La Sicilia: potenzialità e difficoltà di una regione che può cambiare

Di Rita Borsellino Mercoledì 01 Marzo 2006 02:00 Stampa

La Sicilia in questa campagna elettorale è diventata un palco privilegiato da cui osservare e raccontare il paese. Il luogo scelto da giornali e media di tutto il mondo per comprendere e far capire cosa è successo in questi anni in Italia e per percepire il vento di cambiamento che si respira in Italia. Non è stata una scelta casuale. E questa scelta, ne sono convinta, è stata determinata anche dalla peculiarità dell’imminente campagna elettorale per le elezioni regionali. Non si trattava, dunque, solo di stare a vedere cosa sarebbe accaduto nella regione in cui cinque anni fa la Casa delle Libertà «fece cappotto» alle elezioni politiche (quel sessantuno a zero che schiacciò il centrosinistra, gli tolse la voce e ne evidenziò anche l’apatia), ma anche di considerare la duplicità di una Sicilia che è «terra di Berlusconi» e nello stesso tempo luogo di coltura della vecchia-nuova DC (quella di Salvatore Cuffaro), che agisce come «complicanza» della malattia nazionale.

 

La Sicilia in questa campagna elettorale è diventata un palco privilegiato da cui osservare e raccontare il paese. Il luogo scelto da giornali e media di tutto il mondo per comprendere e far capire cosa è successo in questi anni in Italia e per percepire il vento di cambiamento che si respira in Italia. Non è stata una scelta casuale. E questa scelta, ne sono convinta, è stata determinata anche dalla peculiarità dell’imminente campagna elettorale per le elezioni regionali. Non si trattava, dunque, solo di stare a vedere cosa sarebbe accaduto nella regione in cui cinque anni fa la Casa delle Libertà «fece cappotto» alle elezioni politiche (quel sessantuno a zero che schiacciò il centrosinistra, gli tolse la voce e ne evidenziò anche l’apatia), ma anche di considerare la duplicità di una Sicilia che è «terra di Berlusconi» e nello stesso tempo luogo di coltura della vecchia-nuova DC (quella di Salvatore Cuffaro), che agisce come «complicanza» della malattia nazionale. In questi anni l’isola è regredita più del resto del paese, riaffermando la logica delle clientele e dei favori e mortificando le vocazioni e i saperi di questa terra. Il voto del 9 e 10 aprile in Sicilia ha confermato il centrodestra come coalizione di maggioranza, ma ha segnato anche la ripresa dell’Unione: quasi otto punti percentuali in più alla camera e dieci in più al senato rispetto al 2001.

Dunque, il recupero dell’Unione è chiaro e conferma come i mezzi d’informazione avessero ragione nell’assegnare all’isola un ruolo privilegiato. Già la sera del 10 aprile, quando ancora i risultati elettorali erano incerti e non si sapeva se, alla fine, il centrosinistra avrebbe vinto, ho voluto sottolineare l’importanza di questa ripresa non solo per le elezioni politiche ma anche per le prossime elezioni regionali. Vorrei evidenziare anche che non c’è stato il sorpasso dell’UDC, il partito del presidente della regione, su Forza Italia. Anzi, rispetto alle ultime elezioni europee, Cuffaro ha perso consensi. Questo indica che, probabilmente, l’accusa di favoreggiamento alla mafia che pesa su di lui ha pesato anche su chi appena un anno fa era pronto a dargli fiducia.

La verità è che oggi la Sicilia è un’isola di forti contrasti e grandi questioni irrisolte. Basta scorrere velocemente i dati dell’occupazione per rendersi conto di come la CdL in questi anni non abbia formulato un vero programma di sviluppo: la disoccupazione è intorno al 20%; il numero di precari nella pubblica amministrazione è il più alto d’Italia; l’industria è in crisi e, tra il 2003 e il 2005, ha visto svanire circa diecimila posti di lavoro. Senza contare il rapporto tra spesa pubblica e prodotto interno lordo che è pari al 33%, contro il 19% della media nazionale. Ma non basta: ogni anno quattordicimila giovani, soprattutto laureati, lasciano l’isola perché qui non hanno futuro. Di sanità, di malasanità, si continua a morire: ospedali e ASL più che presidi di cura – in cui privilegiare competenza e professionalità – sono feudi da spartire tra i partiti.

Da siciliana ho sempre pensato che la Sicilia meriti di più e che abbia molto da offrire ai suoi cittadini e al mondo. È una delle regioni d’Italia con il maggior numero di siti archeologici e con il maggior numero di siti dichiarati patrimonio dell’umanità dall’UNESCO. È uno scrigno colmo di culture. È allo stesso tempo montagna, mare e storia. È terra di miti e di ospitalità; terra di operosità e ingegno; di scienziati come Majorana, pittori come Guttuso, scrittori come Verga, Pirandello, Sciascia, Consolo, Camilleri. È una terra di grandi uomini politici e di valorosi sindacalisti. Tutto questo però non solo non è stato mai «sfruttato», ma si è lasciato che il peggio di questa regione, il suo dover fare i conti con Cosa Nostra, nascondesse e condizionasse tutto il resto. È mancata alla Sicilia – tranne in alcuni momenti particolari, come nel periodo che seguì le stragi del 1992 – la voglia di ribellarsi. Per me il 19 luglio del 1992 è stato come morire e rinascere. Non più solo Rita farmacista, moglie e madre di tre figli, ma Rita che vuole lavorare per una società diversa, rimboccarsi le maniche, parlare con la gente, andare a conoscere l’anima della Sicilia, il volto sano e spesso senza voce di questa terra di cui farsi in qualche modo testimone. Da allora non ho mai smesso di fare politica sul territorio tanto da decidere, lo scorso novembre, in occasione delle primarie del centrosinistra, di fare un passo in più. È possibile dire che il 5 dicembre sono nata una terza volta: mi sono candidata alla presidenza della regione «per e insieme» a quella Sicilia che in tredici anni ho imparato a conoscere. Fin dall’inizio la mia non è stata una candidatura voluta esclusivamente dai partiti o dalla società civile, ma è stata sostenuta da entrambi.

Per questo dopo le primarie abbiamo sentito l’esigenza di aprire un «cantiere Sicilia» dove partiti e società civile organizzata si incontrassero per scrivere il futuro programma di governo dell’isola; un programma che non fosse solo quello di Rita Borsellino, ma quello di cui ognuno potesse sentirsi protagonista e, dunque, responsabile. Abbiamo aperto quindici «cantieri» tematici, tutti importanti e centrali per il futuro della nostra isola: dalla sanità e dal welfare al lavoro, allo sviluppo sostenibile, ai migranti. Da questi tavoli di lavoro sono uscite le indicazioni programmatiche che poi sono state discusse all’interno di «cantieri comunali», incontri che gli stessi cittadini hanno convocato in duecento dei trecentonovanta comuni siciliani: una grande prova di partecipazione come non se ne erano mai viste prima.

L’isola pensata in questo percorso politico e di passione civile è una Sicilia profondamente diversa da quella di oggi. Un’isola che parte dalle sue vocazioni e le valorizza, che riesce a fare scelte politiche di grande valore – prevedendo interventi come la fiscalità di vantaggio per chi vuole investire in Sicilia, fare impresa e creare occupazione – e ad elaborare allo stesso tempo un programma di infrastrutture organico, con una particolare attenzione ai porti in vista dell’apertura dell’area di libero scambio del 2010. Altre città europee, come Marsiglia e Barcellona, si stanno già attrezzando per questo appuntamento e, per fare navigare le grandi navi che trasportano i container, è stato allargato addirittura il canale di Suez. Eppure la Sicilia, che sarebbe un approdo naturale lungo le rotte commerciali del Mediterraneo, è ferma quasi all’anno zero: persino Tunisi è più avanti.

L’isola concepita dai «cantieri» è attenta a ciò che le succede attorno: sa guardare al mare, ma sa anche «guardare a se stessa» dal mare immaginando una politica del Mediterraneo che comprenda gli interventi sulla fascia costiera, le questioni ambientali, i trasporti marittimi, le politiche delle migrazioni e, sicuramente, la pesca. Una Sicilia che sappia creare partnership con i paesi rivieraschi, conciliando la potestà legislativa che le deriva dall’essere regione a statuto speciale con la capacità di affermare un nuovo tipo di rapporto con l’Unione europea.

Credo che gli anni che ci attendono saranno fondamentali per il futuro dei siciliani. Sarà necessario lavorare con serietà elaborando un progetto di sviluppo autonomo, sostenibile sul piano sociale e ambientale, che investa nella ricerca e nelle nuove tecnologie e che sia capace di valorizzare i tanti aspetti e le tante risorse della Sicilia. Insomma, uno sviluppo che tragga impulso dalle potenzialità e dalla natura stessa dell’isola e che punti sul turismo (dal mare alla montagna, dal turismo culturale a quello sociale, dall’agriturismo al «pescaturismo»), ma anche su industrie e imprese che siano in grado di lavorare e trasformare i prodotti di questa terra creando valore aggiunto da reinvestire nell’isola. Se non si è in grado di trasformare innanzitutto i propri prodotti, non si può pensare di essere il luogo nel quale avviene la trasformazione di ciò che viene prodotto altrove.

Possono sembrare tutti progetti banali, ma in questi anni in Sicilia abbiamo assistito solo a occasioni mancate. I ventimila miliardi di Agenda 2000 non solo non hanno portato alcun valore aggiunto, ma sono stati spesi – quando non sono stati restituiti – in progetti sponda, per esempio nella costruzione di strade o nella realizzazione di interventi a cui la regione avrebbe potuto e dovuto pensare da sé con i fondi ordinari. È mancata un’idea di sviluppo lungimirante e si è invece scelto di importare modelli da fuori. Il modello di welfare, ad esempio, è quello della Lombardia, affidato ai privati e costruito non attorno ai bisogni della persona, ma alla logica dell’assistenzialismo. Un modello lontano dalla stessa legge 328 del 2000 che ridisegna un welfare dal basso. Questa mancanza di un’adeguata programmazione si è avuta in ogni settore: nell’industria, oggi in grande crisi; nell’agricoltura, incapace, a parte alcune eccezioni, di farsi sistema; nella gestione dei beni culturali, priva di una strategia di sviluppo, di piani d’intervento, di musei, di una promozione che attragga fruitori e non si limiti a prestare, peraltro senza alcun guadagno, il nostro patrimonio. Consideriamo, per esempio, il caso del satiro di Mazara: restituito al mondo da pescatori, è stato restaurato, ricostruito pezzo per pezzo, riportato all’antica bellezza. Ma poi, a Mazara, è stato esposto in un modo che davvero non gli fa onore. Valorizzare i nostri beni culturali significa invece proteggerli, tutelarli ma anche dargli un’identità culturale e geografica, far sì che attraverso essi si possa promuovere il territorio. Chi immaginerebbe la Gioconda fuori dal Louvre, lontana da Parigi? Nessuno. Questo è quello a cui dobbiamo mirare quando programmiamo la gestione del nostro patrimonio.

Da dove partire, dunque? Per riuscire a invertire la rotta, occorre realizzare in primo luogo una riforma della politica. Insieme ai partiti dell’Unione ci siamo imposti questo obiettivo, approvando anche un codice etico in base al quale selezionare le candidature alle elezioni regionali e impostare l’azione di governo. Ma anche dopo il 28 maggio, la politica dell’Unione dovrà farsi meno invasiva e dovrà invece mirare a incentivare moltissimo. La riforma amministrativa della regione sarà, da questo punto di vista, essenziale. In questi anni abbiamo assistito, infatti, a un sempre maggiore accentramento delle competenze: nelle mani del presidente Cuffaro sono passate la gestione dei rifiuti, dell’acqua e dei fondi europei. La regione a cui noi pensiamo lascia per sé la programmazione e delega competenze e risorse agli enti locali. Essa dovrà inoltre creare una rete virtuosa con i comuni e le province, con le università, il mondo della scuola, le associazioni, i sindacati. Dovrà essere una regione «deburocratizzata» ed efficiente. Per fare questo occorre una riforma delle istituzioni e della macchina burocratica regionale, che va resa più efficiente sotto il profilo organizzativo e più trasparente in fatto di reclutamento e controlli, grazie alla valorizzazione di saperi e competenze. È un modello diametralmente opposto a quello del centrodestra, che ha invece mirato alla centralizzazione della gestione, non è stato in grado di creare valore aggiunto nell’utilizzazione dei fondi di Agenda 2000 e ha svilito la concertazione.

Sono convinta che bisogna rilanciare la programmazione negoziata, come l’esperienza dei patti territoriali e i piani integrati territoriali. Perché pensare ad uno sviluppo dal basso non significa mettere un freno all’economia. Significa piuttosto assecondare le vocazioni del territorio, rendere protagonisti i siciliani. Significa anche investire sulla ricerca, su quel grande capitale che sono le risorse umane, intellettuali e produttive dei nostri giovani, che oggi sono costretti a cercare il loro futuro altrove. Significa lavorare per quel buon governo, a cui il presidente Ciampi ha invitato il popolo siciliano qualche mese fa, che può diventare strumento politico e di lotta alla mafia. La cattura di Bernardo Provenzano apre nuovi scenari. Non sappiamo ancora chi lo sostituirà o chi lo abbia già sostituito alla guida di Cosa Nostra, e non sappiamo che abito vestirà la mafia del dopo Provenzano. In questi anni, è certo, si è dedicata agli affari ed è riuscita a costruire una rete di alleanze e complicità anche con alcuni settori della politica e dell’economia. È difficile prevedere adesso come cercherà di trovare nuovi equilibri e come proverà ad aggiudicarsi i nuovi fondi in arrivo dall’UE per il quinquennio 2007-2013. Del resto, ha già tentato di accaparrarsi i finanziamenti per la costruzione del ponte sullo stretto di Messina. Per affrontare tutte le sfide che ci attendono occorreranno di certo scelte politiche di grande impatto e questo può e deve essere il nostro impegno a livello nazionale e regionale.

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