Sanità italiana sotto esame: quale terapia?

Di Ignazio R. Marino Mercoledì 01 Settembre 2004 02:00 Stampa

Le due grandi anime italiane, quella cattolica e quella laica socialista hanno certamente un terreno di incontro comune nel tentativo di alleviare la sofferenza. Per vincere l’indispensabile lotta mirata a creare una sanità più giusta, più umana e più efficace deve essere invocata proprio questa comune sensibilità alla sofferenza umana, che più di ogni altra scava le differenze sociali, economiche e culturali. La salute condiziona addirittura la nostra «capacitazione», le nostre opportunità di sviluppo, ciò che il premio nobel Amartya Sen pone alla base della possibilità stessa di emancipazione da situazioni di disuguaglianza sociale. È quindi indispensabile dare un’anima alla riorganizzazione sanitaria, sia ricordando che la medicina non è solo un mestiere, sia incoraggiando e chiamando a raccolta le forze che operano nel settore, dagli ordini professionali, ai sindacati, alle scuole, alle mille forme di volontariato che spesso lavorano con straordinaria efficacia nell’ombra.

 

Le due grandi anime italiane, quella cattolica e quella laica socialista hanno certamente un terreno di incontro comune nel tentativo di alleviare la sofferenza. Per vincere l’indispensabile lotta mirata a creare una sanità più giusta, più umana e più efficace deve essere invocata proprio questa comune sensibilità alla sofferenza umana, che più di ogni altra scava le differenze sociali, economiche e culturali. La salute condiziona addirittura la nostra «capacitazione», le nostre opportunità di sviluppo, ciò che il premio nobel Amartya Sen pone alla base della possibilità stessa di emancipazione da situazioni di disuguaglianza sociale.1 È quindi indispensabile dare un’anima alla riorganizzazione sanitaria, sia ricordando che la medicina non è solo un mestiere, sia incoraggiando e chiamando a raccolta le forze che operano nel settore, dagli ordini professionali, ai sindacati, alle scuole, alle mille forme di volontariato che spesso lavorano con straordinaria efficacia nell’ombra.

Nel nostro paese il diritto alla salute è garantito a ogni individuo dall’articolo 32 della Costituzione. A sua tutela, il Servizio sanitario nazionale (SSN), istituito nel 1978, si regge su tre princìpi: universalità e libertà di accesso, globalità di copertura se necessaria e sostegno finanziario pubblico. Può apparire contraddittorio, quindi, avvicinare il concetto di disuguaglianza – introdotto dalla definizione di Sen – a un diritto costituzionale. Eppure, mai come oggi il tema della salute degli «italianieuropei» (mi piace riferirmi così agli italiani del terzo millennio) sembra sollevare profondi dubbi sul concetto di equità e sulla sua applicazione concreta. In ogni contesto la sanità riveste un ruolo fondamentale e delicato, sia per il peso che ricopre nei bilanci, sia in quanto bene pubblico. Anche per questo «Italianieuropei» ha deciso di dedicare un’intera sezione all’argomento, ponendo così l’attenzione sulla necessità di delineare una bozza di progetto per una trasformazione sostenibile della sanità negli anni futuri. Si tratta di un percorso che presuppone un chiaro  ed esplicito disegno politico ma che, partendo dall’affermazione della difesa del diritto alla salute e dalla solidarietà verso i più deboli, deve coinvolgere tutte le forze significative della società civile: cittadini, medici, istituzioni, aziende, associazioni di pazienti, politici. In parte, queste diverse voci sono rappresentate già all’interno del presente volume. Sono stati inclusi esponenti del mondo medico e universitario, della ricerca, della politica, e amministratori esperti di problemi sanitari. Inevitabile una selezione di temi che non esaurisce tutte le priorità di intervento, ma che mira a evidenziare alcune zone critiche e a proporre un progetto concreto.

Le recenti agitazioni dei medici e del personale del SSN, peculiari per la partecipazione massiccia di tutte le sigle sindacali, hanno riproposto i pro e i contro di quello che ad oggi rappresenta la novità, potenzialità e al tempo stesso il nodo irrisolto della sanità nazionale degli ultimi anni: il federalismo. A questo tema trasversale è dedicato il presente articolo introduttivo, che lega in un unico progetto la trattazione degli argomenti che seguono: centralità del cittadino, conflitto pubblico/privato, prevenzione, razionalizzazione della spesa sanitaria e rapporti con l’industria farmaceutica.

La valutazione del federalismo sanitario si articola su due aspetti cruciali: il bilancio e l’equilibrio nell’assicurare la tutela, entrambi legati fin dall’inizio, in sede di assetto legislativo. A questo scopo, costituiscono tappe fondamentali il decreto legge n.56 del 2000, l’Accordo dell’8 agosto 2001 fra governo, regioni e province autonome, e il decreto del presidente del Consiglio dei ministri (DPCM) del 29 novembre dello stesso anno. Sono infatti i passaggi che hanno stabilito, da un lato l’entità delle risorse da attribuire al SSN e dall’altro i cosiddetti «livelli essenziali di assistenza » (LEA), ossia le prestazioni e i servizi da garantire ovunque a tutti i cittadini. Non si tratta di garanzie minime, come sembra suggerire il più recente disegno di legge sulla devoluzione, ma di uno strumento con cui si vogliono individuare e rendere fruibili i diritti di equità sanitaria di cui tutti devono godere. La riforma entrata in vigore l’8 novembre 2001 interviene fondamentalmente sulla suddivisione dei poteri, stabilendo una nuova ripartizione delle competenze a livello territoriale. Quella legislativa è attribuita alle regioni, mentre allo Stato spettano alcuni importanti compiti e materie a titolo di competenza esclusiva (fra le quali, appunto, la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni, dei princìpi fondamentali della disciplina in un ampio elenco di materie, tra cui la tutela della salute) oltre che il potere sostitutivo, da esercitarsi senza esitazioni in caso di pericolo per l’incolumità e la sicurezza dei cittadini.2 Lo Stato è garante del diritto del cittadino alla tutela della salute, ma rinuncia a essere gestore esclusivo dei servizi sanitari. Le regioni hanno autonomia di azione e pianificazione, tranne sui progetti nazionali, le relazioni internazionali, le funzioni di riequilibrio solidaristico economico-finanziarie, i piani pluriennali di sviluppo e di investimento sanitario. Insomma, per legge lo Stato stabilisce ancora quali debbano essere i princìpi in base ai quali deve funzionare il sistema. Ed è proprio questa la potestà che la devoluzione più spinta vuole pericolosamente eliminare.

L’esigenza di federalismo non ha in sè niente di distorto o negativo, poiché nasce per riorganizzare non solo i rapporti tra centro e periferia, ma tra centro e tante, diverse, periferie. Le regioni diventano parte attiva nelle scelte di indirizzo sanitario, dagli obiettivi da raggiungere ai controlli sul territorio, e alla rispondenza alla domanda dei cittadini. In tal modo, il settore pubblico, una volta rispettato il princìpio della libertà del cittadino nell’accesso ai servizi, crea le condizioni per la pluralità dei soggetti erogatori che possono essere pubblici, privati e privati sociali. Fra i pregi del federalismo sanitario, quindi, il principale, anche dal punto di vista economico, è quello di provocare una maggiore responsabilizzazione politica che riconosce l’importanza delle specificità e collega entrate e uscite a livello locale. Un autentico regionalismo, infatti, deve prevedere per le regioni non solo la responsabilità di spesa e di eventuali sforamenti, ma anche la possibilità di attingere a risorse proprie, indispensabili anche per finanziare servizi specifici che ogni singola regione intenda offrire alla popolazione. Se una regione spende tanto in sanità, sarà costretta ad aumentare i tributi locali per coprire le spese, a rischio di una mancata riconferma elettorale. D’altro canto, una buona amministrazione sanitaria regionale, facilmente verificabile dai cittadini, potrà diventare un valido e legittimo argomento in campagna elettorale per un rinnovo governativo.

Fra i potenziali problemi innescati dal federalismo, il principale è quello di sfavorire le regioni più arretrate e povere, che non possono ricorrere all’aumento della pressione fiscale e sono di conseguenza costrette a ritoccare i servizi offerti e/o la loro qualità. È così che si creano i presupposti per una disuguaglianza nel sistema. È vero che le differenze fra Nord e Sud, perfino fra regione e regione, hanno radici storiche precedenti al federalismo, ma contengono anche il rischio di incrinare il patto di solidarietà sociale e, alla lunga, l’unità geografica. Si rischia di promettere libertà e autonomia al costo di una diseguaglianza e un malservizio irreversibili. In effetti, ad oggi il federalismo sanitario nella sua applicazione pratica ha evidenziato rischi e potenzialità difficilmente prevedibili. La regione Lombardia, ad esempio, in un certo senso ha sconvolto i princìpi in base ai quali il sistema deve continuare a funzionare, delineando uno scenario assai pericoloso. Rinunciando al finanziamento pubblico su base fiscale (ridotto negli intenti al solo 30% dei fondi complessivi) propone un sistema misto: una sanità pubblica per i cittadini meno abbienti e una privata per i più ricchi, finanziata da un sistema assicurativo. Questa scelta ha conseguenze gravi, non solo per gli evidenti problemi di disequità, ma anche per la qualità dell’assistenza e l’aumento della spesa complessiva. Il modello lombardo ha aperto la strada ai privati, moltiplicando l’offerta, ma non ha agito contemporaneamente sulla domanda. Di conseguenza ha ottenuto una diminuzione e una dequalificazione dei servizi pubblici e un aumento della spesa che è ora estremamente difficile da gestire. Il rischio, quando si affida la salute al mercato, è quello di incentivare soprattutto i servizi che creano più profitto, ma che solitamente non sono quelli essenziali. Del resto, anche le esperienze internazionali dimostrano che è la tassazione generale, non le assicurazioni private, a costituire il modo più corretto e funzionale per finanziare un sistema sanitario equo e garantito a tutti. I sistemi assicurativi selezionano i pazienti in base alla valutazione del loro rischio sanitario, escludono dalla copertura patologie croniche e degenerative, non considerano la prevenzione e caricano sugli assicurati le spese burocratico-amministrative. Nessun eventuale premio assicurativo annuo sostenibile da una famiglia media potrebbe garantire a genitori e figli servizi essenziali di base e copertura per le emergenze. Per non parlare di diagnostica e interventi altamente specialistici, come il trapianto d’organo.

La regione Toscana, diversamente, ha impiegato il federalismo per rafforzare il proprio impegno nel garantire un sistema sanitario a carattere universalistico, finalizzato anche a ridurre le disuguaglianze fra i cittadini. Ci è riuscita mantenendo salda l’idea che il soggetto pubblico è l’unico assicuratore di salute e dimostrando che non avere fini di lucro garantisce effettivamente il diritto a essere curati anche ai soggetti solitamente scartati dal settore privato. Come ben esposto nel saggio di Enrico Rossi, la Toscana da un lato ha ridotto le diseguaglianze e innalzato il livello della salute dei suoi cittadini, dall’altro ha reso sostenibile il piano sanitario, uno dei pochi in pareggio in termini di bilancio.

Un panorama ancora diverso si riscontra in Sicilia, dove la spesa sanitaria arriva ad assorbire il 70% delle risorse, ma i servizi sono ancora lontani dagli standard del Centro-Nord. Ne è prova l’altissimo tasso di migrazione sanitaria extraregionale, ossia le spese legate a cittadini siciliani che scelgono di farsi curare fuori regione. Eppure i fondi a disposizione equivalgono grosso modo a quelli utilizzati da altre regioni dove la sanità funziona meglio. In Sicilia, per intenderci, si spende più o meno quanto in Toscana. L’isola, secondo uno studio della Camera di commercio di Milano, conta da sola il 9,8% delle strutture sanitarie pubbliche e private italiane (3.007 tra ospedali, cliniche, centri diagnostici ecc.). Ciononostante, in base ai dati distribuiti dal ministero della salute3 e relativi a ricoveri acuti in regime ordinario per l’anno 2002, l’indice di attrazione della Lombardia era del 9,3% e quello della Sicilia dell’1,6%. Di contro, l’indice di fuga per la prima era il 3,8%, mentre per la seconda il 6,4%. In generale, le strutture sanitarie del Sud dipendono solo per il 4% dai ricoveri provenienti da altre regioni, contro il 10-11% evidenziato da quelle del Nord e del Centro. E nasce anche il sospetto che il già limitato 4% di «turismo» sanitario in direzione Nord-Sud emerga soprattutto durante la stagione estiva. Nel 2002, sempre secondo dati forniti dal ministero, nelle regioni meridionali il costo della migrazione sanitaria interregionale è stato di 860 milioni di euro, addirittura in aumento rispetto al 2001 (818 milioni di euro).

A questo proposito è importante osservare l’opinione dei cittadini che, come ricorda più avanti Giuseppe Benagiano, in democrazie come l’Olanda viene interrogata anche per indicare i LEA nazionali. Secondo un’indagine relativa all’anno 2002, condotta dal Censis con il Forum per la ricerca biomedica, il 56,3% degli italiani si dice favorevole al federalismo sanitario perché consente di concretizzare esigenze locali (33,6%) e perché responsabilizza i vari soggetti (15,2%), sempre a patto che non intacchi l’universalità e l’equità del SSN. È illuminante, però, analizzare la ripartizione delle percentuali per area geografica: il numero maggiore di opinioni favorevoli al federalismo sanitario si registra nel Nord-Ovest (67,8%), mentre nel Sud e nelle isole la situazione si capovolge. Qui la maggioranza (54,7%) si dice contraria all’attribuzione alle regioni della responsabilità totale in materia di sanità. Al Centro, infine, la situazione emerge quasi perfettamente paritaria fra favorevoli e contrari. È indubbio che questa disparità riflette uno squilibrio nella qualità dei servizi, precedente all’avvio del federalismo, e che il cittadino teme possa acuirsi con il crescere delle autonomie locali. Ci si domanda giustamente se il federalismo in materia sanitaria costituisca un passo avanti o uno indietro. Il 95,9% degli italiani, infatti, ritiene che tutte le regioni dovrebbero fornire le stesse prestazioni; il 79,4% che i costi delle cure non dovrebbero variare a seconda delle esigenze locali; il 71,3% è contrario all’introduzione di contributi aggiuntivi per avere maggiori prestazioni sanitarie nella propria regione. Se il valore dell’equità (fra aree geografiche, età, sesso, ceto sociale ed etnia) restasse saldo al centro della programmazione sanitaria, il rischio di una divaricazione nell’offerta dei servizi tra le diverse aree del paese sarebbe ridotto. È chiaro che non si può pretendere da domani il federalismo sanitario perfetto, l’eguaglianza delle prestazioni da Bolzano a Palermo e l’autonomia fiscale e di spesa. Sarà probabilmente impossibile raggiungere un totale equilibrio. Per questo sarà necessario rinunciare a qualcosa, ed è qui che si inserisce un chiaro e dichiarato progetto politico di stampo riformista.

La questione degli standard, come già sottolineato, appare raramente disgiunta da quella della stabilità finanziaria. Una gestione corretta del federalismo sanitario e, di conseguenza, un’effettiva autonomia finanziaria delle regioni, richiede piena consapevolezza delle esigenze di spesa e dei conti.4 L’Accordo dell’8 agosto 2001 prevedeva tra l’altro l’impegno del governo a promuovere alcuni provvedimenti legislativi (sarebbe stato il caso del DDL 347) e rivedeva i precedenti (3 agosto 2000 e 22 marzo 2001), tentando nuovamente di porre le basi per superare la situazione di deficit del SSN, addossando la responsabilità degli sforamenti di spesa e l’onere di ripianarli al livello istituzionale che li ha provocati, prevedendo sanzioni (ribadite da successive leggi finanziarie) per eventuali comportamenti regionali non virtuosi. Pena la negazione dell’accesso alle maggiori risorse concordate in caso di mancata adozione di misure di controllo e di contenimento della spesa. Ma anche stimolando l’impegno del governo a fornire una soluzione definitiva al problema del sottofinanziamento della sanità. Guardando all’evoluzione dei disavanzi regionali tra il 1992 e il 2000 emerge che essi sono stati pari mediamente a circa 0,33 punti percentuali di PIL.5 Tuttavia, in tutti gli anni, ad eccezione del 1996 e del 2000, il finanziamento concesso è stato inferiore alla spesa effettiva dell’anno precedente: le politiche di finanziamento della sanità hanno quindi incorporato un rigore finanziario del tutto irrealistico. Sempre in base all’Accordo del 2001, i LEA avrebbero dovuto essere indicati in relazione alle risorse stanziate e il governo era vincolato ad accompagnare con finanziamenti aggiuntivi eventuali provvedimenti emanati per l’incremento degli stessi livelli essenziali di assistenza. L’Accordo prevedeva inoltre la costituzione di un tavolo di monitoraggio e verifica, che oggi opera presso l’Agenzia per i servizi sanitari regionali, con lo scopo di controllare i livelli di assistenza effettivamente erogati e i volumi di spesa ad essi relativi. La corrispondenza effettiva tra i costi complessivi di erogazione dei LEA e le risorse assegnate resta tuttavia incerta. Il documento redatto dal tavolo di monitoraggio e verifica sui dati di attività e spesa  dell’anno 2001 (approvato dalla Conferenza Stato-regioni il 24 luglio 2003) non mette in luce il costo complessivo dei LEA, impedendo così di attribuire ad essi il carattere di punto di riferimento oggettivo per la valutazione del finanziamento stanziato.

Un problema fondamentale resta la diversa capacità fiscale, che suggerisce alle regioni più ricche di operare dal lato degli introiti e a quelle più povere di rivedere il livello dell’offerta dei servizi. Soprattutto dopo il 2002, per sanare il disavanzo sanitario e sopperire alle carenze di liquidità di cassa, le regioni si sono attivate con operazioni diverse, fra cui l’alienazione del patrimonio immobiliare e provvedimenti di cartolarizzazione (particolarmente evidenti in Lazio, Sicilia, Abruzzo e Sardegna). Il divario tra spesa e fondi stanziati, il meccanismo ritardato di ripiano dei disavanzi regionali, il rinvio nell’erogazione delle risorse integrative, hanno reso difficile la copertura della spesa, per la quale si è dovuto fare ricorso ad anticipazioni di cassa, sempre aggravate dal versamento di pesanti interessi. Del resto, anche il meccanismo delle anticipazioni si è rivelato insufficiente. I problemi di liquidità hanno causato ritardi nei pagamenti ai fornitori e condizionato l’acquisto di beni e servizi. I disavanzi regionali, ad esclusione di pochissime eccezioni, colpiscono tutt’oggi per la loro enorme entità.

Il federalismo sanitario auspicabile per il futuro dovrà sollecitare meccanismi amministrativi virtuosi, affinché coesistano contenimento della spesa e miglioramento dei servizi, come appare evidente anche dall’analisi dei conti dei servizi sanitari europei e dall’osservazione comparata di diversi parametri, alcuni dei quali rientrano nel criterio di valutazione utilizzato dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) per l’indagine condotta nel 2000 sui sistemi sanitari dei 191 paesi membri.6

Contrariamente alle aspettative, la sanità italiana, all’epoca coinvolta nella fase iniziale del federalismo, è risultata tra le più efficaci, efficienti e meno costose al mondo, seconda solo a quella francese. La classifica è stata stilata grazie alla combinazione di vari indici di qualità, fra cui il livello generale della salute della popolazione, la capacità di reazione del sistema, la distribuzione tra la popolazione di tale capacità di risposta, e la distribuzione del peso finanziario sui vari strati sociali. L’Italia primeggiava in categorie importanti, tra cui la speranza di vita in salute (che nel nostro paese è in assoluto tra le più alte del mondo), l’eguaglianza tra i cittadini nell’accesso alla sanità, il livello globale dei risultati e della performance complessiva del sistema sanitario. Eravamo invece in fondo alla classifica per capacità di reazione della sanità. Tra i sistemi più inefficienti dal punto di vista economico e più diseguali dal punto di vista dell’accesso si trovavano gli Stati Uniti, campioni della sanità privata ma anche della spesa sanitaria, pessimi per eguaglianza nell’accesso ai servizi (quasi 45 milioni di americani non hanno alcuna copertura assicurativa sanitaria al di fuori delle emergenze) e speranza di vita, concetto ribadito anche nelle tabelle pubblicate in questo stesso numero nel saggio di Enrico Rossi. Nella classifica globale, gli USA, con il loro modello sanitario, comparivano al trentasettesimo posto, superati non solo da tutti i paesi europei occidentali, ma paradossalmente anche da Arabia Saudita, Marocco e Repubblica Dominicana. A dimostrazione del fatto che una politica di massicci investimenti, disgiunta da un’impronta di etica solidale allargata, non è vincente. Oggi per l’Italia, che ha ormai avviato una fase più avanzata di federalismo sanitario e che dovrà fronteggiare la sfida della devoluzione, è essenziale riconfermare i punti di forza evidenziati dall’indagine dell’OMS lavorando per sopperire alle carenze emerse. In quasi tutti i paesi federali la sanità rappresenta un bene a carattere nazionale, sia per assetto istituzionale e organizzativo che per il finanziamento ed eventuali perequazioni. Attualmente, la spesa sanitaria pubblica del nostro paese è decisamente inferiore rispetto a quella registrata, ad esempio, in Francia e Germania. Siamo tutti d’accordo: il Fondo sanitario nazionale è sottofinanziato, ma le riforme non possono fermarsi al bilancio. Occorre stanziare maggiori risorse, ma è molto più importante garantire che vengano spese bene da tutte le regioni. Se il Fondo è sottofinanziato, l’unica alternativa per affrontare le scadenze per il pagamento di contratti e fornitori resta la pressione fiscale. D’altro canto, ogni legge finanziaria limita l’aumento delle addizionali IRPEF, il principale strumento di imposizione fiscale a livello regionale, allo scopo di armonizzare le politiche locali a quella nazionale e soprattutto di ridurre complessivamente le tasse. Ecco quindi che si va a intaccare il federalismo fiscale con il malsano meccanismo della coperta troppo corta che, se tirata da un lato, ne lascia scoperto un altro. Considerando l’impossibilità e l’impopolarità di aumentare le tasse, l’alternativa è tagliare le prestazioni o irrigidire le modalità di offerta; cioè intaccare la tutela della salute, contravvenire all’articolo 32 della Costituzione, minare le fondamenta del sistema, le sue professionalità. Insomma, l’attuazione di un’autonomia regionale equa e funzionale non è cosa facile e soprattutto non può essere intrapresa ignorando le molteplici conseguenze che esulano dal sistema sanitario.

Un altro punto che non può essere ignorato riguarda ciò che resta di «nazionale» nel nostro Servizio sanitario, dopo averlo spezzettato in ventuno entità autonome rette da logiche locali spesso discordanti. E come debba porsi oggi il ministero della salute rispetto ai cambiamenti in corso. Nell’indagine del Censis già citata, gli italiani attribuiscono al ministero della salute un ruolo strategico di garante di qualità, efficacia e uguaglianza dei servizi. Oltre i due terzi degli intervistati vorrebbero che fossero pubblicate annualmente le graduatorie dei migliori ospedali pubblici, delle cliniche private e dei professionisti. E che il ministero si facesse carico di ciò. Inoltre, per il 72% è sempre il ministero che dovrebbe prendere le decisioni importanti in materia di farmaci. Anche alla luce di questi risultati, è interessante leggere il saggio di Vincenzo Atella che analizza nel dettaglio la questione del controllo della spesa farmaceutica.

Le domande chiave restano: come garantire l’effettività, l’esigibilità e la portabilità del diritto alla salute e a una tutela sanitaria uniforme, universale, egualitaria e appropriata una volta ridimensionata l’impostazione centralistica? Come uniformare regioni diverse per caratteristiche economiche, sociali, ambientali e demografiche senza un intervento regolatore statale e, anzi, trasformando questa assenza di centralità in forza e non in debolezza del sistema sanitario? La mia risposta è che il governo centrale deve mantenere il controllo di almeno due aree fondamentali: quella macroeconomica di bilancio e quella microeconomica di definizione e garanzia delle prestazioni essenziali, sottoponendo entrambe a una costante azione di controllo e consulenza, monitoraggio e verifica con meccanismi severi ed espliciti di potere sostitutivo quando la valutazione dimostri inefficienza amministrativa e/o diseguaglianze di prestazioni sanitarie. Un regionalismo efficace si regge su uno Stato centrale solido. L’indirizzo del governo deve essere forte e chiaro: il SSN va difeso e potenziato. Il rischio è altrimenti quello di annullare un SSN finanziato da risorse certe (la fiscalità generale), cancellare l’affidabilità del finanziamento dei fondi regionali, introdurre l’obbligo di fondi integrativi, ridurre il servizio pubblico al minimo privilegiando il mercato privato e aprendo quindi anche alle sue incertezze, addossare sempre più oneri ai cittadini, rendere sempre più proibitive le modalità di garanzia dei fondi perequativi.

È necessario prendere il meglio del federalismo, giocando sulle sue potenzialità e tutelandosi contro i rischi. Per esempio, l’idea che una maggiore presenza del settore privato nel sistema sanitario italiano non sia da escludere è oramai accettata trasversalmente. Occorre più concorrenza all’interno del sistema a patto, però, che la sanità non diventi un mercato. Serve una vera e propria «terza via», che non abbandoni la sanità in balia delle regole del business ma che, al di là di armonizzare intervento pubblico e mercato privato, rilanci l’insostituibilità di un’etica solidale promossa dallo Stato,7 ad ogni livello, nei programmi nazionali e nelle sue applicazioni regionali, e che riconfermi un entusiastico interesse verso la giustizia sociale. In termini più pratici, per evitare il rischio che la gestione venga guidata da soli criteri economici occorre separare i ruoli di indirizzo e di gestione, tenendo presente che l’amministrazione sanitaria pubblica produce servizi, non profitti, e che efficacia e managerialità devono armonizzarsi con il benessere dei cittadini. Ciò che non può essere intaccato è il diritto irrinunciabile a un sistema sanitario che copra tutti davanti alle esigenze di vita. Gli strumenti di cui già disponiamo, ad esempio il fondo di solidarietà interregionale (i contributi mirati per le regioni povere) e i LEA, devono quindi essere resi univocamente utilizzabili e quantificabili in termini pratici, ma quantificabili devono essere anche i risultati ottenuti. L’armonizzazione di dinamismo economico e solidarietà è forse la sfida principale del federalismo sanitario italiano, ma può e deve essere vinta. Le scelte sono innanzitutto politiche. Il compito è impegnativo e implica decisioni coraggiose, ma l’esigenza di mutamento istituzionale unito alle potenzialità del nostro patrimonio culturale possono creare la base non solo per un miglioramento nazionale, ma anche per stimolare l’Italia a promuovere una nuova cultura di solidarietà ed efficienza. Un nuovo modo di offrire, gestire e promuovere la sanità nell’Europa di oggi e di domani. Se il bene ultimo sarà quello di stabilire una maggiore equità e se il processo di risanamento verrà pensato in nome della tutela delle fasce più deboli, se il programma verrà illustrato adeguatamente ai cittadini anche dopo averne chiesto e recepito le indicazioni, sarà possibile mobilitare il senso di responsabilità collettivo e affrontare i passi più difficili con l’appoggio e il consenso necessari. A tale scopo è fondamentale adottare un approccio nuovo che non si discosti mai dall’analisi delle reali esigenze di personalizzazione sempre più marcate nella società contemporanea. È interessante affrontare la lettura del saggio di Giuseppe Benagiano ricordando l’indagine del Censis già citata. Essa ha evidenziato un diffuso scontento fra i cittadini rispetto alla sanità pubblica nazionale. La lunghezza delle liste di attesa è il problema prioritario riconosciuto dal 62,8% degli intervistati. Segue la bassa qualità dei servizi (30,4%) e la mancanza di assistenza per malati cronici, anziani e handicappati (19,3%). È importante anche recepire le raccomandazioni dei cittadini che, per il 27,9% auspicano più assistenza domiciliare soprattutto per i malati cronici, maggiore collegamento tra ospedali generali e centri di alta specialità (27,8%), e più risorse per la medicina d’urgenza e d’emergenza (27%). Porre al centro l’individuo significa considerare la persona singola e il suo specifico problema umano. L’attuale processo di modernizzazione globale della società sembra definire una progressiva disuguaglianza sociale che non può essere combattuta e modificata semplicemente instaurando una generica offerta di uguali possibilità,8 bensì valutando dati di fatto e intervenendo effettivamente nel contesto specifico, come sottolinea Sen.9 Mi piace applicare questa indicazione, solo superficialmente banale, alla realtà del federalismo sanitario del nostro paese. È inutile, addirittura irresponsabile, sottolineare i vantaggi dell’autonomia regionale tout court ignorandone vigliaccamente gli ostacoli. Penso al Sud, che non può essere abbandonato dallo Stato con l’alibi di una salutare auto-responsabilizzazione. Occorre un impegno maggiore che consideri la reale e contingente condizione di partenza e assicuri la praticabilità dei servizi essenziali, senza dare niente per scontato. È inoltre necessaria un’azione di controllo e valutazione costante e severa per accompagnare le regioni in maggiore difficoltà a gestire in maniera efficiente ed efficace un nuovo tipo di autonomia. Affinché il paziente siciliano non sia costretto a «emigrare» al Nord o in una costosa struttura privata per essere adeguatamente curato. Questo esempio introduce anche il tema trattato più avanti da Carlo Croce nel suo saggio sulla gestione del rapporto fra sanità pubblica e privata. Il tentativo di creare un senso di appartenenza e di responsabilità del personale nei confronti dell’ospedale e del sistema pubblico in generale è stato reso vano dalla recente e sciagurata riforma approvata dall’attuale parlamento, che annulla l’obbligo di esclusività nel rapporto di lavoro dei medici e anzi autorizza l’accesso alle posizioni di vertice, alla carica di primario, anche a chi presta la propria opera al di fuori dell’ospedale. Questo inspiegabile passo indietro è stato mascherato dietro a un supposto princìpio di «libertà della professione medica», ma mi sembra che oltre ad autorizzare un’inspiegabile contravvenzione delle più basilari regole di sana concorrenza questa riforma «ha ben poco a che vedere con il liberalismo e con gli interessi di una sanità pubblica moderna e orientata all’efficienza. Il libero professionista, nell’esercizio della sua attività in strutture private, tende inevitabilmente a operare una distinzione tra pazienti che richiedono cure dispendiose e lunghe degenze, da assistere in ospedale, e casi meno gravi e molto remunerativi, destinati alle cliniche private. Il vantaggio per queste ultime non è solo in termini economici, ma anche di qualità delle prestazioni erogate. Destinato a trattare casi complessi, malati lungo degenti, anziani, oltre ad avere l’obbligo del Pronto soccorso, che costituisce sempre una voce passiva in bilancio, il settore pubblico risulta scarsamente competitivo e responsabile dell’aumento del deficit e così si dichiarano giustificabili, se non addirittura auspicabili, gli spazi sempre più ampi affidati all’imprenditoria privata».10

Come evitare, quindi, il progressivo disincanto del cittadino, quando niente viene fatto per evitare il deterioramento del settore pubblico? Le legittime e sane esigenze di modernizzazione non possono essere soddisfatte da scelte irresponsabili. La convivenza tra pubblico, privato e autotutela sono aspetti che ogni cittadino deve imparare a conoscere e gestire. Il diritto a un’informazione priva di stereotipi e la possibilità di investire sulla propria salute fin da giovanissimi compaiono anche nel saggio di Ubaldo Montaguti fra le proposte tecniche per una politica sociale e sanitaria che affronti i problemi e le potenzialità derivanti dall’incremento della quota di popolazione anziana nel nostro paese. Il livello di attenzione degli italiani nei confronti di comportamenti preventivi, non solo di carattere medico, è aumentato negli ultimi anni, così come è cresciuta la consapevolezza dei fattori che minacciano la salute (inquinamento, stress, fumo, eccesso di cibo, mancanza di attività fisica), ma spesso l’informazione è gestita in maniera superficiale. Un’azione in questo settore confermerebbe la decisione di spostare il baricentro dell’intervento in sanità dal solo momento della cura a quello complessivo della tutela della salute, con ovvi molteplici benefici comuni (sociali, organizzativi, economici). Se si condivide l’idea che prevenzione e informazione sono ambiti che si sviluppano di pari passo, si dovrebbe allora concordare anche su un programma riformista per recuperare la vocazione didattica verso i meno attrezzati culturalmente e per lanciare una campagna di alfabetizzazione medica insegnando e spiegando cosa fare per vivere meglio e perché, in modo semplice e non tecnico, ma corretto. Negli anni Sessanta la RAI lanciò una campagna di alfabetizzazione rimasta storica con il programma «Non è mai troppo tardi». Oggi non ha senso lasciare a rotocalchi e centri estetici l’informazione medica. Tale azione di informazione avrebbe una ricaduta importante sulla spesa sanitaria, riducendo probabilmente l’uso di farmaci, gli esami diagnostici inutilmente richiesti dagli stessi pazienti, la credulità. Un’alfabetizzazione medico-scientifica mirata a far comprendere alla gente cosa è possibile fare e cosa no, cosa è solo un’attesa miracolistica e cosa no, potrebbe avere anche la funzione di mettere le mani avanti rispetto a quanto accadde con il caso Di Bella.

È infine essenziale definire le linee cardine di una riforma del federalismo sanitario italiano che, dopo aver recepito le indicazioni dei cittadini e gli input regionali, deve originarsi a livello centrale senza il timore di essere tacciata anacronisticamente di paternalismo e assistenzialismo. Per concludere, al fine di salvaguardare i princìpi fondamentali del SSN e la loro attuazione in un sistema moderno, efficace e sostenibile, risultano prioritarie numerose azioni che recuperino e si ispirino anche alla riforma sanitaria (e culturale) del 1999. Fra queste, a mio avviso, le priorità dovrebbero includere:

  • la programmazione nazionale e regionale, con il coinvolgimento di tutti gli attori al fine di stabilire obiettivi espliciti con sistemi di controllo e verifica severi e scadenze improrogabili;
  • l’analisi delle diverse capacità fiscali a livello regionale, delle caratteristiche demografiche e sociali e quindi dei bisogni specifici di assistenza sanitaria; 
  • chiarezza nel fissare responsabilità, obblighi di pareggio di bilancio e di erogazione di servizi assistenziali di qualità; 
  • lo stanziamento di una quota del PIL più elevata nel capitolo dedicato alle spese sanitarie in sede di leggi finanziarie;
  • l’istituzione di fondi speciali (emergenze, malattie rare, programmi sanitari nazionali, progetti di ricerca a finanziamento pubblico);
  • la messa in atto di meccanismi che sottopongano le scelte politiche in materia sanitaria a una verifica della copertura finanziaria da parte di organismi non transitori e non di nomina politica; 
  • il ripristino del principio di esclusività del lavoro dei medici nel settore pubblico e l’attuazione di una reale competizione con il settore privato;
  • la definizione di politiche di reale collegamento fra università, centri di ricerca, industrie e strutture di assistenza;
  • l’adattamento del ruolo del ministero della salute alla nuova realtà sanitaria del paese, con una ridefinizione degli ambiti di competenza e il potenziamento delle funzioni di coordinamento, monitoraggio e vigilanza, ma anche dell’amministrazione di funzioni sovraregionali.

Le proposte possono apparire fin troppo ambiziose e le riflessioni che si articolano nelle pagine che seguono non rappresentano una terapia di facile applicazione, eppure si pongono come punto di partenza di un progetto riformista in cui sarà necessario impegnarsi attivamente, con coraggio e determinazione per la tutela della salute degli italiani(europei) intesa non solo come un diritto inalienabile, ma soprattutto come bene essenziale per la crescita e lo sviluppo dell’uomo.11

 

 

Bibliografia

1 A. Sen, La disuguaglianza, Il Mulino, Bologna 1994.

2 Cfr. R. Balduzzi, Considerazioni di sintesi, in Id. (a cura di), La sanità italiana tra livelli essenziali di assistenza, tutela della salute e progetto di devolution, Giuffrè, Milano 2004.

3 Cfr. Banca dati nazionale sui ricoveri ospedalieri, ministero della salute.

4 I criteri storici della base economica del sistema sanitario italiano e i relativi criteri di ripartizione, in generale, possono essere distinti in quattro fasi: la prima (1980-92) caratterizzata dalla centralizzazione delle risorse nel bilancio e dalla esclusività del finanziamento statale; la seconda (1993-97) di transizione verso l’autonomia regionale, con l’attribuzione alle regioni della possibilità di aumentare i contributi sanitari, le tasse locali e le compartecipazioni alla spesa; la terza (1998-2000) di avvio del federalismo fiscale, con l’introduzione dell’IRAP e dell’addizionale IRPEF; la quarta (2001-2004) contraddistinta dalla soppressione del Fondo sanitario nazionale per le regioni a statuto ordinario, dalla sua compensazione tramite l’aumento dell’addizionale IRPEF e dall’istituzione di una compartecipazione regionale all’IVA, volta ad alimentare anche il fondo perequativo nazionale per gli obiettivi di solidarietà interregionale (legge n.133 del 1999 e decreto legislativo n.56 del 2000).

5 Cfr. S. Gabriele, R. Salvini, Rapporto Annuale 2004 sull’attuazione del Federalismo, febbraio 2004.

6 World Health Organisation, The World Health Report 2000. Health Systems: Improving Performance, WHO, Ginevra 2000.

7 Cfr. J. Stiglitz, In un mondo imperfetto. Donzelli, Roma 2001.

8 Cfr. A. Giddens, La terza via, Il Saggiatore, Milano 1998; e U. Beck, A. Giddens, S. Lash, Modernizzazione riflessiva, Asterios, Trieste 1999.

9 Sen, op. cit.

10 I.R. Marino, Neanche in Usa si consente al medico di lavorare per il pubblico e il privato, Il Riformista, 24 aprile 2004.

11 Ringrazio la Dr.ssa Claudia Cirillo per il prezioso aiuto nelle fasi di ricerca e stesura del presente saggio e per la generale consulenza editoriale. Grazie anche agli utilissimi spunti offerti dal Prof. Guido Maria Filippi (professore associato di Fisiologia umana all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma). Ringrazio infine la Dr.ssa Alessandra Cattoi per la revisione critica del manoscritto.