La sanità tra aziendalizzazione e diritto alla salute

Di Mario Pirani Mercoledì 01 Marzo 2006 02:00 Stampa

Nel pur sterminato programma dell’Unione i temi della sanità sono trattati in modo secondario e confuso. Né vi hanno trovato un riflesso incisivo le dettagliate analisi e conclusioni cui erano pervenute le precedenti conferenze programmatiche in materia sia di «Italianieuropei» che dei DS. Non risulta, peraltro, che la dirigenza diessina si sia impegnata per assicurare un approccio prioritario al tema, in sede di programma comune. Non credo che questa sottovalutazione sia il frutto di una svista o di un momento di disattenzione. Si tratta, purtroppo, di un fenomeno di assai più profonda portata e di lunga gestazione. Esso va fatto risalire agli anni dell’inflazione a due cifre e del debito pubblico crescente, quando, per fronteggiare i dissesti del bilancio e affrontare il risanamento in vista dell’euro, si è finito per assimilare come una imprescindibile necessità oggettiva una razionalizzazione in chiave aziendalistica del servizio pubblico, snaturandone la vocazione di partenza: assicurare a tutti i cittadini, senza esclusioni e in assoluta eguaglianza, il diritto alla salute, attraverso il suo finanziamento in primo luogo da parte della fiscalità generale progressiva, senza escludere tasse di scopo, ticket, collaborazione con i privati e altre misure di sovvenzione.

 

Nel pur sterminato programma dell’Unione i temi della sanità sono trattati in modo secondario e confuso. Né vi hanno trovato un riflesso incisivo le dettagliate analisi e conclusioni cui erano pervenute le precedenti conferenze programmatiche in materia sia di «Italianieuropei»1 che dei DS. Non risulta, peraltro, che la dirigenza diessina si sia impegnata per assicurare un approccio prioritario al tema, in sede di programma comune. Non credo che questa sottovalutazione sia il frutto di una svista o di un momento di disattenzione. Si tratta, purtroppo, di un fenomeno di assai più profonda portata e di lunga gestazione. Esso va fatto risalire agli anni dell’inflazione a due cifre e del debito pubblico crescente, quando, per fronteggiare i dissesti del bilancio e affrontare il risanamento in vista dell’euro, si è finito per assimilare come una imprescindibile necessità oggettiva una razionalizzazione in chiave aziendalistica del servizio pubblico, snaturandone la vocazione di partenza: assicurare a tutti i cittadini, senza esclusioni e in assoluta eguaglianza, il diritto alla salute, attraverso il suo finanziamento in primo luogo da parte della fiscalità generale progressiva, senza escludere tasse di scopo, ticket, collaborazione con i privati e altre misure di sovvenzione. Richiamare questi principi di base non presuppone certo la negazione dell’impellenza di razionalizzazione degli impieghi, di misure contro gli sprechi, di ricerca dell’efficacia, di oculatezza contro l’eccesso – soprattutto nel Centro-Sud – delle convenzioni con i privati fuori di ogni controllo di appropriatezza. Sempre, però, senza cadere prigionieri del «terrorismo contabile» denunciato in proposito già a suo tempo da Federico Caffè. E, invece, proprio questa ossessione contabile ha preso il sopravvento e la denominazione di ASL (aziende sanitarie locali) invece di USL (unità sanitarie locali) ha segnato la formalizzazione dell’inversione. La missione imperativa dei direttori generali, muniti di poteri assoluti verso il basso (ma del tutto succubi dei loro supervisori partitici), non è stata più quella di assicurare al meglio delle loro possibilità la salute dei cittadini, ma di garantire il pareggio di bilancio della azienda loro affidata. Tutto il sistema dei pagamenti (DRG) è stato sottoposto a questo principio e ciò ha portato a progressivi tagli di servizi, specie quelli a più bassa remunerazione, per privilegiare quelli a più alta redditività. Su scala nazionale l’aziendalizzazione si è tradotta in un trasferimento di poteri dal ministero della sanità a quello del tesoro, regista della politica dei tagli, destinata a discendere per rami a livello regionale e locale. La devoluzione (avviata con la riforma del Titolo V) ha portato un ulteriore colpo all’eguaglianza e all’unità del welfare sanitario. La devastante ventata di un neoliberismo male inteso (soprattutto per quanto concerne la spesa sanitaria) ha finito per plasmare culturalmente la sinistra, che si è adattata a misurare le proprie virtù amministratrici in materia sanitaria dalla capacità di realizzare pareggi di bilancio, obiettivo in sé corretto, se concepito, però, nell’ambito di un volume di stanziamenti bastevoli ad assicurare il soddisfacimento equo del diritto alla salute. Il che non è, visto il basso livello della spesa sanitaria pubblica, che si attesta a circa il 6% del PIL (l’8% con quella privata), due o tre punti sotto Francia e Germania. Una volta prigioniera di uno schema concettuale aziendalistico la sinistra, succube del terrorismo contabile, ha finito così per differenziarsi (al di fuori dell’oasi tosco-umbro-emiliana) solo per dannose sortite demagogiche, come l’inutile abolizione dei ticket, rinunciando su scala nazionale ad una grande battaglia per quantificare i bisogni di salute, le capacità preventive, diagnostiche e terapeutiche per farvi fronte e, quindi, le fonti di finanziamento per soddisfarli. Se questa fosse stata l’ottica, un aumento minimo di due-tre punti del PIL per una migliore sanità starebbe al centro del programma dell’Unione, con un’evidenza almeno pari a quella dei cinque punti di cuneo fiscale da abbattere. Se questo non avviene è perché si tarda a capire che per i cittadini la salute è il bene più prezioso, che esso è considerato ormai come un diritto primario, che l’accesso privato alla sua fruizione è praticamente impossibile anche per i ceti medio-alti, soprattutto al di là di una certa fascia d’età. Consola poco pensare che questo avvenga anche come conseguenza della mancata pressione politica dei pazienti, una massa sempre provvisoria e impossibilitata a trasformarsi in corporazione capace di esercitare movimenti di opinione e condizionamenti politici. Tesi, peraltro, di qualche fascino se consideriamo che, mentre la spesa sanitaria pubblica è la più bassa fra i grandi paesi europei, quella previdenziale, che si aggira sul 14%, è in Europa la più alta in assoluto, una quota ostinatamente difesa da confederazioni sindacali che hanno nei pensionati la quota più alta di iscritti e che tale resterà grazie all’afflusso dei pensionandi. Ma una sinistra consapevole degli interessi collettivi globali dovrebbe proporsi e proporre ai cittadini lo spostamento delle percentuali tra spesa sanitaria e previdenziale, anche alla luce dei cambiamenti demografici in atto, spostando a 65 anni l’età pensionistica. A che serve, infatti, garantire gli anziani in quanto pensionati e abbandonarli in quanto pazienti anziani?

Per tornare alla questione dell’aziendalizzazione, vorrei rifarmi a un esempio pratico, messo in luce al recente convegno DS sulla sanità.2 Ebbene, è emerso che a Roma, ma probabilmente in molte altre grandi città, in parecchie domeniche invernali particolarmente fredde i grandi ospedali si trovano fin dal pomeriggio a dover bloccare le accettazioni perché non vi è più un letto libero (non parliamo di quelli di terapia intensiva, occupati al 120%). In qualche nosocomio gli ammalati trasportati al pronto soccorso rimangono sulla barella, in mancanza persino di un letto di fortuna dove appoggiarli. Di conseguenza le ambulanze, prive di lettiga, non possono più ripartire. Questa enormità si è verificata nella capitale d’Italia ancora pochi giorni or sono, eppure ad un recente convegno il dottor Serafino Zucchelli, segretario nazionale dell’Anaao Assomed, nonché candidato senatore DS, è tornato a lamentare il fatto che Roma abbia ben sei posti letto per mille abitanti, un numero troppo elevato che in base ai parametri internazionali bisognerebbe tagliare, in teoria per spostare la cura dei malati sul territorio (ma quando? Dove? E come?). È, infatti, questo un principio teoricamente giustificabile, ma per i cosiddetti «razionalizzatori» del sistema sanitario, che ha fatto adepti convinti anche a sinistra, deve tradursi in immediata quanto schematica applicazione. In conseguenza gli zelanti direttori generali si sono precipitati a tagliare soprattutto i posti di medicina generale, che generano più bassi DRG e quindi sono pagati meno. E dal loro punto di vista hanno ragione, non avendo più come missione la salute dei cittadini, ma il pareggio del bilancio su cui vengono valutati. Lo stesso dicasi per le liste di attesa: quante sale operatorie, quanti gabinetti radiologici o di analisi funzionano solo per qualche ora al giorno in conseguenza del blocco del turn over nell’assunzione di infermieri e di personale tecnico? Questi sono alcuni degli effetti della tanto vantata «aziendalizzazione», che seguiterà a produrne di sempre più nefasti fino a quando non torneremo a capire che un ospedale non è un’azienda, ma un servizio pubblico (discorso analogo va applicato anche alla scuola) e, quindi, le sue logiche non possono corrispondere in modo automatico a quelle di mercato che ispirano una contabilità in cui la spesa «aziendale» è vista all’interno dell’impresa. Una logica che impedisce quindi di allineare le spese ospedaliere al valore del bene-salute che produce e che si riflette in gran parte fuori dai cancelli del nosocomio. Se ci si libera dello schema contabile, ma altresì ideologico, che imprigiona la cultura politica odierna ci si rende facilmente conto che la spesa sanitaria italiana è troppo bassa, non troppo alta!

Naturalmente, non basta rivendicare maggiori investimenti globali e nuove iniziative (come il Fondo per gli anziani o il piano per adeguare le strutture sanitarie nel Sud) senza chiedersi dove reperire i finanziamenti con obiettivi espliciti, accompagnati da proposte coerenti e convincenti. Credo, ad esempio, che la sinistra debba con forza proporsi di passare dal 6% all’8% di spesa sanitaria pubblica, e al 10% di spesa complessiva, affermando l’esigenza di alzare l’età pensionabile a 65 anni, di ristabilire i ticket per i farmaci e alcuni servizi, di stabilire, in base al reddito, un contributo minimo per i ricoveri. Nello stesso spirito andrebbe sollecitato il consenso dell’opinione pubblica per introdurre delle imposte di scopo. La Germania, ad esempio, ha affrontato il problema di un fondo di sostegno per i non autosufficienti togliendo due giorni di festività all’anno e i lavoratori lo hanno accettato.

Quanto più queste cose verranno presentate con trasparenza e spiegate ai cittadini, tanto più sarà possibile ottenerne il consenso senza restare prigionieri della paura paralizzante che induce a non parlare mai di imposte, con la conseguenza che i programmi appaiono appesi alle nuvole o a generiche promesse demagogiche. Invece, va intrapresa di nuovo una battaglia culturale di lunga lena per ritrovare le ragioni attuali di un nuovo Stato sociale che si contrapponga alla deriva, altrimenti ineluttabile, di una società priva di solidarietà sociale dove coesiste la contraddizione sempre più acuta e profonda tra ricchezza privata e pubblico degrado.

Un grande aiuto teorico in questo senso, soprattutto per quanto concerne la sanità, può venire dal recupero consapevole e aggiornato delle teorie di William J. Baumol. Cercherò qui di darne un rapido quadro didascalico sulla base di una lunga intervista3 che ebbi la fortuna di ottenere durante una visita alla New York University, dove insegnava questo grande economista americano, figlio di una coppia di ebrei cechi sfuggiti miracolosamente a Hitler. In quella occasione Baumol mi raccontò come la scoperta economica, legata al suo nome, ebbe in realtà un’origine casuale legata al fatto che, nelle ore libere da studi e attività accademiche, si dedicava, da dilettante domenicale, alla pittura e alla scultura. Nel 1960 Rockfeller, proprietario fra l’altro anche della Twentieth Century Fund, cominciò a preoccuparsi dei costi crescenti degli spettacoli dal vivo e chiese in giro se vi era un economista specializzato nei costi delle arti. Gli fu detto che a Princeton vi era un professore esperto sia di arte che di economia. Su questo equivoco di partenza venne commissionata a Baumol una ricerca sul perché i costi dei concerti e degli spettacoli operistici e teatrali fossero così alti e sempre crescenti. La ricerca durò tre anni e, assieme a una serie di altre interessanti conclusioni, generò quel «modello di malattia da costo» o «malattia di Baumol» che questo grande economista definì, comprovandolo con calcoli e teoremi, per spiegare, rivedere e rilanciare il welfare sanitario (ma anche scolastico), così come il restauro e le attività pubbliche di mantenimento del decoro urbano. Il significato originario del «modello» parte dalla constatazione che le prestazioni artistiche dal vivo (non dunque il cinema, la TV e ogni altro spettacolo riproducibile) sono inadatte a recepire l’applicazione di mutamenti tecnici che aumentano la produttività. Un quartetto di Mozart, della durata di mezz’ora, che nel Diciottesimo secolo implicava due-ore persona (quattro musici) di esecuzione, al giorno d’oggi richiede esattamente la stessa quantità di tempo e di addetti. Nel frattempo, in quasi tutte le attività economiche, la produttività è cresciuta in maniera esponenziale, accumulando un enorme differenziale. Ma, poiché i salari del settore artistico sono stati durante tutto questo tempo correlati a quelli del resto dell’economia, ne consegue che il costo del settore artistico, in mancanza di una produttività propria, deve crescere continuamente ad un tasso più alto di quello rilevabile in tutti gli altri settori. E, quindi, che i fondi destinati allo spettacolo, per finanziarne i costi, debbono crescere ogni anno ad un tasso eccedente il tasso d’inflazione, se non si vuole che le attività artistiche, non potendo autofinanziarsi con biglietti d’ingresso di prezzo astronomico per compensare la mancata produttività, messe fuori mercato, finiscano per scomparire. Partendo da Mozart, Baumol è arrivato, quindi, alla crisi sanitaria e scolastica, al degrado urbano, all’assistenza agli anziani e in generale al rapporto tra «opulenze private e pubblici squallori» come ha titolato un suo lavoro. Analizzando i cosiddetti settori a produttività stagnante Baumol ha verificato come in questi la prestazione di lavoro non sia quasi mai standardizzabile (una vista medica, una lezione scolastica, accudire vecchi, pazienti o bambini comporta un tempo non accorciabile, metodi di lavoro non standardizzabili e un impegno personale specifico). In questi settori la forza lavoro non è riducibile se non a scapito del servizio (meno maestri per più alunni? Meno infermieri per posti letto? Meno poliziotti per le strade?). I tagli, quindi, degradano o annullano la prestazione. Ma allora, chiesi, se i settori stagnanti subiscono un aumento dei costi sempre superiore all’inflazione, come è possibile mantenere i servizi? Non ha forse qualche ragione la destra che vuole tagliarli, affidandoli, per quanto riguarda i ceti benestanti, alle assicurazioni private e assicurando, al massimo, servizi minimi ai ceti meno abbienti? Baumol con una serie di calcoli, teoremi, equazioni ha spiegato ampiamente come, se si calcolano gli enormi guadagni complessivi della produttività globale, la società anziché tagliare i servizi può permettersi sempre più cure mediche, sempre più istruzione, sempre più assistenza agli indigenti, senza rinunciare alla crescente abbondanza del benessere privato. Si tratta di decidere democraticamente come spendere e suddividere i sempre più abbondanti volumi di reddito che la società nel suo assieme produce. Quindi la questione del welfare sanitario va affrontata non subendo il terrorismo contabile, ma sapendo bene che strutturalmente i suoi costi aumentano più dell’inflazione, più del costo della vita. E ancor più sono destinati a crescere con il prolungamento dell’esistenza media da un lato e, dall’altro, con scoperte tecnologiche e scientifiche che migliorano grandemente la qualità diagnostica e terapeutica, ma in genere s’incorporano nella prestazione medica, non ne tagliano i tempi. D’altro canto, vi è una tale produttività del sistema globale per ora lavorata, che i cittadini democraticamente possono decidere di pagarsi la sanità che vogliono. La sanità va dunque «conteggiata» nel quadro del sistema economico generale e non per singola unità. Le entrate e le uscite vanno di conseguenza valutate in base a scelte democratiche consapevoli.

Un ultimo punto che vorrei brevemente trattare, e che la sinistra seguita a non recepire in tutta la sua gravità, riguarda la questione della lottizzazione. Non è una questione morale, ma politica, e investe il quesito se la sinistra saprà o meno recuperare il concetto di egemonia politico-culturale, abbandonando la pratica dell’occupazione diretta del potere di gestione. Questa prassi ha condotto ad incidere in modo diretto nelle nomine dei primari, dei «primarietti» e di qualsiasi incarico, anche minore. Strumento eterodiretto della lottizzazione e della spartizione partitica all’interno della coalizione che governa la regione sono i direttori generali, forniti di un potere di nomina e di rimozione che va ben oltre il loro compito istituzionale, consistente essenzialmente nell’applicazione e nel controllo del piano di politica sanitaria decisa dalla regione e su scala nazionale. Lì dovrebbe arrestarsi la loro funzione.

La lottizzazione delle corsie, assolutamente pervasiva e incontrastata, è, per contro, foriera di continue lacerazioni e scontri all’interno delle coalizioni di centrosinistra e di centrodestra, e spinge i medici, anche quando non hanno un’appartenenza politica, a darsene una, a cercare il protettore, il tutor politico. Induce i direttori generali, sollecitati dagli assessori, a moltiplicare i posti con la creazione dei «primarietti» che dipendono da loro e che scoordinano completamente i servizi e le direzioni. Un tempo nel DNA della sinistra vi era una sana idiosincrasia per la lottizzazione sanitaria, tanto che il PCI si ritirò dai consigli di gestione delle USL. Oggi, con il federalismo, attraverso la funzione abnorme degli assessori e dei presidenti di regione, abbiamo attorno alle nomine sanitarie la creazione di un potere auto referenziale sbagliato e negativo, che ci impedisce una giusta politica sanitaria, una giusta egemonia culturale sul mondo sanitario.

Ecco perché si deve ritornare a concorsi estremamente rigorosi, basati su commissioni esterne alla regione, dotati di norme oggettive precise che permettano una classifica certa, professionalmente accurata e non eludibile. Certo, questo non vanificherà completamente le pressioni e qualche inciucio, ma certamente molto meno di quello che avviene oggi attraverso una lottizzazione stressante e continua.

Ho sentito dire da autorevoli esponenti dei DS che questa posizione sarebbe «troppo avanzata» e tale da non consentire il necessario consenso politico. Appare difficile immaginare l’introduzione dei concorsi come si trattasse dell’avvento dei soviet.

 

Bibliografia

1 Cfr. I.R. Marino (a cura di), I cittadini al centro della sanità, in «Italianieuropei», 4/2005.

2 Conferenza nazionale dei DS sulla salute e le politiche sociali, «Ricomincio da Te. Per la salute, per il benessere sociale, nuove politiche di sostenibilità», Roma 27-28 gennaio 2006.

3 Cfr. M. Pirani, Il futuro dell’economia, Mondadori, Milano 1993.

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  • Articolo Generico - Testata: La sanità

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