Andrea Ranieri

Andrea Ranieri

ex dirigente della CGIL e senatore del Partito Democratico.

Dalla scuola al lavoro, quello “buono”

Che si debba strutturare in modo proattivo il rapporto tra formazione e lavoro è auspicato da tempo da più parti. Nella realtà, però, ciò che si è fatto finora non solo si è rivelato insufficiente ma, quando si è realizzato un cambiamento, esso è stato improntato all’adeguamento dei percorsi formativi alle esigenze del mondo del lavoro esistente. Forse è necessario, invece, invertire i termini della questione e provare, dalla scuola, dall’università, dal mondo della formazione, superando ogni autoreferenzialità, a impegnarsi ancora di più nella progettazione dei percorsi formativi, nell’analisi sul cambiamento dei mestieri e delle professioni, nell’interazione con le sedi in cui si progetta lo sviluppo locale.

La formazione permanente. Le occasioni mancate

Per effetto della rivoluzione industriale trainata dall’elettronica e dall’informatica, il sistema produttivo e il mercato del lavoro di oggi richiedono sempre meno mansioni esecutive e sempre più lavoratori della conoscenza. Crescono la quantità di sapere che è necessario avere per inserirsi al meglio nel mondo del lavoro e la necessità per i lavoratori di aggiornare le proprie conoscenze per tutta la vita. Ciò presupporrebbe l’esistenza di un sistema di formazione permanente strutturato ed efficace. In Italia, invece, la longlife learning non solo non è quasi mai stata una priorità, ma è oggi completamente assente sia dalle misure del governo per la riforma della scuola sia da quelle per il mercato del lavoro.

Liberare le intelligenze, cambiare l'apprendimento

La prima sostanziale alternativa che hanno davanti a sé l’economia e la società della conoscenza è quella di pensarsi come un mondo in cui viene valorizzato il sapere di pochi, rassegnandosi alla precarizzazione o alla dequalificazione del lavoro dei più, con un’idea di trasmissione del sapere che si limiti a rivisitare la vecchia segmentazione della formazione dell’età tayloristica. Oppure quella di pensarsi come capaci di valorizzare il sapere che c’è nel lavoro di tutti, promuovendo quindi un approccio alla formazione che valorizzi le diverse intelligenze dei bambini, degli adolescenti, dei giovani, degli adulti. Stiamo, non solo per motivi di equità sociale, sulla seconda sponda.

 

Ma la legge Moratti è regressiva

La ragione fondamentale per cui è assolutamente essenziale tenere insieme la ferma opposizione alla legge Moratti e la ricerca di tutte le strade possibili per portare avanti un percorso di cambiamento della scuola, è data dal fatto che siamo stati noi a volere e a promuovere la riforma della scuola, mentre la legge Moratti tende a chiudere gli spazi di cambiamento e di innovazione che la spinta riformatrice del centrosinistra e della parte migliore della scuola italiana ha posto in essere.

 

Per un nuovo spazio pubblico del sapere

Il sistema della scuola, dell’università, della ricerca, della cultura italiana, sta vivendo un momento di fortissima preoccupazione per il proprio futuro. Nelle scuole le scelte improvvisate e controriformatrici del ministero stanno generando un clima di incertezza preoccupante per gli studenti e per le famiglie, tale da generare – come ci avverte un recente sondaggio – un clima di disaffezione verso il proprio lavoro e la propria funzione sociale da parte della maggioranza dei docenti. La ricerca pubblica è messa sotto tiro da una linea che contrappone assurdamente, e in controtendenza con tutti i paesi sviluppati, il privato al pubblico, la ricerca applicata a quella di base, i realizzi a breve sul mercato alle prospettive a medio e lungo termine del lavoro scientifico.

 

Nuovi diritti e nuova subordinazione. A proposito di Massimo D'Antona

In un incontro dello scorso mese di maggio con degli alunni di un Istituto tecnico industriale informatico della periferia romana – un incontro sull’art. 18, sulla proposta di legge Moratti, sui giovani e il lavoro – un ragazzo dell’ultimo anno, sveglio d’aspetto e di pensiero, ribatteva ai sindacalisti presenti, tutti giustamente impegnati a denunciare l’attacco ai diritti dei lavoratori e alle opportunità dei giovani del duo Berlusconi-D’Amato: «Ma, guardate, che se troverò o non troverò lavoro, se il lavoro sarà dipendente o autonomo, bello o brutto, gratificante per la mia intelligenza o solo per fare un po’ di soldi, dipende anche da me, dalle mie scelte. Sono io prima di tutti il responsabile del mio futuro». Era un giovane di destra, ed era chiaramente il leader della situazione, l’unico che riusciva a fare silenzio intorno a sé mentre parlava.

 

I diritti alla frontiera dell'innovazione

In una riflessione dedicata al futuro, al cambiamento epocale che l’economia, la società e il lavoro stanno attraversando, vorrei soffermarmi sul concetto di resistenza. Sapendo che in tempi di grande cambiamento è pressoché inevitabile che emerga la tendenza non solo delle grandi istituzioni politiche e di rappresentanza, ma anche delle persone in carne ed ossa, a ricercare delle sicurezze – il senso da dare alla propria vita e al proprio lavoro – nella memoria del passato, in quegli istituti e in quelle modalità di confronto che hanno permesso non solo alla nostra economia di crescere e svilupparsi, ma anche alle persone di fare figli e di allevarli, di comprarsi una casa, di avere una pensione dignitosa.