Da Prodi a Barroso: la Commissione nell'UE a 25

Di Antonio Missiroli Mercoledì 01 Settembre 2004 02:00 Stampa

Fra la primavera e l’autunno 2004, alla Commissione europea si è vissuto uno strano interludio. Il mandato del collegio presieduto da Prodi è entrato infatti nella sua fase conclusiva e, come è spesso avvenuto anche in passato, per buona parte dei commissari e dei loro staff è scattata la ricerca di nuove responsabilità dopo l’esperienza compiuta a Bruxelles. Il fenomeno questa volta è stato acuito da sviluppi politici interni ad alcuni paesi membri, che hanno anticipato la fase di ricollocamento personale e politico: Michel Barnier è stato chiamato al Quai d’Orsay, Pedro Solbes al ministero delle finanze spagnolo e Anna Diamantopoulo è tornata alla politica greca, sia pure all’opposizione.

 

Fra la primavera e l’autunno 2004, alla Commissione europea si è vissuto uno strano interludio. Il mandato del collegio presieduto da Prodi è entrato infatti nella sua fase conclusiva e, come è spesso avvenuto anche in passato, per buona parte dei commissari e dei loro staff è scattata la ricerca di nuove responsabilità dopo l’esperienza compiuta a Bruxelles. Il fenomeno questa volta è stato acuito da sviluppi politici interni ad alcuni paesi membri, che hanno anticipato la fase di ricollocamento personale e politico: Michel Barnier è stato chiamato al Quai d’Orsay, Pedro Solbes al ministero delle finanze spagnolo e Anna Diamantopoulo è tornata alla politica greca, sia pure all’opposizione. Anche se nessuno o quasi lo ha fatto notare, è stata la prima volta che commissari europei uscenti sono rientrati nei rispettivi paesi in posizioni di grande rilievo politico. L’esperienza a Bruxelles ha, in altre parole, rilanciato il profilo pubblico nazionale dei suoi protagonisti. D’altra parte, anche lo stesso presidente della Commissione Romano Prodi si è voluto riproporre in chiave italiana – sia pure in modo più indiretto – in occasione della campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento europeo, con un approccio che non ha mancato di sollevare qualche perplessità negli ambienti comunitari.

 

Semestre «bianco»?

Il semestre «bianco» della Commissione ha coinciso con una serie di eventi piuttosto importanti a livello europeo: prima di tutto l’allargamento effettivo dell’Unione a dieci nuovi membri, a partire dal primo maggio, che ha fra l’altro arricchito anche il collegio presieduto da Prodi di dieci commissari in più. Assieme ai tre nuovi membri nominati nel frattempo da Francia (Jacques Barrot), Spagna (Joaquin Almunia) e Grecia (Stavros Dimas), essi hanno dato alla Commissione ormai uscente un’apparenza del tutto diversa, anche in termini di taglia complessiva. Lo strano interludio, in altre parole, è stato evidenziato anche dal passaggio da 20 a 30 commissari – prima di scendere nuovamente a 25, con il Collegio nominato in base alle norme del Trattato di Nizza – così come dalla collocazione provvisoria e quasi subordinata assunta dai dieci newcomers, incaricati essenzialmente di assistere alcuni dei colleghi con i portafogli più impegnativi, in una sorta di apprendistato politico-amministrativo.

Allargamento a parte, la primavera-estate 2004 ha visto anche la fase finale dei negoziati sul Trattato costituzionale europeo (da cui però la Commissione è risultata sostanzialmente emarginata), e soprattutto la contrastata scelta del nuovo presidente, che ha addirittura richiesto un’appendice di consultazioni fra i 25. Dopo le divisioni registratesi al Consiglio europeo di metà giugno, infatti, la presidenza di turno irlandese ha convocato un vertice supplementare alla fine del mese per raggiungere un accordo sul nome del premier portoghese in carica Josè Manuel Durao Barroso. In precedenza, la candidatura del premier belga Guy Verhofstadt – sostenuta soprattutto da Francia e Germania – non aveva raccolto i consensi necessari, e anche altri nomi circolati in alternativa non avevano trovato seguito.

Problemi comparabili si erano avuti in effetti anche dieci anni fa, al momento della scelta del successore di Jacques Delors, allorché furono bocciati i nomi del belga Jean-Luc Dehaene (sempre proposto dal duo franco-tedesco) e poi, per ritorsione, dell’olandese Ruud Lubbers, prima di trovare un accordo di compromesso sull’allora premier lussemburghese Jacques Santer. Non si erano invece avuti cinque anni fa, quando le dimissioni anticipate proprio della Commissione Santer, indotte dagli effetti divenuti incontrollabili dello scandalo amministrativo legato alla commissaria francese Edith Cresson, spinsero il Consiglio europeo di Berlino, nel marzo 1999, a una decisione rapida e unanime sul nome di Romano Prodi. Ma non c’è dubbio che la genesi e le circostanze della scelta finale di Barroso hanno evidenziato, più o meno direttamente, i problemi che affliggono quella che resta la più tipica e significativa delle istituzioni comunitarie.

Fino al primo novembre, in ogni caso, la Commissione Prodi «allargata» resterà in funzione e, nonostante il suo carattere sempre più marcato di «anatra zoppa», lascerà comunque al nuovo collegio almeno due importanti dossier già istruiti: le proposte di riforma (ovvero reinterpretazione) del Patto di stabilità per l’euro, illustrate da Almunia all’inizio di settembre, e i due rapporti sulla candidatura della Turchia – quello sullo stato di preparazione del candidato e quello sulla «sostenibilità», per l’Unione, della futura adesione di Ankara – previsti per il 6 ottobre. Nel frattempo, al Parlamento europeo inizieranno le audizioni individuali per i nuovi commissari, dopo le quali l’assemblea dovrebbe esprimersi sul collegio nel suo insieme.

 

La Commissione Barroso

Per quanto riguarda Barroso, invece, il voto di conferma del Parlamento di Strasburgo è venuto già il 22 luglio scorso. Il risultato non particolarmente brillante (413 voti a favore, 251 contro, 44 astenuti) è dovuto sia alle circostanze della sua nomina, sia al suo recente passato politico. Conservatore e atlantista convinto, Barroso è stato infatti alla guida di una coalizione che ha operato tagli alla spesa pubblica (richiesti d’altronde proprio dalla Commissione Prodi, dopo che Lisbona aveva sfondato i tetti del deficit pubblico), liberalizzato ulteriormente il mercato del lavoro (in linea d’altra parte con la cosiddetta Strategia di Lisbona, lanciata dal predecessore di Barroso, il socialista Antonio Guterres, d’intesa col laburista Tony Blair), e schierato il Portogallo a fianco di Stati Uniti e Gran Bretagna nella grande crisi transatlantica e intra-europea sull’Iraq di inizio 2003. Barroso aveva infatti sottoscritto la famosa «lettera degli otto» di sostegno agli USA pubblicata dal «Wall Street Journal Europe» e da altri quotidiani il 30 gennaio 2003. Ed era stato addirittura l’organizzatore del famoso vertice delle Azzorre, a cui avevano partecipato il presidente americano George W. Bush, Tony Blair e l’allora premier spagnolo Josè Maria Aznar (anche se, anche a conflitto iniziato, aveva poi tenuto un profilo decisamente più basso degli altri). La sua candidatura alla presidenza della Commissione, infine, era stata lanciata – anche se non subito – dal PPE, uscito ancora una volta come gruppo di maggioranza relativa al Parlamento di Strasburgo, assumendo quindi una forte connotazione partisan.

Per tutte queste ragioni, oltre che per la relativa vaghezza del programma di lavoro da lui illustrato ai membri dell’assemblea, il voto di conferma del 22 luglio è diventato più una conta sul passato di Barroso premier del Portogallo, che non un pronunciamento sul futuro di Barroso presidente della Commissione europea. Vale tuttavia la pena di osservare come le linee di divisione fra i membri del Parlamento siano state in parte politiche (il PSE e l’estrema sinistra erano ufficialmente contro la conferma), ma in parte anche nazionali o regionali. Ad esempio, i socialisti iberici hanno votato a favore di Barroso, una parte della droite francese ha votato contro, mentre i liberal-democratici lo hanno in maggioranza appoggiato.

Alla fine di luglio, infine, Barroso ha ricevuto la lista definitiva dei 24 Commissari scelti dai governi dell’UE per far parte del suo collegio. Ancora poche settimane prima, a Bruxelles, si era discusso dell’eventualità che il nuovo presidente potesse chiedere alle diverse capitali non un solo nominativo «secco», ma una rosa di almeno due o tre nomi fra cui scegliere i membri della sua Commissione. Ma dopo una nomina così difficile e contrastata, ovviamente, Barroso ha preferito non sfidare i governi che lo avevano appena scelto, accettando quindi le loro indicazioni finali, ma senza esimersi dall’esprimere le sue preferenze, per esempio, riguardo ad alcuni dei commissari uscenti (ed è il caso, come sappiamo, di Mario Monti). Fra questi, curiosamente, non tutti e dieci gli esordienti sono stati confermati, in buona parte per ragioni di politica interna. Alcuni di loro hanno dovuto lasciare il posto a ministri (o addirittura primi ministri) alla ricerca di una nuova collocazione. Della vecchia Commissione Prodi, inoltre, sono rimasti soltanto il tedesco Günter Verheugen, la svedese Margot Wallström e la lussemburghese Viviane Reding.

Nel complesso, rispetto al collegio precedente, l’equilibrio politico è spostato marginalmente più a destra, in sintonia del resto con i mutamenti avvenuti a partire dal 1999 alla testa dei governi europei. L’età media dei commissari (53 anni) è rimasta più o meno la stessa. Le donne sono 8 (su 25), rispetto alle 5 (su 20) della Commissione uscente, ma vengono soltanto dall’Europa centro-settentrionale e orientale. Nel nuovo esecutivo ci sono inoltre ben tre ex primi ministri (Barroso, l’estone Siim Kallas e il ceco Vladimir Spidla, dimessosi proprio all’indomani delle elezioni europee), quattro ex ministri degli esteri (l’austriaca Benita Ferrero-Waldner, il belga Louis Michel, l’ungherese Laszlo Kovacs, il maltese Joe Borg), tre ex ministri delle finanze (l’irlandese Charlie McCreevy, la lituana Dalia Grybauskaite, il cipriota Markos Kyprianou) e tre ex ministri per gli affari europei: la polacca Danuta Hübner, lo sloveno Janez Potocnik e, ovviamente, l’italiano Rocco Buttiglione.

Con questo team da assemblare in modo funzionale, ma senza dimenticare certi equilibri politici e nazionali, Barroso si è impegnato a comunicare in tempi rapidi l’assetto del suo nuovo collegio. Ha anzi sorpreso un po’ tutti convocando un’improvvisa conferenza stampa e annunciandone la composizione già il 12 agosto. Nella Tabella 1 è riportata la formazione che il Parlamento europeo è chiamato a vagliare.

Tabella 5

Dalla distribuzione dei nuovi «portafogli» risulta abbastanza chiaro innanzitutto come Barroso abbia dovuto scomporre alcuni dei vecchi, per fare posto a un numero maggiore di commissari. Nel farlo, il neopresidente non ha tuttavia voluto riaccorpare le aree di intervento principali della Commissione in cinque o sei «grappoli» o clusters, facenti capo ciascuno a una sorta di super-commissario. L’idea era circolata nella primavera scorsa all’interno della Commissione Prodi e avrebbe obbedito a criteri di funzionalità e coerenza interna. Ma il fatto che alcuni dei paesi maggiori, a cominciare dalla Germania, avessero immediatamente avanzato pretese su tali super-commissari ha convinto Barroso ad accantonarla, per non creare disuguaglianze di status all’interno del collegio. Il presidente ha sì nominato cinque vice (il cui ruolo è peraltro quasi soltanto formale), ma con un certo equilibrio fra «grandi» e «piccoli» e mantenendo comunque per sé poteri di coordinamento sia generali che specifici. È il caso soprattutto delle competenze economiche collegate al «processo di Lisbona» e di quelle facenti capo alle relazioni esterne, per le quali valgono comunque anche altre considerazioni.

Per il resto, appare abbastanza evidente anche la volontà di Barroso di affidare alcune delle responsabilità-chiave (anti-trust, mercato interno, agricoltura, bilancio, Relex) a esponenti di paesi medio-piccoli – quasi a riaffermare la sua indipendenza dai «grandi» – e di collocare commissari dalle credenziali liberiste in posizioni cruciali, commercio estero compreso. Detto questo, il clamore venuto soprattutto da ambienti della sinistra europea e della politica francese, secondo cui la nuova Commissione sarebbe troppo «liberale», sembra davvero esagerato. Charlie McCreevy, ad esempio, non è certo più liberista del suo predecessore Bolkenstein, né Danuta Hubner di Barnier, o Jacques Barrot di Loyola de Palacio. In altri settori, invece, una maggiore propensione liberista è senz’altro prevedibile, ma è anche in linea con gli attuali equilibri politici continentali, di cui questa Commissione è indiretta espressione. Piuttosto, continua a restare irrisolto il dilemma strategico sul ruolo della Commissione: se cioè debba avere una funzione più spiccatamente politica – da «governo» europeo, come nella visione di Prodi – ovvero rappresentare essenzialmente un’autorità regolatrice super partes, non solo «guardiano dei Trattati» e rappresentante dell’«interesse comune» europeo, ma anche watchdog vero e proprio su mercato unico e, presumibilmente, moneta unica. È dalla fine del mandato di Delors che questa ambivalenza di fondo non è stata affrontata, e le circostanze che hanno portato alla nomina di Barroso – estremamente politicizzata – hanno anzi contribuito a rafforzarla.

Quanto ai singoli paesi, non c’è dubbio che alcuni «grandi» (Italia compresa) avranno meno peso di quanto ne avevano nella Commissione precedente, anche soltanto perché hanno un commissario in meno. Ma Roma ha pur sempre ottenuto – anche in quanto «grande elettrice» di Barroso – un portafoglio importante e strategico, oltre che una vicepresidenza: controllo delle frontiere esterne e lotta al terrorismo saranno d’ora in poi nella sfera di attività di Buttiglione, preferibilmente in collaborazione con il nuovo coordinatore anti-terrorismo presso il Consiglio, l’olandese Gijs de Vries.

Il solo paese che è uscito davvero ridimensionato nel nuovo collegio è forse proprio la Francia. La responsabilità di ciò, tuttavia, è in parte anche di Parigi e segnatamente dell’Eliseo: prima ha tolto frettolosamente Barnier per riportarlo al governo in una posizione cruciale per gli equilibri interni alla maggioranza presidenziale (come fattore neutro, per così dire, fra Sarkozy e de Villepin); poi ha rifiutato di confermare l’influentissimo Pascal Lamy per pure ragioni di «campo»; infine, ha inviato a Bruxelles, e successivamente confermato, un uomo di partito e fedelissimo del presidente della Repubblica senza alcuna esperienza di affari economici o internazionali. Quale che sia il futuro politico di Barrot (la voce che circola negli ambienti francofoni è che il suo posto potrebbe essere rilevato da Alain Juppé, se e quando saranno risolte le sue pendenze con la giustizia), la sola responsabilità dei trasporti – da cui è stato sganciato pure il dossier energia – costituisce senz’altro uno scacco politico per Parigi. D’altra parte, si tende talvolta a dimenticare, anche a Parigi, che alla Francia è andata di recente, con la nomina di Jean-Claude Trichet, la direzione della Banca centrale europea.

 

Le sfide più immediate

La nuova Commissione ha tenuto una prima riunione informale già il 20 agosto, nel corso della quale è stato anche varato un codice di condotta per i nuovi commissari. Si è quindi passati alla fase di organizzazione interna, che comprende sia la costituzione dei gabinetti (sei membri per ciascun commissario, ma comprendenti almeno tre nazionalità diverse) sia l’insediamento vero e proprio negli uffici finalmente restaurati di Palazzo Berlaymont (il grande edificio al centro del quartiere europeo di Bruxelles, già sede della Commissione prima che iniziassero i lunghi lavori per liberarlo delle strutture in amianto). Qui Barroso vuole avere di nuovo tutti i membri dell’esecutivo, dopo che Prodi li aveva invece decentrati presso le rispettive Direzioni generali. Una mossa, questa, che dovrebbe favorire una maggiore coordinazione e collegialità interna, ma che non risolve del tutto il problema del rapporto con gli apparati, che restano invece sparsi nella città.

Dal punto di vista politico, i primi dossier che la nuova Commissione dovrà gestire saranno quelli ereditati direttamente dalla vecchia. Prima di tutto la decisione sull’apertura dei negoziati con la Turchia, che sarà presa formalmente dal Consiglio europeo di metà dicembre, ma che ha già diviso la Commissione Prodi e potrebbe dividere anche il nuovo esecutivo. Così come la finalizzazione dei negoziati di adesione con Bulgaria (già chiusi per tutti i capitoli) e Romania (ancora incompleti, ma a buon punto) e la probabile apertura, nel corso del 2005, di quelli con la Croazia. Inoltre, la revisione del Patto di stabilità, che sta fra l’altro generando una nuova tensione interistituzionale – dopo quella fra la Commissione stessa e il Consiglio Ecofin – che ha stavolta come protagonisti Trichet e il neo-eletto (per due anni) presidente dello stesso Ecofin, il premier lussemburghese Jean-Claude Juncker. Last but not least, a Peter Mandelson toccherà cercare di mettere cifre e scadenze precise all’accordo-quadro sul Doha Round del WTO raggiunto a fine luglio a Ginevra: un compito delicato sia per l’incertezza che pesa sul suo interlocutore americano (il mandato di Robert Zoellick è legato all’esito delle elezioni presidenziali di novembre), sia per le ricadute che l’intesa sicuramente avrà sulle attuali politiche comunitarie, innanzitutto in materia di sovvenzioni all’agricoltura.

Ma i primi mesi della Commissione Barroso saranno occupati anche dalla preparazione del bilancio UE per il periodo 2007-2013: esercizio tradizionalmente già difficile (il bilancio va approvato all’unanimità), ma ancora più complesso in un’Unione di 25 (e presto 27 o 28) Stati membri e in presenza di interessi nazionali divergenti, a cominciare dalla cruciale divisione fra contribuenti netti e beneficiari netti. La battaglia sul prossimo bilancio si preannuncia insomma durissima, e lo stesso Barroso ha già preannunciato che (come il suo predecessore Prodi) si batterà per un aumento delle risorse comunitarie e contro i tagli richiesti da quella che l’ex europarlamentare francese Olivier Duhamel ha definito alcuni mesi fa la «coalizione dei tirchi». Resta da vedere come agiranno le presidenze di turno che si succederanno fra estate 2005 e autunno 2006 (Gran Bretagna, Austria e Finlandia) quando le trattative arriveranno alla stretta decisiva. Da questo punto di vista, la sola scelta un po’ dubbia fatta da Barroso per il suo team è forse proprio quella della nuova commissaria al bilancio, senza troppa esperienza di questioni bruxellesi e proveniente da un paese nuovo e piccolo. È anche possibile, tuttavia, che il presidente lo abbia fatto di proposito, riservandosi di entrare in gioco di persona nel momento in cui si rendesse necessaria una mediazione o un’iniziativa politica al più alto livello.

La nuova Commissione dovrà infine cercare di gestire nel miglior modo possibile la situazione che si è venuta a determinare nel settore della politica estera. In questo caso, infatti, lo strano interludio non precede ma segue l’insediamento del nuovo collegio, nel quale Ferrero-Waldner, Michel e Rehn hanno sostanzialmente assunto gli stessi portafogli che avevano, rispettivamente, Chris Patten, Poul Nielson e Günter Verheugen. Da un lato, Barroso non ha proceduto a un ulteriore scorporo – ad esempio in base alle aree geografiche, come nell’esecutivo Santer – delle competenze della Commissione in questo settore, come si era invece sussurrato e temuto, vista la necessità di creare più portafogli per un numero maggiore di commissari. Dall’altro, però, non ha neppure cercato di concentrarle sotto l’autorità di un unico commissario, anticipando in qualche modo le indicazioni contenute nel Trattato costituzionale appena varato riguardo al futuro «ministro degli esteri» dell’Unione. Nel frattempo, lo stesso Consiglio europeo che ha nominato Barroso alla Commissione ha anche confermato Javier Solana come Alto rappresentante per la PESC per altri cinque anni, indicandolo anche come il candidato più probabile per il posto di «ministro degli esteri». Nel Trattato costituzionale c’è anzi una norma secondo cui, al momento dell’entrata in vigore del nuovo testo, il «ministro» prescelto subentrerebbe come vicepresidente della Commissione, e il o la sua connazionale (nello scenario attuale, Joaquin Almunia) dovrebbe lasciare il collegio, in ossequio alla regola di un solo commissario per paese (che varrà fino al 2014).

Almeno per il momento, dunque, il dualismo latente che ha caratterizzato la politica estera UE nei cinque anni scorsi – fra Consiglio e Commissione, fra Solana e Patten – è destinato a restare, anche se Barroso ha avocato a sé il coordinamento delle relazioni esterne. Solana è stato pre-indicato come futuro «ministro», ma non godrà tuttavia di alcuna autorità politica o legale sull’operato della nuova Commissione. E sul tutto pesa la grande incertezza sulla ratifica finale del Trattato, che in alcuni paesi (almeno nove finora) sarà addirittura sottoposta a referendum popolare. È anzi essenzialmente per questa ragione, pare, che si è deciso di non anticipare il «ministro», dando fin d’ora a Solana – attraverso una semplice unione personale – anche il posto di commissario Relex. Allo stesso tempo, paradossalmente, il lavoro preparatorio per il Servizio europeo di Azione esterna che dovrà supportare il «ministro» comincerà già con la firma (non la ratifica) del Trattato. In altre parole, la coerenza e l’efficacia dell’azione internazionale dell’Unione a 25 – che è divenuta negli ultimi anni una delle dimensioni più dinamiche del processo di integrazione, nonostante le divisioni intra-europee sulla guerra in Iraq – saranno affidate soprattutto al buon funzionamento della coppia iberica (a cui andrebbe aggiunto anche il neopresidente del Parlamento Josep Borrell), che guiderà l’UE nei prossimi anni.

Per quanto riguarda più specificamente la Commissione, molto dipenderà dalla capacità del nuovo team di comunicare rapidamente e correttamente con governi, parlamenti e cittadini di tutti i paesi membri. Un compito per il quale Barroso sembra particolarmente tagliato, come ha dimostrato fin dai primi giorni del suo nuovo mandato, e di cui ha inoltre incaricato – facendo anche tesoro dell’esperienza non proprio felice del suo predecessore in questo ambito – la sua vice e supplente Margot Wallström. Ma molto dipenderà anche dal contesto più generale: da come il recente allargamento sarà metabolizzato dalle varie istituzioni europee, e soprattutto da come si svilupperà il processo di ratifica del Trattato costituzionale. È del tutto possibile, infatti, che alcuni governi frenino l’attività delle istituzioni comunitarie per non risultare impopolari e non rischiare una bocciatura referendaria. D’altronde, una crisi politica continentale sul Trattato avrebbe gravi conseguenze, oltre che per il processo di integrazione in generale, anche per l’istituzione che più ha impersonato e guidato proprio quel processo.