ora che le socialdemocrazie europee si stiano interrogando sulla necessità di riformare il modello economico proprio del socialismo democratico. Senza un’azione in questo senso non potrà avvenire alcun recupero dei voti tradizionalmente o potenzialmente socialdemocratici persi negli ultimi anni.
«Non dobbiamo mai smettere di pensare: che ‘civiltà’ è questa in cui ci troviamo a vivere?». La domanda che Virginia Woolf solleva nel 1938 ci riguarda, dopo oltre settant’anni, per più di una ragione. Ciò che preme qui mostrare è che essa necessita (tra l’altro) di risposte filosofiche cogenti, quando affrontiamo i concetti di sesso e genere in una “civiltà” prodiga di prove d’inciviltà: smettere di pensare potrebbe tramutare una civiltà in un coacervo di patologica disumanità.
L’universo femminile è spesso rinchiuso in stereotipi. Non è vero che “così fan tutte”, né in amore né in politica. C’è al contrario una gran varietà di atteggiamenti, di scelte e di pratiche corrispondenti. Da tempo l’attenzione viene giustamente diretta non solo a ciò che fanno realmente le donne nei luoghi canonici della politica, ma anche alle pratiche messe in atto dalle donne in zone adiacenti o apparentemente estranee, nella vita quotidiana, nella scuola, nelle professioni, nella riflessione filosofica e nella scrittura poetica.
Lasciando sullo sfondo l’ambivalenza e la problematicità dell’etica contemporanea, in questo contributo si affronta la riflessione femminista nella sua prismaticità, pertanto si analizza sia il filone della differenza sessuale sia la produzione statunitense che, contro la favola sostanzialista, propone l’io nomade. Infine si affronta il tema etico-politico di una teoria critica della differenza, che deriva dal dibattito relativo alla pluralità (etnica, religiosa, culturale) presente nelle società attuali.
L’esperienza comparata mostra che il lavoro delle donne costituisce un volano di sviluppo: è dunque urgente attivare questo volano anche nel nostro paese. In Italia manca però una stabile “coalizione pro-donne”, capace di influire sui processi di formazione delle politiche pubbliche e sull’allocazione delle risorse di bilancio.
Quali sono i limiti che le donne incontrano nella crescita professionale e nell’accesso ai vertici in Italia e in Europa? Quali potrebbero essere i vantaggi di creare maggiori spazi per l’accesso delle donne a posizioni chiave? E quali politiche potrebbero sostenere il passaggio ad un mondo in cui le capacità femminili possano essere maggiormente valorizzate?
In Europa permangono forti differenze tra paesi nelle politiche di conciliazione. Ma anche le più generose tra queste misure non sono sufficienti a contrastare le disuguaglianze tra uomini e donne nelle diverse sfere di attività e potere. Per superare queste disuguaglianze occorrono sistematiche iniziative di contrasto alla posizione monopolistica maschile.
In Italia, per la cura degli anziani e della casa ha prevalso il “modello colf e badanti”. Mentre per decenni, nel Novecento, il personale domestico sembrava destinato a un inesorabile declino, l’offerta di lavoratori provenienti dall’estero ha contribuito a ribaltare la situazione. Oggi si assiste pertanto a uno stridente contrasto tra la retorica anti-immigrazione di una parte delle forze di governo e l’interesse (e la disponibilità) della popolazione ad aprire la propria casa a colf e “badanti” immigrate/i.
I rapporti tra la Russia e i paesi dell’Unione europea sono caratterizzati da una forte dipendenza energetica dell’Europa nei confronti di Mosca. La difficoltà di conciliare le politiche economiche globali con il crescente bisogno di attingere a nuovi canali di approvvigionamento energetico fa emergere l’illusoria prospettiva di una facile diversificazione delle fonti di energia da parte dei paesi europei.
La sfida strategica che si pone di fronte alla Russia e al suo governo nella crisi attuale consiste nella creazione di condizioni per l’attuazione di riforme strutturali fondamentali per frenare la dipendenza dalla domanda mondiale di combustibili, di materie prime e di prodotti a basso livello tecnologico. È possibile risolvere questo problema riducendo la subordinazione della Russia dall’andamento dell’economia dei paesi più sviluppati. A questo scopo è necessario compiere alcune significative riforme strutturali.
La lacuna lasciata aperta, nel 2001, dalla riforma del Titolo V della Costituzione sull’adeguamento del Parlamento alla riforma in senso federale va colmata al più presto. Il sistema delle Conferenze non è in grado di supplire all’assenza di una Camera delle autonomie e il bicameralismo perfetto appare incompatibile con una logica di tipo maggioritario. La cosiddetta bozza Violante, con qualche modifica, può costituire un buon punto di partenza.
È auspicabile una riforma del bicameralismo italiano? La risposta positiva è strettamente connessa al a funzione di bilanciamento che le seconde camere riescono a svolgere allorché il sistema dei partiti tende ad assumere forme asimmetriche (presentando cioè la progressiva formazione di partiti regionali). Dopo aver mostrato i fattori di ordine costituzionale condizionanti il funzionamento delle seconde camere, si evidenzia che sul processo di riforma influisce in maniera decisiva la questione, tutta italiana, della rappresentanza, nella seconda Camera, degli enti locali.
La riforma del bicameralismo con la previsione di una Camera territoriale è ormai ineludibile. È però cruciale determinare ruolo e funzioni di questa Camera, muovendo da un coerente e fattibile modello di partenza e considerando la capacità di adeguamento da parte del sistema politico. A tal fine occorrerà fare tesoro delle principali esperienze straniere e delle più recenti elaborazioni in ambito parlamentare.
Il modello delle relazioni interistituzionali non riesce a contenere e regolare la contrattazione politica secondo un obiettivo che guardi ad una composizione alta degli interessi. Il processo in atto che mira all’attuazione dei federalismi indica nuove forme di governance, ma sussiste il pericolo, esiziale per il sistema che si intende realizzare, o di un eccesso di governance o di una governance con una doppia personalità. Intervenire in questa materia è oggi necessario; è però opportuno anche tenere presente che concertazione fra gli esecutivi e innesto nel Parlamento degli interessi delle istituzioni territoriali possono rappresentare due momenti complementari e non alternativi della vita politica e istituzionale.
Per combattere le spinte disgregatrici presenti nel dibattito politico e istituzionale occorre valorizzare i luoghi istituzionali nei quali le autonomie debbono confrontarsi reciprocamente per comporre i propri interessi al fine di manifestare una posizione comune. Fra questi, un ruolo assolutamente preminente possono avere le Conferenze Stato-Regioni, Stato-Città e autonomie locali, e unificata, purché interessate da un vero processo di riforma che ne valorizzi il ruolo, adattandone la disciplina al mutato contesto successivo alla revisione del Titolo V della Costituzione e alle modifiche prodottesi nella forma di governo locale, regionale e statali.
Nella sua terza enciclica, “Caritas in veritate”, Benedetto XVI lancia un messaggio di forte continuità con la tradizione della dottrina sociale della Chiesa, inaugurata dalla “Rerum novarum” di Leone XIII nel 1891. Sviluppando il tema della necessaria integrazione tra ricerca di giustizia e sviluppo integrale del-l’uomo e della donna − pur in un mutato contesto sociale globale − l’enciclica di papa Ratzinger si richiama in particolare alla “Populorum progressio” di Paolo VI, interprete del messaggio del Concilio vaticano II e fiducioso assertore della possibilità di un nuovo patto tra Chiesa e umanesimo solidale per il raggiungimento della piena giustizia sociale.
L’ingenuo ottimismo positivista che ha caratterizzato le prime esposizioni della seconda metà dell’Ottocento ha ceduto il passo ad un sentimento di sfiducia. L’expo non è più, quindi, sinonimo di progresso, ma piuttosto di ricerca di un rimedio a quegli eccessi che il progresso ha imposto come effetti secondari e di riflessione su un discorso complesso che non può esaurirsi nella semplice messa in mostra di una serie di oggetti. Per questi motivi l’idea stessa di expo ha bisogno di un profondo ripensamento.
Come è possibile che i nuovi strumenti matematici non siano stati in grado di dare l’allarme sulla crisi economica che si stava avvicinando? La ragione, probabilmente, sta nel fatto che alle loro misurazioni viene attribuita un’esattezza di cui sono carenti.