Politiche pubbliche e governance per il settore culturale

Di Vittoria Franco Mercoledì 01 Marzo 2006 02:00 Stampa

Secondo il recente rapporto di Federculture il turismo culturale è cresciuto in Italia del 3%, mentre nello stesso periodo si è registrato un arretramento dell’Italia dal quarto al quinto posto nella classifica dei flussi turistici in generale. Crescono anche i consumi culturali. Dall’altra parte, però, la spesa dello Stato è passata dallo 0,61% del 2001 allo 0,31% del 2005. Sono i comuni a investire di più, nonostante i tagli ai trasferimenti subiti nel corso degli ultimi cinque anni: in media il 3,5% dei bilanci. Si tratta di elementi importanti che occorre cogliere perché parlano di un dinamismo delle amministrazioni locali e di una miopia gigantesca del governo nazionale di centrodestra, ma anche della necessità di una correzione di rotta nell’agenda dell’Unione. La necessità è dettata da una semplice analisi dei processi sociali ed economici in corso, che richiedono aggiornamenti, riconversione e innovazione. 

Secondo il recente rapporto di Federculture il turismo culturale è cresciuto in Italia del 3%, mentre nello stesso periodo si è registrato un arretramento dell’Italia dal quarto al quinto posto nella classifica dei flussi turistici in generale. Crescono anche i consumi culturali. Dall’altra parte, però, la spesa dello Stato è passata dallo 0,61% del 2001 allo 0,31% del 2005. Sono i comuni a investire di più, nonostante i tagli ai trasferimenti subiti nel corso degli ultimi cinque anni: in media il 3,5% dei bilanci. Si tratta di elementi importanti che occorre cogliere perché parlano di un dinamismo delle amministrazioni locali e di una miopia gigantesca del governo nazionale di centrodestra, ma anche della necessità di una correzione di rotta nell’agenda dell’Unione. La necessità è dettata da una semplice analisi dei processi sociali ed economici in corso, che richiedono aggiornamenti, riconversione e innovazione.

Siamo, infatti, nel pieno di una trasformazione dal modello industriale di società alla società postindustriale, dalla produzione di beni materiali a una dimensione di maggior valore dei beni immateriali, come la conoscenza, il benessere, la qualità della vita, la comunicazione, l’informazione. Come ricorda Jeremy Rifkin nel suo libro «L’era dell’accesso»:1 «nella new economy sono le idee, i concetti, le immagini, non le cose, i componenti fondanti del valore». Vi è una sorta di «dematerializzazione dell’economia». I beni diventano meno oggetti e più rappresentazione di esperienze: «Gli spigoli vivi di un’era dedicata a imbrigliare e trasformare risorse materiali si sono smussati: la postmodernità è più morbida, leggera, legata alle sensazioni e alle attitudini: è un mondo alla rovescia». Con un altro linguaggio, potremmo dire: cambia lo statuto, la logica, dei bisogni. Nella società postindustriale la cultura determina, dunque, profondamente il valore dei beni.

È ormai dimostrato dalle analisi delle cifre e dalle esperienze in atto che il grado di competitività di un paese è direttamente proporzionale agli investimenti in cultura: i paesi scandinavi, il Regno Unito, la Germania, il Giappone sono anche i paesi che più investono in cultura e in industria culturale. Sono i paesi che si sono riconvertiti più rapidamente. È il caso di citare Tony Blair, anche perché alle parole ha dato seguito con i fatti: «La creatività è la chiave dello sviluppo della nazione. La cooperazione fra affari e artisti può solo condurre allo sviluppo di una società più forte, più sana, più vibrante». Nell’indice della competitività internazionale, il Regno Unito ha compiuto, infatti, uno straordinario progresso balzando nel 2000 dal settimo al terzo posto (subito dopo USA e Finlandia). Al contrario, in Italia in pochi decenni siamo riusciti, per riprendere un’espressione che usa Luciano Gallino nel suo «La scomparsa dell’Italia industriale»,2 a «disfare la grande industria senza crearne di nuova» e anzi perdendo opportunità importanti, come l’informatica. Da noi il non sufficiente investimento in innovazione e ricerca va di pari passo con la scarsità degli investimenti in cultura: lo 0,3% del bilancio è niente rispetto al 2 o 3% dei paesi più competitivi. Durante il governo di centrodestra a una visione miope delle professionalità tecniche e scientifiche dell’amministrazione dei beni culturali e alla totale sottovalutazione del potenziale creativo e imprenditoriale del settore dello spettacolo si sono accompagnate attività legislative, interventi e tagli dei fondi pubblici per il finanziamento delle attività che, da un lato hanno avuto l’esito di realizzare un’organizzazione statale della tutela estremamente burocratizzata e incapace di assolvere ai compiti propri di indirizzo, di garanzia e di promozione e, dall’altro, hanno prodotto una storica crisi nella produzione cinematografica e nello spettacolo dal vivo. Si è fatto un deserto della cultura. Un deserto che diventa l’immagine di un paese con le «pile scariche», il segno di una decadenza economica che è evidente anche nel crollo delle grandi «infrastrutture» del paese: dal sistema della viabilità, alle agenzie del sapere – come la scuola, l’università e la ricerca – alla cultura. Sapere e cultura vanno insieme, devono essere legate se vogliamo costruire la società della conoscenza. Abbiamo la fortuna, oltre che la responsabilità, di disporre di uno straordinario patrimonio di beni artistici, museali, paesaggistici, di professionalità e competenze, di un patrimonio di culture e tradizioni che costituiscono in gran parte la nostra identità e fanno dell’Italia un paese unico al mondo. Ma la Domus Aurea, chiusa per rischi di crollo e con poche risorse per essere restaurata, è un’altra immagine della decadenza culturale ed economica del nostro paese. Dobbiamo riconoscere che siamo ancora molto indietro rispetto all’assunzione della cultura come uno dei fattori dello sviluppo, come una delle molle che acquistano sempre più centralità nella strategia complessiva di rilancio di un paese moderno, di un paese che sa vedere il nuovo di cui parla Jeremy Rifkin: il fatto che la cultura è sempre più un canale privilegiato di produzione di pensiero innovativo e di sollecitazione all’innovazione. La creatività difficilmente può svilupparsi al di fuori di comunità capaci di favorire e promuovere la cultura. Anche per questo promuovere un tessuto culturalmente ricco è la premessa per l’innovazione e la ricerca.

Occorre allora superare una concezione della valorizzazione della cultura e dei beni culturali legata pressoché esclusivamente al tempo libero e al turismo: è questa, infatti, la concezione che porta a considerare la cultura come la cenerentola dei bilanci dello Stato e delle autonomie locali, come lusso, come spesa sempre meno sostenibile per le finanze pubbliche, anziché come un investimento per lo sviluppo. Abbiamo invece le condizioni, le competenze, le risorse umane e creative per compiere un passo importante verso una modernizzazione del paese, che veda anche la cultura come fattore di sviluppo sociale,  civile, economico. Non è economicismo questo. È noto, infatti, che spesso nel corso degli anni si è sviluppato un dibattito fra due scuole di pensiero: una sostiene che la centralità del ruolo e dei finanziamenti pubblici per la cultura debba essere finalizzata esclusivamente al suo ruolo educativo e giustificata per questa sua missione; l’altra pone attenzione prevalentemente ai vantaggi in termini di ricaduta economica che derivano ai territori e alle comunità dalla valorizzazione delle risorse culturali. Noi siamo per l’integrazione fra le due posizioni. Investire in cultura è una necessità per la crescita civile e sociale di una comunità, ma anche per un migliore sviluppo economico di un territorio. Le due forme difficilmente oggi sono separabili, perché si crea un legame sempre più stretto fra cultura, lavoro e sviluppo compatibile. Dove c’è più cultura si registra maggiore rispetto per l’ambiente, maggiore coesione sociale, identità. Non crediamo dunque che i nostri beni museali, architettonici e paesaggistici debbano diventare strumenti di profitti privati, come pensa la destra, e lo ha dimostrato chiaramente negli anni di governo. Crediamo, al contrario, che la cultura debba costituire un investimento per il futuro del paese, che la capacità creativa (dal teatro, al cinema, all’arte, alla ricerca, all’editoria, all’informazione) debba essere messa nelle condizioni di fornire una possibilità per crescere e competere. Molte esperienze nel mondo, ma anche nelle nostre regioni, dimostrano che la cultura può creare ricchezza nelle città e sul territorio se si sostengono politiche integrate e concertate fra Stato, autonomie locali, istituzioni e imprese.

Deve essere chiaro che parlare di strategia di sviluppo complessivo che tiene al centro le risorse culturali non significa sminuire il valore intrinseco delle politiche per la cultura, né sottrarsi alla responsabilità che la nostra Costituzione assegna alla Repubblica, rispetto all’obbligo di proteggere il nostro patrimonio culturale e di favorire la crescita e la partecipazione dei cittadini alla vita culturale e civile del paese. E neppure si vuole far dipendere la centralità degli interventi pubblici per la cultura dalla pretesa di vantaggi economici diretti. Sappiamo bene che molte attività culturali – dalla gestione dei musei a quella delle fondazioni lirico- sinfoniche – non sono, e probabilmente non saranno mai, in grado di sostenersi autonomamente sotto il profilo finanziario, né di produrre guadagno, ma richiedono risorse pubbliche, dello Stato, delle regioni, degli enti locali.

C’è un passaggio nel protocollo dell’UNESCO sulla diversità culturale che ci guida nella strategia: «Le sole forze del mercato non possono garantire la conservazione e la promozione della diversità culturale, che è la chiave dello sviluppo umano sostenibile». Ne siamo convinti. Per questo nel programma dell’Unione proponiamo canali di reperimento di risorse certe da destinare alla cultura anche in una fase di grave crisi economica e con l’obiettivo di raggiungere l’1% del PIL entro cinque anni. Un afflusso di risorse pubbliche è garanzia anche di maggiore indipendenza e di libertà d’espressione, condizioni irrinunciabili del fare cultura.

È importante a questo scopo non pensare più la cultura come un settore a sé. Vanno sicuramente riconosciute le specificità e le distinzioni fra attività – il teatro, il cinema, la musica – e i beni culturali, ma è anche necessario riconoscerne l’unitarietà sul piano della governance. Senza questo presupposto non saremo in grado di stabilire i processi e gli interventi necessari per favorire l’affermazione del principio che, invece, ci interessa assicurare e cioè, che la cultura, la creatività, la produzione dei contenuti, le diverse forme e linguaggi artistici sono l’asse di un sistema di sviluppo generale.

Possiamo parlare di governance dei beni culturali e di governance sul territorio. La prima si riferisce più direttamente alle forme di valorizzazione, per la quale noi riteniamo che lo Stato debba dotarsi di un’organizzazione più trasparente e flessibile che unisca strettamente tutela e valorizzazione e sia capace di attuare gli indirizzi per il governo e la tutela dei beni culturali e paesaggistici attraverso la programmazione delle attività e delle risorse finanziarie con le regioni e gli enti locali, avvalendosi dell’autonomia scientifica e della capacità di progettazione dei propri organi territoriali. La leale collaborazione tra lo Stato e le regioni è possibile non solo affidando alle soprintendenze di settore e territoriali un ruolo di vigilanza, che naturalmente è irrinunciabile, ma anche dotandole di un’autentica autonomia scientifica e amministrativa che possa favorire la progettazione e il governo dei territori nei quali esse agiscono. È dunque irrinunciabile un rapporto serrato con i governi regionali e locali, trasformando il conflitto attuale sull’assegnazione delle competenze amministrative nella programmazione concertata delle priorità di intervento per la conservazione, la manutenzione ordinaria, la valorizzazione dei beni culturali in armonia con la gestione del territorio, la realizzazione di infrastrutture turistiche, l’ottimizzazione o il potenziamento dei servizi di trasporto pubblico. È necessario parlare la stessa lingua e condividere lo stesso interesse di preservazione e sostenibilità del governo dei territori per realizzare l’interesse collettivo della tutela e della valorizzazione dei beni culturali. Altrettanto importante nella logica della cultura come fattore di sviluppo è una forma più ampia di governance, che connette beni e attività culturali, altre agenzie del sapere, dell’industria culturale, della ricerca ecc. Lo strumento che può essere utile a raggiungere lo scopo di una governance sapiente può essere un istituto che comincia a essere sperimentato in diverse regioni: il distretto culturale, cioè una rete di istituzioni – dal museo all’impresa artigiana, da una casa editrice a una biblioteca, a una facoltà universitaria, a un pezzo di industria culturale, dall’audiovisivo, alla moda, ai servizi, da un sito archeologico a un parco – che costituiscono un insieme, un network in grado di mettere in moto risorse, non solo perché conferiscono identità a quel territorio e lo rendono unico, ma anche perché rafforzano la consapevolezza e la responsabilità pubbliche del fare sistema e tenere insieme tutte le risorse lì presenti, con capacità di innovazione, di riconversione produttiva, di attrazione di talenti. Occorre coltivare dunque un atteggiamento pubblico che consideri la cultura come tessuto connettivo e propulsore della crescita sociale ed economica del territorio, attraverso l’integrazione fra politiche pubbliche e iniziativa privata e un’azione integrata fra Stato, governi territoriali, istituzioni e imprese per la promozione della cultura e dell’industria culturale. Cooperazione, semplificazione, programmazione: queste sono alcune delle parole chiave nel governo dei beni e delle attività culturali.

Questa posizione ci spinge oltre la logica meramente mecenatistica e oltre il semplice binomio cultura-turismo, che pure resta importante per creare ricchezza. Ma quel binomio va inserito in una rete più larga. In un tessuto più ricco di investimenti culturali, anche le singole istituzioni acquistano maggiore dinamicità e capacità di sviluppo e l’intero territorio può crescere.

È evidente, e tutte le ricerche lo dimostrano, che vi è una connessione stretta fra qualità dell’offerta culturale e qualità della vita, sviluppo del territorio, coesione sociale, tolleranza. È diventata ormai nota la teoria delle tre T di Richard Florida:3 talenti, tecnologia e tolleranza. Sono interessanti le esperienze di alcune città capitali culturali europee, come Glasgow o Lille, che hanno saputo costruire esperienze di sviluppo locale basato sulla cultura, nelle quali la cultura è diventata volano per strategie di sviluppo complessivo. Un giovane studioso, Giorgio Tavano Blessi, ha analizzato alcuni dati dell’esperienza di Glasgow, capitale europea della cultura nel 1990. La sua ricerca mostra come, a fronte di uno stanziamento pubblico di 2 milioni di sterline, si è avuto un beneficio complessivo per la città pari a 32-37 milioni di sterline con effetti positivi sull’aumento dei posti di lavoro, sul turismo, sulla qualità della vita e sulla coesione sociale, che durano ancora. Quegli investimenti in cultura si sono rivelati il mezzo più efficace per riqualificare il territorio e ridurre il disagio sociale. Questa crescita duratura di tutto il sistema locale è stata possibile grazie alla creazione di infrastrutture dell’industria culturale che hanno creato, a loro volta, nuove opportunità, hanno coinvolto forze giovani, hanno migliorato la partecipazione e la sensibilizzazione comune alla cosa pubblica, hanno sviluppato senso di appartenenza e prodotto un ambiente nel quale la creatività potesse divenire «veicolo generatore di innovazione e sviluppo». È anche evidente che in tali processi è contenuta una concezione della cultura diversa dall’effimero: si tratta di investimenti in cultura e infrastrutture culturali capaci di produrre benefici di lungo periodo, puntando su governance e industria culturale.

Ma non c’è bisogno di andare lontano. L’Università e il comune di Torino hanno promosso una ricerca sul rapporto tra spesa in cultura e ritorno in termini di ricaduta sull’economia cittadina, dalla quale risulta che ogni euro investito in cultura ha una ricaduta sulla città di 21 euro. Si tratta di un’ulteriore prova che la cultura può essere fattore importante di sviluppo di una città e di un territorio. Se riusciremo a creare sinergie tra innovazione, ricerca e cultura sapremo sviluppare anche la capacità di attrarre e trattenere talenti, di fare spazio a quella classe creativa che c’è, ma non si vede, e che è la risorsa più preziosa oggi per un paese che voglia stare con lungimiranza nei processi di modernizzazione, giacché investire in cultura significa investire in nuove tecnologie, in professioni altamente specializzate, in professionalità che vanno coltivate e che le politiche del centrodestra hanno invece mortificato. Sia che ci proponiamo di rilanciare l’industria cinematografica, sia che ci proponiamo di tutelare e valorizzare i nostri beni culturali, in ogni caso ciò comporta investimenti in innovazioni tecnologiche. Abbiamo raggiunto punte di eccellenza per il restauro, disponiamo di ottime scuole, di competenze scientifiche e tecniche che ci invidiano in tutto il mondo, ma rischiamo di perdere quel primato proprio per la scarsità di investimenti in innovazione e risorse. E non esisterà cinema se non saprà convertirsi al digitale e se non lo farà riconvertendo tutta la filiera dell’industria cinematografica, dalla formazione alle sale. Se i nostri musei non saranno in grado di mettere in campo strumenti nuovi, sarà sempre più difficile fare azioni di valorizzazione. Pensiamo a come devono cambiare le politiche per i beni culturali nel momento in cui un museo non è più soltanto il luogo della conservazione e del godimento estetico, ma assume una vita digitale autonoma attraverso il museo virtuale e può vivere sul web oltre il luogo fisico. Analogamente, nuovi problemi si pongono di fronte alla memoria digitale o di come costruire un archivio dei siti web. Lo stesso vale per le biblioteche e gli Archivi. Senza digitalizzazione diventa difficile anche la semplice fruizione. E dunque sono necessari investimenti sulla infrastruttura di rete e sulla connettività. Senza banda larga non si trasferiscono immagini ad alta definizione né si mettono in rete gli archivi e le altre istituzioni culturali. È necessario ormai costruirla, come se fosse una «grande opera», per mettere in rete biblioteche, archivi, grandi musei, coerentemente con la Carta di Parma del 2003 quando recita: «La digitalizzazione è un passo essenziale che le istituzioni culturali europee devono compiere allo scopo di tutelare e valorizzare il patrimonio culturale comune dell’Europa, di salvaguardare la diversità culturale, di fornire ai cittadini un migliore accesso a quel patrimonio, di sviluppare la formazione e il turismo e contribuire allo sviluppo delle imprese nel settore di nuovi contenuti digitali e dei servizi». È dunque urgente un governo delle innovazioni che finora è mancato a vantaggio di un disastroso «lasciar accadere».

 

Bibliografia

1 J. Rifkin, L’era dell’accesso, Mondadori, Milano 2000.

2 L. Gallino, La scomparsa dell’Italia industriale, Einaudi, Torino 2003.

3 R. Florida, L’ascesa della nuova classe creativa, Mondadori, Milano 2003.

Altre Informazioni

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  • Introduzione - Agenda:
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  • Articolo Generico - Testata: Politiche per la Cultura

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