Il futuro della Turchia con l'AKP

Di Mustafa Akyol Venerdì 29 Febbraio 2008 16:27 Stampa
Le elezioni generali turche tenutesi il 22 luglio 2007 sono state considerate da alcuni commentatori decisive per dare forma nei prossimi decenni a questa Repubblica, a stragrande maggioranza musulmana eppure ostinatamente laica. Nonostante fosse stato ampiamente previsto che il Partito per la giustizia e lo sviluppo, attualmente al potere e meglio conosciuto con la sigla turca AKP, sarebbe risultato la formazione politica più forte, solo pochi avevano previsto le dimensioni della sua vittoria. L’AKP ha conquistato il 46,6% dei voti e 340 seggi su 550 in parlamento, un sorprendente trionfo elettorale, quale non si vedeva sulla scena politica turca fin dai primi anni Sessanta.

Dopo la convocazione del nuovo parlamento, l’AKP ha ottenuto un secondo successo: ha candidato alla presidenza del paese il suo ministro degli esteri Abdullah Gül, che molto rapidamente è stato eletto undicesimo presidente della Turchia. Sua moglie, la signora Hayrunnisa Gül, è diventata la prima first lady del paese a indossare in pubblico il velo islamico. Tutto ciò significa che negli anni a venire la politica turca sarà formulata da un governo dell’AKP e da un presidente ex membro dello stesso partito. Alcuni turchi laici e diversi osservatori stranieri, rimarcando l’identità islamica dei leader dell’AKP, esprimono una certa ansietà per questa situazione. Tuttavia, benché sia vero che il controllo assoluto sulla politica da parte di un unico partito sia un fatto negativo e che la Turchia abbia bisogno di un’efficace opposizione per sorvegliare le politiche dell’AKP, l’identità e l’ideologia del Partito giustizia e sviluppo sembrano più promettenti di quelle dell’opposizione laica.

«Islamisti» che non sono tali Sebbene l’AKP sia al potere dal 2002 e abbia portato avanti un apprezzato programma politico ed economico liberale (in senso classico), l’establishment turco, fermamente laico, non si è mai fidato del tutto di un partito nato come ala liberale di un pensiero islamico più radicale. Così, mentre i dirigenti dell’AKP si autodefiniscono «conservatori», i turchi laici continuano a chiamarli «islamisti », un’etichetta affibbiata per dare di loro, in patria e all’estero, l’immagine di integralisti islamici in stile talebano. Così lo scontro politico in Turchia, che ha toccato il punto più acuto quando i generali turchi, la notte del 27 aprile, hanno stilato un duro «memorandum laico», è stato comunemente definito una lotta di potere tra «islamisti» e «laicisti». Per gli stranieri non molto addentro a questo dibattito è facile dare per scontato che i primi siano bigotti e xenofobi mentre i secondi abbiano una mentalità aperta e filoccidentale.

Eppure il quadro esatto è precisamente l’opposto. Mentre l’AKP è un fermo sostenitore del libero mercato, delle libertà civili e della scommessa europea della Turchia, l’opposizione laicista, guidata dal Partito repubblicano del popolo, rifiuta tutti questi obiettivi. A dire il vero, i laicisti ritengono che la maggior parte delle riforme sostenute dall’AKP nel corso dei negoziati per l’adesione all’Unione europea sia in realtà parte di un complotto architettato dagli «imperialisti» occidentali per annacquare la sovranità turca. Una serie di recenti bestseller scritti da Ergün Poyraz, laico e intransigente sostenitore della teoria del complotto, esprime bene lo spirito dei tempi. I suoi libri «di inchiesta», infatti, argomentano in modo paranoico che i leader dell’AKP e le loro mogli velate, altro non siano che cripto-ebrei che collaborano con i «saggi di Sion» per distruggere il sistema secolare turco.

Comprendere il kemalismo Per interpretare correttamente la lotta di potere in Turchia è meglio considerarla un conflitto tra liberali, alcuni dei quali sono musulmani, e laicisti illiberali. L’atteggiamento mentale di questi ultimi prende forma da un’ideologia molto rigida e datata, conosciuta come «kemalismo». Il termine deriva da Mustafa Kemal Atatürk, l’eroe della lotta di liberazione e fondatore della moderna repubblica turca. Sebbene fosse indubbiamente un grande leader, Atatürk non pretese mai di essere un teorico politico. Eppure, questo è il ruolo che gli attribuiscono i suoi sostenitori. Dopo la sua morte, fu creato un vero e proprio culto della personalità intorno a questo «capo supremo» le cui scelte politiche furono trasformate in principi eterni. Uno di questi è lo «statalismo», secondo il quale l’economia deve essere controllata dallo Stato. Ciò spiega perché molti kemalisti contemporanei si oppongono fieramente alle privatizzazioni e agli investimenti esteri diretti.

Il principio della laicità, tanto discusso in Turchia (e che, a differenza di quanto avviene negli Stati Uniti, lascia davvero poco spazio alla libertà religiosa) è un altro sacro pilastro del kemalismo e rispecchia lo spirito degli inizi del Novecento. A quel tempo, la gran parte dei pensatori europei consideravano la religione un mito irrazionale, da sostituire con la scienza nel corso del processo di modernizzazione. Per questo i kemalisti non solo vogliono preservare la separazione fra religione e Stato – un principio accettato dall’AKP – ma cercano anche di escluderla dalla società. Oggi molti filosofi ed esperti in scienze sociali sostengono la compatibilità tra modernità e credo religioso, ma i kemalisti non riconoscono queste idee nuove né se ne preoccupano. Per loro, tutte le verità fondamentali di cui i turchi hanno bisogno sono state già decretate da Mustafa Kemal. Tutto ciò che la nazione deve fare è salvaguardare questa saggezza trasmessa di generazione in generazione.

Mentre i kemalisti si sono cristallizzati in questa sorta di pedanteria secolare, i musulmani più devoti della Turchia, trattati per decenni come una classe inferiore, si sono modernizzati tanto quanto – se non addirittura di più – la nomenklatura laicista, e oggi comprendono il mondo globalizzato molto meglio e vi si integrano più agevolmente. Inoltre, più essi constatavano che paesi liberi come gli Stati Uniti o la Gran Bretagna assicurano ai propri cittadini musulmani la piena libertà religiosa, assente in Turchia, più apprezzavano la democrazia occidentale. Questo spiega perché la fiorente borghesia musulmana turca e la nascente intellighenzia islamica si sono fatte paladine della democrazia e del liberalismo. I kemalisti, invece, si oppongono all’una e all’altro, e di contro glorificano «la Repubblica», un eufemismo che sta a indicare l’oligarchia laicista.

Un nuova concezione di Islam e politica Il principale argomento sostenuto dal campo laicista è che i leader dell’AKP sono orientati verso l’Islam, e che quando influenza la politica in qualunque forma, l’Islam diventa una forza tirannica. La sintesi tra Islam e totalitarismo – un amalgama letale che ha generato al Qaeda e i suoi epigoni – è indubbiamente orribile, tuttavia la sintesi tra i valori dell’Islam e la democrazia liberale potrebbe rivelarsi, al contrario, una benedizione. Forse per questo motivo la politica dell’AKP verso i curdi è molto più tollerante e aperta: mentre i kemalisti sognano ancora di «turchizzare» tutti i curdi – una politica vecchia di ottant’anni che deriva dal culto dell’identità turca, l’alternativa laica all’Islam – il partito di Erdogan rispetta l’identità curda e fa riferimento al comune passato ottomano dei turchi e dei curdi. Non stupisce, dunque, che nelle elezioni di domenica 22 luglio l’AKP abbia registrato una grande vittoria nelle città curde, dove ha raccolto più voti dei nazionalisti curdi, che si erano presentati come candidati indipendenti. È anche interessante notare come l’AKP sia molto più tollerante, rispetto ai kemalisti, verso le minoranze turche non musulmane. Per questa ragione alcune eminenti personalità cristiane della Turchia, compreso il patriarca armeno Mesrob Mutafyan, hanno dichiarato prima delle elezioni la propria simpatia per il partito al governo. Ancora una volta, la tradizione ottomano-musulmana, che si esprime nei valori della pacifica coesistenza delle tre religioni monoteiste, sembra essere più pluralista dei principi kemalisti, che impongono invece una nazione rigorosamente omogenea.

In poche parole, la vittoria elettorale dell’AKP è una buona notizia per chiunque auspichi una Turchia più aperta e democratica, che potrebbe anche diventare un punto di riferimento per altri paesi musulmani. Questi ultimi sono stati oppressi per tutto il XX secolo da autocrazie laiche o da tirannie islamiche. Ora l’AKP dimostra che un movimento politico diretto da musulmani praticanti può abbracciare capitalismo, democrazia e laicità. Ed è proprio questo l’esempio che il mondo islamico ha bisogno di vedere.