Non è difficile vedere quali sono le basi strutturali di fenomeni migratori che ci accompagneranno per un periodo certamente non breve. Innanzitutto la demografia, che unita al dislivello delle condizioni materiali di vita delle persone tra i paesi di origine e quelli di approdo dei migranti, crea un movimento paragonabile a quello dei vasi comunicanti e ineludibile come in fisica. Ci sono poi, nelle fasi di globalizzazione, elementi che accelerano queste dinamiche: la crescita parossistica delle diseguaglianze, che abbiamo già richiamato e la diffusione delle tecnologie, che arrivano alla portata delle situazioni più precarie e indebolite, insieme realizzano l’idea di un mondo che si fa più piccolo, più conoscibile e più avvicinabile.
Possiamo, e dobbiamo, aggiungere a tutto questo anche le dinamiche che sono seguite alla caduta del muro di Berlino, e a questa “guerra mondiale a pezzi”, come la chiama il papa, che certifica un disordine e una geopolitica rimasta a briglia sciolta e senza principi di regolazione. Viviamo quindi un fenomeno accelerato di migrazioni: si parla di 65 milioni di persone in movimento. Per avere un’idea delle proporzioni, qualche studioso ci ricorda che dal 1870 al 1913 furono in 100 milio ni a mettersi in movimento, su una popolazione mondiale che era di un miliardo, e adesso è di sette.
Come è sempre avvenuto, lo “spaesamento da globalizzazione” prende in contropiede una sinistra fondamentalmente legata a un pensiero di progresso, eguaglianza e tolleranza, che si trova spiazzata dall’emergere di tendenze di chiusura e aggressive, da un lavoro ormai frantumato e ricattabile e dal progressivo sgretolamento dei presidi del welfare, in particolare in Europa. Si comprende l’atteggiamento spesso balbettante e incerto delle sinistre mondiali sul tema dell’immigrazione e dell’accoglienza.
In questa situazione, l’alternativa che la sinistra ha di fronte è stretta: incamminarsi verso una versione più “politicamente corretta” del mainstream identitario e protezionista, oppure scegliere la strada di una reazione razionale e vigorosa, capace di riaffermare con una nuova visibilità i suoi valori di fondo. Se si prende, come è giusto, questa seconda strada non si può che partire dall’interpretazione delle diseguaglianze e del disagio, perché è in questi luoghi che può correre più facilmente un pensiero regressivo.
Non si può sostenere che tutti abbiano uguale dignità nel mondo se non si invoca pari dignità per le persone in casa propria. Non può esserci un pensiero buono e vincente sui temi dell’accoglienza e dell’integrazione senza la riaffermazione, sia pure con contenuti nuovi, della dignità del lavoro e dell’universalismo nella risposta ai bisogni di salute, istruzione e sicurezza, senza la riaffermazione di una fiscalità progressiva, senza una legislazione che difenda il cittadino dalle prepotenze del mercato. È solo in questo quadro di valori e di programmi che può essere affrontato e gestito razionalmente il fenomeno dell’immigrazione.
Il primo punto da affrontare riguarda la coralità della risposta e il rischio che, drammaticamente, questo tema venga brandito come ragione ulteriore di chiusura e di conflitto fra uno Stato e l’altro, anche nel contesto europeo. Rimane quindi aperto il tema di una “condivisione del ragionamento” su scala continentale, che dia alla questione la sua priorità dirimente. Se si tratta di prendere un’iniziativa ferma, fino ad arrivare alla “sedia vuota”, bisogna farlo su questo, non sul deficit. Pretendendo l’apertura di corridoi ben governati rispetto ai quali ogni paese metta non solo tanti soldi, ma capacità organizzative e disponibilità all’accoglienza.
Più nello specifico del caso italiano, il disordine degli arrivi si è accompagnato a un certo disordine nei meccanismi di accoglienza, con circuiti organizzativi che hanno ampiamente sottovalutato che l’accoglienza è un fatto comunitario, non una questione che può risolversi tra un prefetto e un affittacamere. Dove si è tenuto conto di questo principio si è potuto registrare che il problema è stato ben risolto e ben controllato, e addirittura ha consentito la semina e la diffusione di valori positivi di umanità e tolleranza.
Inoltre, nel momento stesso in cui si concede oltre il lecito a meccanismi securitari (più facile tacitare le nostre coscienze su quel che succede in Libia piuttosto che piegare un mignolo dell’egoismo dei paesi europei!), è proprio allora che occorre dare visibilità ai nostri valori di fondo. Per questo va colta l’occasione dello ius soli come messaggio di uguale dignità, invece di schiaffeggiare pericolosamente ragazzi che si vedono negato un diritto venendo assimilati a “quelli dei barconi”, o addirittura a “quelli degli stupri”. Ancora, lo ius soli sarebbe l’occasione per affermare contenuti di razionalità nell’organizzazione sociale e civile, così come lo sarebbe attrezzare il paese a una regolarizzazione graduale e molecolare (cioè senza sanatorie generalizzate) per le oltre 400.000 persone che in gran parte curano i nostri anziani o già lavorano dai nostri artigiani senza essere regolari, ingrossando un “esercito di fantasmi”.
Un simile programma sarebbe in grado di ribadire visibilmente i valori della sinistra portandoli dal cielo alla terra, e non relegandoli a impotenti declamazioni che possono apparire, soprattutto a chi è nel disagio, lavacri di coscienza di anime belle. In sostanza, separare i valori dal combattimento è l’errore più tragico che la sinistra può commettere.