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Gaza. Una guerra, molte guerre.

di Lucio Caracciolo - 21/12/2023 

 1. La guerra di Gaza non è la guerra per Gaza. Il 7 ottobre è iniziata una nuova, decisiva fase bellica che determinerà il futuro della regione. Una guerra che potrà estendersi non solo ai territori intorno allo Stato ebraico, a cominciare dal Libano, ma coinvolgere tutta l’area tra Mediterraneo orientale, Mar Rosso Mar Nero e Oceano Indiano. Così toccando di fatto il teatro russo-ucraino. I due tronconi principali della Guerra Grande – come Limes definisce lo scontro sempre meno indiretto fra le potenze massime, Stati Uniti, Russia e Cina – verrebbero così a integrarsi.

 

Articoli del numero 2/2023

Del numero 2/2023 di Italianieuropei sono disponibili integralmente gli articoli di  Anna Colombo, Danilo Türk, Angelo Vincenzo Zani, Hannes Swoboda, Fausto Anderlini e Marcella Mauthe.

 

Una pace possibile per l'Europa. Astensionismo e crisi dei sistemi democratici. Italianieuropei 2/2023

Una pace possibile in Europa | A poco più di un anno dallo scoppio della guerra in Ucraina, nonostante i quotidiani appelli alla fine del conflitto, non si intravedono spiragli né per un cessate il fuoco né per l'attuazione di un concreto percorso di pacificazione. Si fa strada solo la certezza che siamo di fronte ad un conflitto che travalica la dimensione regionale e la cui soluzione richiederà il coinvolgimento di tutte le grandi potenze del nostro tempo nel tentativo di sviluppare una pace duratura e un sistema di sicurezza sostenibile per l’Europa del futuro.

Astensionismo e crisi dei sistemi democratici | Sebbene la partecipazione al voto in Italia sia in costante declino ormai da molti anni, il dato relativo all'astensionismo nell'ultima tornata delle elezioni politiche supera la peggiore delle aspettative, con la percentuale di votanti crollata al 63,9%, quasi dieci punti inferiore rispetto al 2018. Numeri che necessariamente spingono ad una approfondita riflessione sullo stato di salute della nostra democrazia.

 

Le proteste contro Netanyahu e la questione palestinese

Il 4 novembre del 1995, a Tel Aviv, l’attivista di estrema destra Yigal Amir uccideva il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin, insignito l’anno precedente del Premio Nobel per la pace insieme al presidente Shimon Peres e al leader palestinese Yasser Arafat. Ma proprio il suo impegno per il dialogo con i palestinesi e in particolare la firma degli Accordi di Oslo, che gli valsero il Premio Nobel, furono il motivo che mosse la destra israeliana a scagliarsi contro Rabin e che spinse Yigar Amir ad ucciderlo al termine di una manifestazione in favore del processo di pace. Un anno dopo, nel maggio del 1996, Benjamin Netanyahu fu eletto per la prima volta premier alla guida di una coalizione formata dal Likud, da partiti religiosi e da formazioni di destra.

In questo numero

Una pace possibile in Europa | A poco più di un anno dallo scoppio della guerra in Ucraina, nonostante i quotidiani appelli alla fine del conflitto, non si intravedono spiragli né per un cessate il fuoco né per l'attuazione di un concreto percorso di pacificazione. Si fa strada solo la certezza che siamo di fronte ad un conflitto che travalica la dimensione regionale e la cui soluzione richiederà il coinvolgimento di tutte le grandi potenze del nostro tempo nel tentativo di sviluppare una pace duratura e un sistema di sicurezza sostenibile per l’Europa del futuro.

Astensionismo e crisi dei sistemi democratici | Sebbene la partecipazione al voto in Italia sia in costante declino ormai da molti anni, il dato relativo all'astensionismo nell'ultima tornata delle elezioni politiche supera la peggiore delle aspettative, con la percentuale di votanti crollata al 63,9%, quasi dieci punti inferiore rispetto al 2018.Numeri che necessariamente spingono ad una approfondita riflessione sullo stato di salute della nostra democrazia.

“Questo è apartheid”. Il regime di segregazione di Israele verso i palestinesi

Una guerra non “scaccia” le altre. L’eurocentrismo non può essere la ragione per cui sentire l’Ucraina più vicina a noi mentre la Siria, la Palestina, il Rojava curdo siriano, lo Yemen, l’Afghanistan non fanno notizia, non meritano un millesimo dello spazio mediatico dato alla guerra d’Ucraina. Gerarchizzare gli orrori e le ingiustizie che segnano il nostro tempo non dovrebbe far parte del DNA di una società democratica.
Eppure è ciò che sta accadendo. Sull’Ucraina si è imposta, è stata imposta, una narrazione dominante, deformante, totalizzante. Il dominio del pensiero unico. Vale per l’Ucraina. E per il conflitto israelo-palestinese. Ai filosofi con l’elmetto, agli strateghi della domenica, a una stampa in divisa, poco o niente interessa se la Palestina muore.

Quel che resta del giorno

La scena non può essere che l’annunciato, ma non meno sorprendente, ritorno al potere dei Taliban e quella della precipitosa e drammatica fuga occidentale dall’Afghanistan. Due decenni di conflitto, migliaia di vittime, masse di profughi, gigantesche risorse investite. Poi, quei turbanti nel palazzo presidenziale di Kabul. Come se il tempo fosse trascorso vanamente. In realtà le cose non sono così semplici, ma l’epilogo afghano produce, comunque, un effetto straniante. E suscita interrogativi che non si possono eludere.
Cosa rimane della lunga stagione iniziata con l’attacco di al Qaeda all’America, proseguita con le guerre di Bush jr. in Afghanistan e Iraq, la teorizzazione dell’esportazione della democrazia con ogni mezzo, la violenta deflagrazione siriana, l’illusoria stagione delle cosiddette “primavere arabe”, la proclamazione dello Stato islamico, la campagna terroristica in Occidente come articolazione del jihad globale, il riposizionamento dei regimi autocratici della Mezzaluna in funzione di antemurale islamista?

I movimenti islamisti tra crisi interne, pluralizzazione e tendenze post islamiste

A vent’anni dall’11 settembre 2001, dallo shock degli attacchi terroristici di matrice jihadista sul suolo americano, dall’avvio della guerra al “terrore”, dalle ultime in ordine di tempo esperienze americane di esportazione della democrazia con le armi in Afghanistan e Iraq, dall’avverarsi dello “scontro di civiltà” e dalle campagne di demonizzazione nei confronti dell’Islam ciò che sta accadendo in Afghanistan in questi mesi e settimane suona come il rintocco della campana che segna la fine di un’era. Un’era in cui gli Stati Uniti in particolare ma in generale tutto il mondo cosiddetto occidentale avevano cercato di mettere in atto quella che sembrava l’unica strategia possibile per difendersi dalla forza materiale e ideologica – penetrante, violenta e totalizzante – dell’estremismo di matrice islamista incarnato dai talebani e da al Qaeda prima e dalle varie manifestazioni dell’ISIS poi.

Il ritorno dei talebani a Kabul

Nel febbraio del 1989 gli ultimi soldati sovietici attraversarono l’Amu Darya, lasciandosi alle spalle un Afghanistan distrutto da dieci anni di guerra. Il ritiro, pur segnando una pesante sconfitta, era stato organizzato meticolosamente e avvenne in modo ordinato. È un ritiro molto diverso quello delle forze statunitensi e alleate al quale abbiamo assistito nei mesi scorsi, al termine di una guerra – la più lunga della storia americana – costata molte vite umane ed enormi risorse, e finita in una disfatta dell’Occidente tutto, e degli Stati Uniti in particolare che questa guerra l’hanno voluta e di cui hanno dettato tempistiche e strategie.

 

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