Le cause della crisi del progetto europeo

Di Alessandro Campi Martedì 15 Gennaio 2019 12:01 Stampa

La crescita del sentimento antieuropeo, testimoniata dalla forza che hanno ormai raggiunto nei diversi paesi del continente i partiti che lo interpretano e lo cavalcano elettoralmente, difficilmente potrà es­sere arginata senza prima aver preso coscienza dei numerosi fattori – storici, culturali, economici e naturalmente politici – che sono alla base di tale crescita. È infatti la crisi del progetto di unificazione europea, per come esso si è sviluppato nell’arco degli ultimi quindici anni, all’interno di un contesto storico radicalmente mutato rispetto a quello in cui si era originato, ad aver determinato l’aumento della disaffezione/delusione dei cittadini nei confronti dell’Europa, non viceversa. Bisogna dunque partire dalle cause, non dagli effetti o dai sintomi.

E tra le cause alla base delle difficoltà odierne dell’Europa ce ne sono almeno tre, d’ordine per così dire storico-strutturale, sulle quali vale la pena riflettere, dal momento che ci fanno capire quali profon­di e probabilmente irreversibili cambiamenti si siano prodotti negli ultimi anni su scala continentale. Talmente forti e profondi da far pensare che una certa stagione dell’europeismo sia probabilmente terminata e che un’altra, su basi nuove, se ne debba necessariamente aprire.

La prima di tali cause – per quanto banale o semplicistica possa appa­rire – ha a che vedere con gli smottamenti geopolitici di lungo periodo prodotti dalla conclusione della guerra fredda. Quest’ultima era stata per l’Europa un potentissimo fattore di coesione interna – politica, ma anche sociale e culturale. C’era un nemico politico (che poi era anche un sistema ideologico e un modello sociale) al quale opporsi unitariamente. C’era un amico – gli Stati Uniti d’America – al quale si era uniti non solo da vincoli di lealtà e collaborazione, ma anche da un sistema di valori condiviso e da una rete di interessi anch’essi reciproci e convergenti. Ciò che è accaduto negli ultimi trent’anni, terminato il confronto ideologico globale tra Occidente e Oriente e apertasi la fase della globalizzazione, è che non si è riusciti a creare alcun nuovo sistema di regole su scala internazionale. Per l’Europa ciò ha comportato diverse conseguenze: una perdita di centralità e d’importanza nel contesto di un mondo che ha visto crescere altri attori di rilievo globale capaci di utilizzare la loro “potenza” (economica, poli­tica e anche militare) come l’Europa “unita” non è ancora in grado di fare; l’acuirsi di tensioni e differenze interne che in precedenza erano state compensate dal bisogno di mostrarsi compatti e solidali (basti guardare al modo con cui sono negativamente evoluti nel corso degli ultimi anni i rapporti tra Francia e Germania, alla spaccatura che si è prodotta in Europa tra la sua parte orientale e quella occidentale, alla storica decisione della Gran Bretagna di lasciare l’Unio­ne, al ruolo di battitore libero e anarchico che l’Italia, paese fondatore dell’Europa, sta ormai giocando ecc.); l’allentarsi del vincolo atlantico-occidentale (reso drammaticamente ancora più evidente dall’elezione alla Casa Bianca di un presidente, Donald Trump, che semplicemente ha smesso di considerare l’Europa un partner strategico).

In questo trentennio, è vero, il processo d’integrazione ha fatto grandi passi in avanti: sono entrati in vigore i Trattati che hanno consentito prima l’unione monetaria e poi l’allargamento verso est dei confini politico-economici dell’Europa, si è potenziata l’archi­tettura istituzione dell’Unione (dai poteri del Parlamento a quelli della Commissione), si sono ampliate le competenze dell’Unio­ne rispetto a quelle degli Stati membri su molte materie decisive. Ma tutto ciò paradossalmente non è stato sufficiente per accrescere il ruolo e il prestigio dell’Europa sulla scena internazionale; tanto meno per creare una più forte adesione politico-emotiva dei citta­dini europei alle istituzioni da cui sono sempre più governati. Anzi, si è creato un clima d’opinione che tende a considerare l’Unione un’architettura istituzionale che tanto più cresce in efficienza tecnica e in capacità decisionale quanto più perde in termini di democrazia e di partecipazione.

Il secondo fattore da considerare è la conclusione – brusca per quanto annunciata da molti segnali – del ciclo economico espansivo (più pro­duzione, più ricchezza, più consumi) che per almeno quattro decenni ha consentito a milioni di europei di vivere una condizione di crescen­te benessere materiale e di vera e propria agiatezza (specie a confronto con quanto nello stesso arco temporale accadeva nella gran parte del mondo). Un regime di crescita progressiva della ricchezza globale intorno al quale si è costruito un modello peculiare di Stato: quello cosiddetto sociale o, appunto, del benessere. La creazione nei diversi paesi europei, in forme più o meno articolate, di una vasta rete di protezione, servizi sociali e assistenza, massicciamente a carico dei bilanci pubblici, è ciò che al tempo stesso ha fa­vorito la pace sociale interna e dato al processo di integrazione una base di legittimità e consenso. Ma le politiche di austerità e rigore adottate in Europa come risposta alla crisi finanziaria globale iniziata nel 2008, così come la riduzione della capacità di spesa de­gli Stati, non più compensata sul lato delle politiche fiscali, hanno fortemente incrinato le dinamiche redistributive perseguite da questi ultimi per decenni. La crisi/trasformazione di un regime economico basato su una crescita che si riteneva indefinita e costante ha finito per mettere in discussione anche un modello sociale capace di assicurare a un tempo benessere individuale e coesione collettiva. Da anni gli Stati sociali europei stanno riducendo il livello e la quantità dei servizi offerti ai cittadini, molti di essi sono stati privatizzati (nel nome di una logica efficentista che ha contribuito ad accrescere il loro costo e a ridurre la platea di coloro che possono usufruirne), ovvero vengono ormai erogati secondo modalità sempre meno universalistiche.

Se quella sommariamente descritta rappresenta, come molti indizi fanno ritenere, una trasformazione non reversibile, viene natural­mente da chiedersi quanto tutto ciò possa incidere sulle democrazie sociali europee e sulla loro storica capacità di favorire l’integrazione sociale e la lealtà istituzionale di fasce sempre crescenti di popola­zione. Lo spettro della disoccupazione, della precarietà lavorativa, quando non della povertà vera e propria, la proletarizzazione dei ceti medi, la perdita altresì e la contrazione di forme di tutela sociale ed economica che erano state ormai introiettate dai cittadini alla stre­gua di diritti inalienabili, definiscono ormai un paesaggio politico e sociale segnato dalla preoccupazione per il futuro e il malumore, che spiega ampiamente l’avversione crescente che si tende a riversare nei confronti dell’Europa. Un moto largamente irrazionale, forse nem­meno pienamente giustificato in alcuni contesti nazionali, ma che è indicativo di un cambiamento storico reale e i cui effetti nel futuro sono difficili da prevedere: la fine di quel modello peculiare e forse unico nella storia del mondo – un privilegio tutto europeo – rappre­sentato appunto dallo Stato (universale) del benessere come motore dello sviluppo sociale, dell’integrazione tra classi e della promozione individuale.

Ma c’è un terzo fattore strutturale di cambiamento da prendere in considerazione, che aiuta anch’esso a spiegare l’insorgere di un an­tieuropeismo sempre più virulento (che è cosa diversa dall’euroscet­ticismo che caratterizzava coloro i quali pur ritenendo l’Europa un orizzonte ineluttabile sostenevano che quest’ultima dovesse costruirsi con prudenza e nel rispetto dell’autonomia politica dei singoli Stati). Ci riferiamo alla profonda trasformazione in corso dei sistemi par­titici che per decenni hanno caratterizzato la gran parte delle demo­crazie europee favorendone la funzionalità e soprattutto la stabilità. Erano sistemi dominati in larga parte dai partiti popolari e di massa: in particolare quelli di ispirazione cristiano-democratica e quelli di matrice socialista. Non è un caso che la famiglia politico-partitica popolare e quella socialista abbiano costituito l’ossatura dell’Europa politica, sulla base di un meccanismo di collaborazione-alternanza che anche a livello comunitario si è tradotto in una grande stabilità e in una pratica di governo basata su una sostanziale condivisione degli obiettivi e delle decisioni necessarie per conseguirli.

Parliamo di partiti che, in virtù delle loro capillari strutture organiz­zative sul territorio, hanno esercitato una grande azione formativa, sul piano della cultura politica e dell’èthos pubblico, a livello di opi­nione pubblica e di grandi masse. Che hanno garantito processi di partecipazione e coinvolgimento che sono stati anche la premessa per la nascita di solide classi dirigenti che dalla sfera nazionale si sono poi spesso proiettate su quella europea. Che hanno svolto altresì un ruolo (spesso trascurato) di disciplinamento sociale, grazie al quale si è evitato ai cattivi umori sempre presenti nel cuore di ogni società di emergere sulla scena pubblica o di acquisire una minima dignità politica (anche solo sul piano del linguaggio). Partiti che erano an­che – per riallacciarci al punto esposto in precedenza – delle grandi macchine redistributive sul piano economico-sociale, dal momento che tenevano stretta nelle loro mani la leva della spesa pubblica, at­traverso la quale concedevano benessere in cambio di consenso.

Ma anche tutto ciò sembra finito. Particolarmente spettacolare e drammatica è stata, negli ultimi anni, la caduta in molti paesi euro­pei (al limite della dissoluzione) delle forze d’ispirazione socialista. Ma anche i partiti cristiano-popolari o in senso lato conservatori appaiono ormai in crisi verti­cale di consensi e di legittimità. Non perdono solo iscritti, militanti e voti; soprattutto hanno perduto il ruolo strategico e d’indirizzo, politica­mente stabilizzatore, svolto nel passato.

Si può naturalmente discutere sulle cause di questo cambiamento: ancora una volta la crisi economica che ha investito l’Europa trasfor­mandone le dinamiche politiche e la struttura sociale; ovvero l’impatto delle nuove tecnologie digitali che hanno messo in discussione i modelli organizzativi, le modalità di selezione dei gruppi dirigenti, le forme di leadership e i codici comunicativi che avevano caratterizzato i partiti di massa a partire dal secondo dopoguerra. Ma ciò che interessa è cosa abbia prodotto questo cambiamento. Per cominciare la comparsa di nuovi soggetti collettivi (quelli oggi ge­nericamente indicati con l’etichetta, per molti versi riduttiva e fuor­viante, di “populisti”) portatori di forme d’azione, di uno stile pro­pagandistico e di programmi molto diversi rispetto a quelli tipici dei partiti di massa di un tempo. Il che significa un’aumentata frammen­tazione dell’offerta politica, un’accentuata polarizzazione ideologica (vista l’impronta “radicale”, di destra e di sinistra, di molti di questi nuovi soggetti) e un rischio potenziale di ingovernabilità considerato che alla struttura sostanzialmente bipolare della maggior parte delle democrazie europee si è ormai sostituita una competizione che ten­de a coinvolgere almeno quattro-cinque blocchi politico-elettorali. Tutti fattori a cui bisogna aggiungere la crescita, ovunque in Europa, dell’astensionismo, dell’apatia e della volatilità elettorale e che non poco hanno contribuito allo stato di malessere collettivo che, come accennato, ha finito per scaricarsi emotivamente e politicamente, in modo polemico e strumentale, contro l’Europa e tutto ciò che essa si ritiene simboleggi, spesso in negativo.

Anche questa sembra una trasformazione destinata a divenire strut­turale. Le democrazie europee in passato hanno dovuto fare i conti con partiti o movimenti cosiddetti “di protesta”, la cui caratteristica però è sempre stata di essere effimeri, destinati cioè a esaurirsi in breve tempo, ovvero a mantenersi su livelli di consenso largamen­te inferiori al 10%, come tali da considerarsi del tutto fisiologici e per nulla preoccupanti dal punto di vista della stabilità/funzionalità del sistema politico. I par­titi “populisti” odierni hanno invece dimostrato una capacità di radicamento e una presa elet­torale che vanno oltre quella che un tempo si esprimeva in termini di semplice “protesta” e di opposizione al sistema. Parliamo di formazioni che – dalla Spagna all’Italia, dalla Francia alla Germania, dall’Olanda alla Polonia, dalla Gran Bretagna alla Svezia – non solo spesso arrivano a rappresentare un quarto dell’elettorato, ma che in diversi casi sono divenute forze di governo – a livello periferico, ma soprattutto a li­vello nazionale. Capaci in ogni caso di esercitare una forte influenza e attrazione sull’opinione pubblica. L’Europa odierna (e quella del prossimo futuro) deve dunque fare i conti con una dinamica politi­ca e con sistemi partitici significativamente diversi da quelli che ne hanno favorito la nascita e il consolidamento. Il fatto che alle elezioni europee del maggio 2019, secondo tutti i sondaggi, popolari e socia­listi (sebbene molto indeboliti) riusciranno ancora a mantenere la maggioranza all’interno del Parlamento di Strasburgo può tranquil­lizzare nell’immediato, ma non può nascondere il fatto che qualcosa di nuovo (e probabilmente di irreversibile) è accaduto nella politica dell’Europa e dei singoli Stati nazionali: una sfida storico-sistemica alla quale non si può reagire, come sinora s’è fatto, solo denunciando la pericolosità per la democrazia dei partiti e leader divenuti i nuovi e aggressivi protagonisti della scena politica continentale. Anche perché tra questi ultimi non si annoverano solo l’illiberale Orbán, il sovranista Salvini o una vecchia conoscenza dell’estrema destra quale Marine Le Pen. Anche il movimento La Republique en Marche! di Emmanuel Macron, che pure è stato salutato da molti osservatori come un esperimento altamente originale e innovativo, s’è costruito – cosa sulla quale si sorvola con troppa indulgenza – sulle rovine dello storico bipolarismo francese tra gollisti e socialisti. En Marche non può certo essere accusato di essere un fenomeno in odore di autoritarismo, così come pienamente democratiche sono da considerare realtà quali Podemos e Ciudadanos in Spagna. Ma rimane il dato sul quale abbiamo richiamato l’attenzione: si tratta di partiti e movimenti, di aggregazioni o formule di mobilitazione elet­torale, in alcuni casi di modelli organizzativi e gestionali a dir poco inediti (è il caso del Movimento 5 Stelle in Italia), che nella sostanza stanno contribuendo anch’essi a scardinare e rimodellare i sistemi partitici, le culture politiche e gli equilibri di potere dei rispettivi paesi e, in prospettiva, della stessa Unione europea.

Il che significa che l’Europa, se vuole garantirsi un futuro riguada­gnando in consenso e legittimità, dovrà necessariamente fare i conti con queste trasformazioni e interrogarsi sulle ragioni tutt’altro che effimere o immotivate che le hanno determinate. Il che vuol dire im­maginare, all’interno dell’Unione e dei singoli Stati che la compon­gono, formule di governo politico, modalità di distribuzione della ricchezza e politiche economiche che siano nuovamente all’altezza delle aspettative di giustizia sociale, di benessere economico colletti­vo e di partecipazione democratica sulla base delle quali il progetto d’unità europea è storicamente nato.