Che cosa sono le primarie americane?

Di Sergio Fabbrini Venerdì 01 Novembre 2002 02:00 Stampa

L’America è come il calcio: tutti ne parlano, ma pochi la conoscono. La democrazia americana (nel senso degli Stati Uniti) sembra essere a portata di mano, tanto appare semplice e decifrabile. Figuriamoci le primarie: semplicissime. Così semplici da dividere i favorevoli e i contrari. Ma su che cosa? Nessuno che spieghi che cosa siano. Qui, procederò diversamente. Primo, spiegherò cosa sono le primarie americane. Secondo, discuterò quando e perché sono nate. Terzo, descriverò alcune delle implicazioni che esse hanno avuto sui partiti politici. Quarto, cercherò di trarre alcuni insegnamenti utili per chi è interessato alla democratizzazione della politica. La mia conclusione è che le primarie americane non siano esportabili, tanto sono specifiche al contesto che le ha generate. Tuttavia, esse possono fornire alcune indicazioni utili al nostro riformismo.

 

L’America è come il calcio: tutti ne parlano, ma pochi la conoscono. La democrazia americana (nel senso degli Stati Uniti) sembra essere a portata di mano, tanto appare semplice e decifrabile. Figuriamoci le primarie: semplicissime. Così semplici da dividere i favorevoli e i contrari. Ma su che cosa? Nessuno che spieghi che cosa siano. Qui, procederò diversamente. Primo, spiegherò cosa sono le primarie americane. Secondo, discuterò quando e perché sono nate. Terzo, descriverò alcune delle implicazioni che esse hanno avuto sui partiti politici. Quarto, cercherò di trarre alcuni insegnamenti utili per chi è interessato alla democratizzazione della politica. La mia conclusione è che le primarie americane non siano esportabili, tanto sono specifiche al contesto che le ha generate. Tuttavia, esse possono fornire alcune indicazioni utili al nostro riformismo.

Le primarie sono un metodo di selezione dei candidati che dovranno poi concorrere per acquisire cariche istituzionali monocratiche. Selezione e non già elezione, in quanto la prima attività è precedente alla seconda. Si chiamano primarie, infatti, perché si tengono «prima» delle elezioni finalizzate ad assegnare cariche di governo o seggi di rappresentanza. Sono definite più propriamente come primarie dirette, in quanto prevedono il coinvolgimento diretto degli elettori nella scelta dei candidati che essi dovranno poi votare. Le primarie dirette sono un genere a cui corrispondono diverse specie. Nel senso che, per primarie dirette, occorre intendere una pluralità di metodi di selezione, seppure ognuno di essi si basi su una partecipazione diretta degli elettori nella selezione dei candidati. Le differenze tra i vari tipi non sono di poco conto. Anzi, la loro diversa organizzazione incide formidabilmente sull’esito della selezione. Il criterio distintivo è quello della registrazione presso le liste di un partito, da non confondere con l’iscrizione ad un partito. La registrazione in un partito non ha (necessariamente) implicazioni finanziarie o ideologiche. È un atto pubblico, non privato, nel senso che è regolato dalle leggi statali e non dagli statuti partitici. Insomma, in America ci si registra in un partito, mentre in Europa ci si iscrive.

Naturalmente, la primaria diretta che attira la maggiore attenzione è quella relativa alla selezione dei candidati per la presidenza.1 Nelle elezioni presidenziali del 2000, i partiti politici (e in particolare i due maggiori) hanno fatto ricorso a cinque tipi diversi di primaria diretta. Il primo tipo è la «primaria chiusa». Ad essa possono partecipare solamente quegli elettori che si sono anticipatamente registrati in un partito. Il registro è pubblico nel senso che è depositato presso un’autorità pubblica e da quest’ultima è scrutinato. Gli elettori ricevono una scheda in cui sono elencati solamente i candidati del partito in questione che corrono per una data carica politica. Questo tipo di primaria diretta è stato adottato in quindici Stati (Connecticut, Delaware, District of Columbia, Kentucky, Maine, Nebraska, North Virginia, New Jersey, New Mexico, New York, Oklahoma, Oregon, Pennsylvania, South Dakota,Wyoming). Anche all’interno di questa primaria ci sono alcune differenze, da non sottovalutare, relativamente alla scadenza utile per registrarsi o per cambiare affiliazione partitica. Ad esempio, nello Stato di New York la registrazione deve essere effettuata un anno prima della data prevista per la primaria diretta, nel Connecticut tre mesi prima, in South Dakota quindici giorni prima.

Il secondo tipo è la «primaria chiusa ma aperta agli indipendenti». Come nella precedente primaria, possono votare quegli elettori che si sono registrati in un partito. Tuttavia, contrariamente a quella precedente, possono votare anche quegli elettori cosiddetti indipendenti che decidono però di partecipare alla primaria diretta di un dato partito. Generalmente, questi elettori vengono registrati in un partito il giorno in cui si presentano al seggio della primaria diretta di quel partito. Così è avvenuto in dodici Stati, e cioè in Arizona, Colorado, Florida, Idaho, Kansas, Maryland, Massachusetts, New Hampshire, North Carolina, Rhode Island, Utah, West Virginia. Ma anche qui, vi sono alcune differenze da considerare. Ad esempio, in Florida gli elettori indipendenti possono partecipare alla primaria diretta di un partito se quest’ultimo è l’unico partito che promuove la primaria. In Maryland o New Hampshire, l’elettore indipendente può chiedere di essere tolto dal registro del partito subito dopo che ha finito di votare nella sua primaria diretta. Oppure in Utah, l’elettore indipendente viene automaticamente cancellato dal registro del partito una volta che ha votato nella sua primaria diretta. I democratici dell’Oregon hanno utilizzato questa primaria, mentre quella chiusa è stata utilizzata dai repubblicani.

Il terzo tipo è la «primaria aperta con dichiarazione pubblica». Possono partecipare alla primaria diretta gli elettori che dichiarano la loro scelta di partito il giorno della selezione e presso il seggio in cui essa si tiene. Qui non c’è bisogno di alcuna registrazione per partecipare alla primaria diretta. L’elettore prende la scheda del partito nella cui primaria ha deciso di partecipare, appone la propria preferenza e quindi la restituisce ai rappresentanti di quest’ultimo nel seggio (in cui si tengono anche le primarie di altri partiti). Questa primaria diretta è stata utilizzata in undici Stati, e cioè in Alabama, Arkansas, Georgia, Illinois, Indiana, Missouri, Ohio, South Carolina, Tennessee, Texas, Virginia. Anche qui ci sono differenze, ma non rilevanti. Ad esempio, in Texas la scelta di votare nella primaria di un partito viene considerata al pari di una registrazione informale in quest’ultimo, registrazione quindi valida per l’anno successivo (nel senso che l’elettore potrà partecipare automaticamente ad altre primarie dirette di quel partito per quel periodo di tempo). Negli altri Stati, invece, la scelta non avrà alcun effetto. Così un elettore può partecipare alle primarie dirette di un altro partito, ovviamente per selezionare candidati per una differente carica pubblica.

Il quarto tipo è la «primaria aperta con scelta privata». Possono partecipare alla primaria diretta tutti gli elettori che si presentano al seggio in cui si tengono le primarie dei vari partiti. Qui, gli elettori ricevono le schede dei vari partiti, con il nome dei candidati che corrono nella primaria di ognuno di essi. L’elettore potrà scegliere nella segretezza del seggio a quale primaria partecipare, apponendo la propria preferenza nella scheda relativa e restituendola insieme alle schede degli altri partiti. Insomma, nessuna dichiarazione è necessaria. Questa primaria diretta è stata utilizzata in nove Stati, e cioè in Hawaii, Idaho, Michigan, Minnesota, Mississippi, Montana, North Dakota, Vermont, Wisconsin. In Vermont questa primaria è stata utilizzata per la selezione dei candidati alla presidenza, mentre si è ricorsi alla primaria con dichiarazione pubblica per la selezione dei candidati alle cariche statali. In Hawaii, la primaria non viene utilizzata per la selezione dei candidati alla presidenza, ma solamente per le altre cariche federali e statali. Anche nel caso di questa primaria, non mancano le differenze di regolazione. Ad esempio, in Idaho e in Michigan i democratici, contrariamente ai repubblicani, non considerano come vincolante l’esito della selezione conseguito con questa primaria.

Il quinto tipo, infine, è la cosiddetta blanket primary, o «primaria coperta». Qui gli elettori ricevono un’unica scheda con i nomi di tutti i candidati di tutti i partiti che partecipano alla selezione per quella determinata carica. I due candidati più votati, a prescindere dalla loro affiliazione partitica, si presenteranno quindi alle elezioni successive per conquistare la carica in gioco. Poiché le cariche in gioco sono diverse, gli elettori riceveranno per ognuna di esse la scheda con i relativi candidati dei vari partiti. L’elettore sceglie il candidato preferito senza alcun vincolo di partito. Ovvero può scegliere candidati di partiti diversi per le diverse cariche in gioco. Questa primaria è stata adottata in quattro Stati, e cioè in Arkansas, California, Louisiana e Washington. Anche se solamente in Arkansas per la selezione dei candidati presidenziali, mentre negli altri tre Stati solamente per la selezione dei candidati alle cariche statali. Tale primaria diretta continua ad essere oggetto di un’infuocata discussione pubblica. Tant’è che, proprio nel 2000, la Corte suprema, attivata da un ricorso del partito democratico della California, ha emesso una sentenza (California democratic party v. Jones) di incostituzionalità di tale primaria. Il Partito democratico californiano, infatti, aveva argomentato che tale primaria diretta (imposta per legge dallo Stato) costituiva una negazione del suo diritto di preservare la propria organizzazione, diritto garantito dal primo emendamento (relativo alla libertà di associazione) della Costituzione. Dunque, quando in Italia si parla di «primarie americane»,2 a quale tipo di primaria diretta ci si riferisce?

 

Quando e perché?

Le primarie dirette costituiscono un aspetto peculiare della politica americana. Sia ieri che oggi, nessun’altra democrazia ha mai adottato un simile metodo per la selezione dei candidati alle cariche pubbliche. La primaria diretta è un tipico esempio di come si svolge il ciclo riformatore negli Stati Uniti. All’inizio l’innovazione viene sperimentata in uno Stato, grazie ad alcune condizioni che la rendono possibile o necessaria. Quindi viene imitata dagli altri Stati, che tuttavia adattano l’innovazione alle specifiche situazioni del loro sistema politico. Ovvero che la re-interpretano sulla base della loro predominante cultura politica. Nel nostro caso, il primo Stato ad imporre per legge ai partiti l’utilizzo delle primarie dirette fu la South Carolina nel 1896, quindi seguito dal Wisconsin nel 1903. Come ha spiegato magistralmente V.O. Key Jr. più di sessant’anni fa, inizialmente la primaria diretta fu adottata dagli Stati del Sud per ragioni sistemiche. Poiché questi Stati erano monopartitici (dopo la Guerra civile, come è noto, il partito repubblicano non era «legittimato» a presentarsi alle elezioni negli Stati della vecchia Confederazione), occorreva trovare un qualche accorgimento per rendere più competitiva la selezione dei candidati all’interno dell’unico partito legittimo (quello democratico). Per di più, essendoci un solo partito, quest’ultimo finiva per rappresentare una pluralità di interessi sociali ed ideali che erano spesso in contrasto gli uni con gli altri. Come scegliere tra di loro? Ovvero come scegliere tra candidati (dello stesso partito democratico) che esprimevano posizioni talora antagonistiche?

La primaria diretta fu la risposta empirica a questo problema. Essa consentiva di «bipartizzare» un sistema monopartitico. Tuttavia le sue caratteristiche potevano risultare utili anche a chi perseguiva un progetto diverso. Quello di smantellare le tradizionali strutture partitiche (party machines) che, a cavallo del XIX secolo, controllavano la politica municipale e statale, adottando metodi da fare impallidire i partiti governativi della nostra prima repubblica. È sufficiente dare un’occhiata agli atti delle commissioni congressuali che avevano investigato il fenomeno per capire di che cosa si trattava: manipolazione clientelare degli immigrati, corruzione politico-amministrativa diffusa, ricorso ad attività illegali per finanziare l’attività partitica, alleanza con gruppi criminali e mafiosi per risolvere i conflitti con gli avversari politici, controllo spietato della stampa cittadina, uso della violenza all’interno stesso dei partiti, inquinamento malavitoso delle corti e controllo partitico delle cariche giudiziarie elettive. Naturalmente, le situazioni di degenerazione democratica estrema tendono a produrre reazioni democratiche estreme (che rischiano sempre di buttare via il bambino con l’acqua sporca). La principale delle quali è stata la mobilitazione contro i partiti, ritenuti (più a ragione che a torto) vere e proprie associazioni a delinquere. Una verità, quest’ultima, che i difensori nostrani dei vecchi partiti americani, chissà perché, tendono sempre a trascurare. Comunque sia, gli Stati come il Wisconsin che erano alla testa del movimento riformatore dei Progressives videro nella primaria diretta una modalità per aprire i partiti politici e per neutralizzare i boss senza scrupoli che li controllavano. Non solo, a partire da quello Stato, vengono introdotte norme che riformano radicalmente il sistema elettorale, fino al punto di impedire ai partiti di presentarsi come tali alle elezioni locali. In particolare negli Stati orientali e delle pianure, venne approvata una legislazione che imponeva di presentare liste non partisan nelle elezioni municipali. Contemporaneamente radicali riforme amministrative furono introdotte per smantellare lo spoil system, così da incrementare il numero degli impieghi pubblici da assegnare sulla base del merito e della competenza e non dell’appartenenza al partito del vincitore. È inutile precisare che, in questo periodo, il vento riformatore passò soprattutto negli Stati e nelle città, proprio perché lì risiedeva il potere politico. Almeno fino agli anni Trenta del XX secolo, il centro federale era abbastanza debole e, al suo interno, l’istituzione più forte continuava ad essere quella rappresentativa degli Stati e delle località, e cioè il Congresso (tant’è che lo stesso Woodrow Wilson, in un suo studio del 1908, continuava a definire l’America come un «governo congressuale»). Insomma, agli inizi del secolo scorso, la primaria diretta divenne uno strumento in mano ai Progressives, utilizzato per aggredire il potere dei famigerati boss a capo delle macchine partitiche. Lo strumento ebbe un tale successo che, nel 1916, poco meno della metà degli Stati (venti) lo avevano adottato per la selezione dei candidati per la presidenza federale.

Ben presto, tuttavia, la crisi economica e le nuove minacce belliche porteranno ad un declino del movimento riformatore. I partiti, seppure ridimensionati, ripresero il controllo della selezione dei propri candidati, ricorrendo al loro strumento preferito: il caucus (una parola di origine pellerossa che più o meno significa «riunione a gambe incrociate di fronte alla tenda»). Il caucus è una riunione di partito che è largamente controllata dai leader di contea e di Stato. Così, dal 1916 al 1972, gli Stati che tengono le primarie dirette declinano inesorabilmente (mediamente sono 1/3 del totale), mentre crescono quelli che ricorrono alle riunioni o convenzioni di partito. Nondimeno, le primarie dirette vengono tollerate dai capi di partito in quanto occasione per misurare la popolarità dei candidati meno noti. Infatti, fu indubbiamente il successo ottenuto nelle primarie democratiche che consentì a J.F. Kennedy di vincere le resistenze dei leader democratici a nominare un irlandese-cattolico come candidato del partito democratico per l’elezione presidenziale del 1959. Ma occorrerà attendere i grandi conflitti degli anni Sessanta per veder rinascere la primaria diretta in quanto metodo per la democratizzazione dei partiti. La selezione, da parte del partito democratico nel 1968 nella sua Convenzione di Chicago, di un candidato (H. Humphrey) favorevole al proseguimento dell’intervento in Vietnam porterà ad una tale critica del metodo del caucus che, a partire dal 1972, la primaria diretta verrà assunta come il metodo principale di selezione da parte di quel partito.

Anche il Partito repubblicano seguirà quello democratico su questa strada. Se non altro perché costretto dalla legislazione di quegli Stati in cui i democratici erano la maggioranza. La primaria diretta verrà quindi imposta, dalla legislazione della maggioranza degli Stati, come il metodo principale di selezione delle candidature politiche. Nel 2000 solamente in Iowa, Hawaii, Minnesota, Nevada, Wyoming entrambi i maggiori partiti hanno fatto ricorso al caucus. Naturalmente, il caucus è stato utilizzato anche in altri Stati, ma non da entrambi i maggiori partiti. In particolare, i repubblicani hanno utilizzato il caucus in Alaska e North Dakota e i democratici in Delaware, Idaho, South Carolina, Washington e Virginia. Con l’eclisse del movimento pacifista degli anni Sessanta, la primaria diretta è diventata quindi uno strumento del nuovo populismo che si era affermato inizialmente negli Stati dell’Ovest e che condurrà ad una sequela di riforme sul piano locale e statale. Anche in questo caso, dalla primaria diretta al referendum, dall’iniziativa legislativa popolare al limite dei mandati, l’obiettivo continuava ad essere quello di delimitare il potere delle organizzazioni partitiche, in quanto si riteneva che potessero divenire facilmente preda di qualche potente gruppo di interesse. Non c’è un paese democratico in cui, come in America, il potere politico sia visto con così diffuso sospetto. Basti pensare al recall che diversi Stati hanno cercato di introdurre, in base al quale un politico eletto può essere addirittura sostituito dai suoi elettori durante il mandato, se ritenuto da essi non più rappresentativo. E allora, se non si collocano le primarie dirette in tale contesto storico-istituzionale, come si fa a capirle?

 

Le implicazioni

Si dice che le primarie dirette abbiano distrutto i partiti politici americani. Una banalità. Le primarie dirette sono un effetto della debolezza dei partiti, e non già una causa. Certamente,  i partiti americani si erano indeboliti per gli abusi di cui erano stati protagonisti. Tuttavia, la loro debolezza ha ragioni strutturali, e non solo comportamentali. Dopo gli anni Trenta del secolo scorso, con la crescita di influenza della presidenza e il contemporaneo mantenimento della forza del Congresso, il governo americano è divenuto un governo compiutamente separato. Quando il potere decisionale è condiviso da più istituzioni reciprocamente indipendenti, è difficile che i partiti diventino organizzazioni coese e accentrate. Di necessità, essi sono costretti ad adattarsi, sul piano organizzativo, alla separazione dei poteri vigente sul piano governativo. Per questo motivo, in America, si hanno tanti partiti quanto sono le arene governative in cui essi debbono agire: la presidenza, la camera dei rappresentanti, il senato e, quindi, le equivalenti istituzioni statali. Si può dire che, per quanto riguarda il partito nel governo, quelli americani sono una coalizione di partiti istituzionali. Ogni partito deve rispondere ad un diverso elettorato (quello presidenziale all’elettorato nazionale, quello della camera all’elettorato di distretto, quello del senato all’elettorato di Stato), si mobilita sulla base di diverse scadenze temporali (quello presidenziale ogni quattro anni, quello della camera ogni due anni, quello del senato ogni sei anni), deve tenere presente diversi interessi politici (l’interesse presidenziale a ridurre la spesa militare potrebbe non coincidere con l’interesse del congressman/woman del suo partito a preservare la base militare collocata nel suo distretto o Stato che garantisce il lavoro a molti suoi elettori). Per di più, con la separazione dei poteri, il congresso e il presidente sono istituzionalmente indipendenti: il primo non deve sostenere il secondo, come nelle democrazie europee. Di conseguenza non funziona neppure il richiamo alla disciplina parlamentare per tenere uniti i vari partiti. Insomma, nei sistemi a separazione multipla (orizzontale e verticale) dei poteri, la vita dei partiti è necessariamente dura. Le primarie dirette hanno dato la spinta ai partiti, ma essi erano già arrivati da soli sull’orlo del burrone. Quella spinta, nondimeno, ha avuto implicazioni importanti. Che vale la pena di ricordare. Elenco le quattro più evidenti. In primo luogo, la trasformazione di quei partiti in strutture di servizio, di formidabile efficienza, dei vari candidati che si affermano attraverso le primarie. Si dice che la politica americana sia diventata candidate-centered, ed è vero. Nel senso che sono i candidati a connotare i partiti, e non viceversa. I partiti sono delle guidelines, esprimono generici indirizzi di politica pubblica, ma non si connotano autonomamente come agenzie programmatiche. Ai candidati che vincono le primarie dirette è affidato il compito di definire il programma del partito presidenziale o dei vari partiti locali e statali. Se è vero che una primaria divide un partito al suo interno, è anche vero che i partiti americani erano già abbastanza divisi al loro interno per queste ragioni istituzionali.

In secondo luogo, le primarie dirette hanno portato ad una crescita straordinaria dell’attività di fund-raising da parte dei candidati. Poiché i partiti erano già deboli, e poiché una rigida legislazione sia federale che statale ha drasticamente ridimensionato le loro capacità finanziare di contribuire alle campagne elettorali dei candidati, questi ultimi si sono dunque trovati nella condizione di lavorare aspramente per trovare fondi, sostegni, risorse. Le primarie dirette hanno fatto lievitare drammaticamente i costi della campagna elettorale, che già di per loro erano impressionanti: nelle elezioni presidenziali e congressuali del 2000 sono stati spesi 3 miliardi di dollari, con un incremento del 50% rispetto al 1996. Ad essi andrebbero poi aggiunti i costi per le elezioni statali. In terzo luogo, un simile contesto non ha fatto altro che accrescere il ruolo di gruppi d’interesse potenti, oltre che di individui e imprese particolarmente facoltose. In particolare le primarie dirette hanno visto progressivamente crescere l’influenza dei gruppi organizzati piuttosto che quella del comune elettore, come sostenevano nel passato i Progressives e oggi i populisti.

Nel 1996, solamente il 7% dei delegati nella convenzione nazionale democratica, o il 16% in quella repubblicana, non aveva alcuna affiliazione di gruppo. Nel 2000 (sempre per quanto riguarda le convenzioni nazionali che si riuniscono in estate per formalizzare la nomina del candidato presidenziale che è emerso vincitore dal lungo percorso delle primarie dirette – e dei caucuses in alcuni casi), 1/3 dei delegati alla convenzione democratica erano membri del sindacato ovvero 1/5 dei delegati a quella repubblicana erano membri della National rifle association (l’associazione che difende il diritto a portare ed utilizzare privatamente le armi da fuoco – ovvero gli interessi di chi le fabbrica). Ciò significa che queste due organizzazioni hanno investito risorse e militanti nelle primarie dei singoli Stati, così da promuovere una candidatura simpatetica con le loro preferenze (ovvero con i loro interessi). Insomma, le primarie dirette tendono a fare emergere candidati e proposte che si collocano più a sinistra (nel partito democratico) o più a destra (in quello repubblicano) rispetto alla maggioranza centrista degli elettori del partito. Con il risultato che gli elettori di centro o indipendenti tendono poi a spostarsi sul candidato e la proposta meno estremi.

In quarto luogo, infine, la primaria diretta si è rivelata una formidabile opportunità per incrementare il ruolo politico dei media (in particolare televisivi). Enfatizzando le rivalità personali all’interno dei partiti, la primaria diretta ha consentito ai media televisivi di personalizzare la campagna elettorale, influenzandone prepotentemente gli esiti. Di qui la legislazione statale e federale finalizzata a garantire o a promuovere la competizione tra stazioni radiotelevisive, in coerenza con la tradizione anti-monopolistica del paese. Ma ciò non è bastato. Tant’è che il ruolo delle televisioni private è divenuto così rilevante, nello stabilire i vincitori delle primarie dirette, che N.W. Polsby ha potuto definire i loro proprietari (i media bosses) come gli equivalenti funzionali dei tradizionali leader partitici (i party bosses). Se prima erano i secondi a scegliere i candidati all’interno di «stanze piene di fumo», ora sono i primi a farlo all’interno di «lindi schermi televisivi». E allora, se non si colloca l’esperienza delle primarie diretta nel contesto istituzionale del governo separato,3 come si fa a comprenderne lo sviluppo e le implicazioni?

 

Gli insegnamenti

Se si è consapevoli della specificità del sistema istituzionale, della peculiarità della cultura politica e della particolarità della vicenda storica degli Stati Uniti, allora tutto si può pensare (in Italia) ma non certamente di poter adottare il «modello» delle primarie dirette americane. Se i conservatori esaltano un’America che non conoscono, i riformisti non possono dividersi su un «modello organizzativo» che non è esportabile. Piuttosto, essi potrebbero trarre alcuni insegnamenti più generali dalla vicenda americana delle primarie dirette. In primo luogo, il riformismo europeo ha qualcosa da imparare dalla cultura anti-oligarchica del radicalismo democratico americano. I partiti politici non debbono essere strutture auto-referenziali, prigionieri dei gruppi organizzati al loro interno, insensibili agli interessi dell’elettorato che sta al loro esterno. Il riformismo deve perseguire il modello del partito «estroverso» come alternativa al partito «introverso» della sua tradizione proporzionalistica.4 Se i conservatori possono limitarsi a sostenere la tesi che «la democrazia tra i partiti» è sufficiente per connotare come democratico un sistema di partito, i riformatori debbono invece avanzare l’argomento che un sistema di partito è democratico solamente quando garantisce (anche) «la democrazie nei partiti». Per definizione, il riformismo non può accettare che vi siano ambiti decisionali non regolati dal criterio della partecipazione democratica. Naturalmente, vi sono, eccome, ambiti decisionali che debbono essere sottratti alla partecipazione democratica: ma tra di essi, di sicuro, non ci sono i partiti. Chi sostiene il contrario ha l’onere della prova. In secondo luogo, il riformismo europeo deve adattare la prospettiva della democratizzazione dei partiti alle condizioni storiche e alle caratteristiche del sistema istituzionale del contesto in cui esso agisce. L’Italia e l’Europa dei governi parlamentari e semi-presidenziali hanno bisogno di organizzazioni politiche che siano in grado di assolvere al loro basilare compito: dare vita a governi e opposizioni responsabili perché programmatiche. I nostri sistemi istituzionali non possono funzionare con i partiti dei candidati, pena il rischio di ritornare alla politica trasformistica dei notabili del passato.5 Tant’è che in Europa, in molti paesi e in partiti diversi, sono state sperimentate con successo primarie di partito, e non già primarie dirette, come ben spiega nel suo intervento Massari. Cioè primarie aperte agli iscritti e ai sostenitori del partito, cioè a coloro che ne condividono il programma e che si fanno carico (anche finanziariamente) di sostenere le attività per realizzarlo. Nel caso italiano, c’è una complicazione in più. E cioè il processo di democratizzazione dei partiti nella coalizione riformatrice deve avvenire contemporaneamente alla costruzione del partito coalizionale del riformismo. L’intervento di Barbera e Ceccanti fornisce indicazioni dettagliate e convincenti su come utilizzare le primarie di coalizione per costruire, oltre che per democratizzare, il nostro partito coalizionale di centrosinistra.

In terzo luogo, la costruzione/democratizzazione del nostro partito coalizionale (l’Ulivo) richiede l’utilizzo di strumenti plurimi di regolazione della competizione all’interno della coalizione. Se le cose che ho sopra detto sull’esperienza americana sono plausibili, allora è bene tenere presente le implicazioni che le primarie possono avere anche sul piano dei finanziamenti elettorali, del rapporto con i gruppi organizzati e del ruolo dei media televisivi. Un buon progetto di primarie di coalizione deve anticipatamente regolare l’insieme degli attori e delle relazioni che viene attivato dal processo di selezione. Con le buone intenzioni la democrazia non avanza. L’apertura dei partiti alla società non costituisce un avanzamento del processo democratico, se tale apertura finisce per favorire i candidati ricchi, o con gli amici influenti o con gli accessi privilegiati al sistema informativo. Dunque, primarie di coalizione sì, ma all’interno di un contesto governato da regole che garantisca una basilare eguaglianza delle opportunità e un esito selettivo rappresentativo.

Insomma, tra il partito del candidato americano e il partito d’apparato europeo, il riformismo deve perseguire una strategia alternativa. Quella del partito coalizionale, estroverso e maggioritario. Cioè di un partito il cui funzionamento interno sia coerente con il funzionamento del sistema politico in cui agisce. Se la logica della maggioranza, mitigata dal rispetto dei diritti delle minoranze, deve connotare quest’ultimo, la stessa cosa deve valere per il partito coalizionale. La primaria di coalizione, se opportunamente regolata, è un metodo appropriato di fare emergere una maggioranza politica, in quanto fornisce a quest’ultima quella legittimazione dal basso che le consente di farsi riconoscere come tale anche dalla minoranza; liberando così il processo decisionale interno al partito coalizionale dall’immobilismo imposto dai veti reciproci dei vari gruppi che costituiscono la coalizione.

 

 

Bibliografia

1 Cfr. S. Fabbrini, Il Principe democratico. La leadership nelle democrazie contemporanee, Laterza, Roma - Bari 1999.

2 Qui ho fatto riferimento all’esperienza aggregata dei cinquanta Stati più quella della capitale. Tuttavia, sarebbe bene considerare che all’interno di alcuni Stati possono essere utilizzati metodi diversi, come è nel caso della Virginia: la North Virginia ha adottato la primaria «chiusa» mentre la West Virginia quella «chiusa ma aperta agli indipendenti». Ricordo infine che, nei protettorati americani, le primarie si sono tenute solamente in Puerto Rico. Mentre gli altri, e cioè American Samoa, Guam,Virgin Island hanno realizzato la selezione attraverso il caucus.

3 Per un’analisi del sistema di governo separato statunitense cfr. S. Fabbrini, Il presidenzialismo degli Stati Uniti, Laterza, Roma - Bari 1993.

4 Sulle caratteristiche e la riforma dei partiti cfr. S. Fabbrini, Le regole della democrazia. Guida alle riforme, Laterza, Roma - Bari 1997.

5 Tutt’altro discorso riguarda l’Unione europea, che invece ha caratteristiche istituzionali molto più simili all’America che ai suoi paesi membri. Anche qui, cfr. S. Fabbrini e F. Morata (a cura di), L’Unione Europea. Le politiche pubbliche, Laterza, Roma - Bari 2002; S. Fabbrini (a cura di), L’Unione Europea. Istituzioni e attori di un sistema sovranazionale, Laterza, Roma - Bari 2002.