Intervista a Massimo D’Alema
Nella discussione sulla laicità si può avere la sensazione che si tratti più di un contenitore che di un concetto dal contenuto definito. La sensazione è in effetti legittima e il rischio non solo di fraintendimenti, ma di non esplicitate divergenze, è quindi alto. Storicamente non sempre è stato così, ma molte cose sono cambiate negli ultimi decenni e ad esse dobbiamo le nuove letture della laicità da cui discende la poliedricità attuale della relativa nozione.
Il rapporto tra la Chiesa e l’Italia ha una storia e una valenza particolari, che lo rendono unico rispetto alle relazioni con gli altri paesi cattolici. Mettendo a confronto tre testimonianze risalenti ad epoche diverse, tale particolarità risulta evidente e fornisce una valida chiave di lettura per valutare lo stato attuale di questa complessa relazione.
La campagna elettorale ha visto emergere ancora una volta la questione cattolica, declinata però in un’accezione parzialmente nuova. I rappresentanti cattolici inseriti in tutte le liste elettorali sono stati scelti, con poche eccezioni, per portare avanti e difendere i cosiddetti “valori non negoziabili”. Questo comportamento implica un limite della politica italiana e avrà probabilmente come conseguenza la “correntizzazione” dei cattolici, un risultato che per alcuni rappresenterà un successo, ma che potrà allo stesso tempo trasformarsi in un fattore di vulnerabilità per la Chiesa.
Una comune costituente antropologica: ecco la sfida che hanno di fronte i laici e i cattolici. Le nuove frontiere della scienza pongono interrogativi comuni che solo una ideologica radicalizzazione impedisce di vedere. Questo pone in termini diversi il concetto di laicità.
La laicità cederà terreno agli integralismi e alle loro pretese di privilegio e di primato morale se si ridurrà a pragmatismo o a nostalgia delle identità ideologiche. Saprà invece riaffermarsi positivamente se riuscirà di nuovo a produrre narrazioni attuali del mondo, nelle quali possano riconoscersi collettivamente moltitudini ora frantumate dall’individualismo e dal corporativismo. In attesa di ciò la laicità rimane l’unica garanzia di una res publica pluralistica, di una convivenza democratica nelle società pluriculturali e plurireligiose.
Da qualche anno assistiamo ad una pugnace contrapposizione, poco utile tanto sul piano euristico generale quanto sul piano della strategia politica, tra pensatori laici (da qualcuno definiti laicisti, talvolta non senza qualche ragione), e un crescente numero di intellettuali, ma anche tecnici, che si contrappongono con tesi non di rado piuttosto robuste.
È interessante soffermarsi sull’evoluzione della parola “laico” nella storia. La “laicità dello Stato” esige che esso sia autonomo rispetto alla religione e alla Chiesa, ma non estraneo. Ha il dovere di assicurare la piena libertà religiosa e di mettere i cittadini in condizione di praticare la propria religione e di diffonderla nel rispetto delle leggi.
Il buonsenso suggerisce che il conflitto tra scienza e religione vada risolto con il dialogo e l’impegno reciproco a una rispettosa non interferenza. Ma il principio della non sovrapposizione dei magisteri appare claudicante di fronte alle sfide delle biotecnologie e delle neuroscienze.
Si vuole qui ripercorrere il rapporto tra politica e religione e il ruolo di quest’ultima nello spazio pubblico della democrazia pluralista rivisitato attraverso Gauchet, Habermas e Rawls, per affermare un’idea di laicità dello Stato come arbitrato neutrale tra i conflitti nascenti anche dalle differenze di fede. L’attuale ordinamento italiano è caratterizzato dal moltiplicarsi delle intese tra Stato e confessioni non cattoliche, istanze di una legge generale sulla libertà religiosa, creazione bipartisan – da parte dei governi – di organismi e documenti di principio per la consultazione permanente coi credenti di fedi diverse, avendo sullo sfondo un ruolo sociale molto attivo della Chiesa cattolica, resistenze laiciste, pulsioni anti-islamiche.
Tre appaiono i tratti salienti dell’ultimo quindicennio: si è verificata una perdita della marcatezza ideologica, salvo settori residuali; il politico in quanto tale ha perso autorevolezza e cerca in ogni modo di evitare il “politichese”; formule e slogan non procedono più dai politici ma dai mass media (i giornali prima ancora che la televisione).
Non è esatto dire che internet ha soppiantato la carta stampata nel campo dell’informazione. Se era questa l’idea che ha prevalso per un certo tempo, oggi può invece costituire uno degli elementi della sua rinascita. Semplicemente, la carta stampata ha bisogno di rinnovarsi e puntare sulla qualità per trarre vantaggio dalla rete.
Si può individuare, a meno di scelte di parte, un discorso politico che possa essere considerato il più importante della storia italiana? Partendo da questo interrogativo, si può avviare un’analisi dei toni e dei contenuti della campagna elettorale appena conclusa di PD e PdL. Se il PD ha puntato sulla scelta di andare da solo, su un programma curato e leggibile e sull’evidenziazione delle fratture culturali presenti nello schieramento avverso, la campagna elettorale del PdL si è caratterizzata per l’accentuazione dei segni di continuità tra il governo uscente e la proposta veltroniana, per una nuova svolta tremontiana e per una variazione nei toni e nei messaggi.
In un’analisi della campagna elettorale appena conclusa non si può non considerare l’incidenza della mancata riforma della legge elettorale e quindi la presenza di liste bloccate. Inoltre, scarso spazio è stato riservato ai mezzi di comunicazione online e a quelli più tradizionali. Non si può comunque dimenticare che le ultime elezioni si sono presentate sotto il segno di una grande novità: al posto di numerose e non sempre troppo ben assortite coalizioni, la competizione si è avuta questa volta tra due schieramenti più omogenei, con la conseguente esaltazione del ruolo dei due leader che li rappresentano.
Cosa passa, oltre a svariate centinaia di chilometri di mare, tra il comunicato di un deputato italiano e il video rap di Obama? E, più in generale, dove va la comunicazione politica oggi? Il video di Obama centra in pieno il primo degli obiettivi cardine di una comunicazione moderna (politica e non): quello di emergere. O, se si vuole, di provocare, dunque di suscitare una reazione. L’evoluzione che i meccanismi della comunicazione hanno subito negli ultimi dieci anni non trova nessun paragone possibile con il passato, e i nostri sistemi di percezione e di apprendimento hanno provato a difendersi dall’enorme aumento di informazioni a disposizione sperimentando nuovi criteri di selezione.
La partecipazione dei lavoratori dipendenti alla gestione dell’azienda e in modo particolare ai processi decisionali deve essere considerata alla luce dei profondi mutamenti che sono avvenuti nel sistema economico italiano come conseguenza del processo di globalizzazione. Oggi la partecipazione alle decisioni può contribuire non solo alla tutela del lavoro, ma anche alla sostenibilità stessa dell’azienda e allo sviluppo nella società intera di una maggiore solidarietà. La progressiva estensione della democrazia economica e industriale non deve dunque essere interpretata come una limitazione, in quanto essa può essere al contrario condizione di sviluppo.
L’impresa può essere considerata come un fascio di contratti, una serie di accordi tra i soggetti che vi partecipano. E il diritto societario, nel regolare tali contratti, ha il fine di minimizzare i costi di transazione e massimizzare l’efficienza. In tale contesto, caratterizzato inoltre dalla separazione tra la gestione dell’impresa affidata ai manager e la proprietà – conseguenza della crescente specializzazione necessaria per guidare le grandi imprese – si inserisce una riflessione sulla democrazia industriale e sul concetto di responsabilità sociale di impresa.
Un commento al testo celeberrimo, apparso su “Rinascita” il 9 novembre 1979, che fece scalpore, in cui Giorgio Amendola denuncia gli errori e le debolezze della CGIL e del suo partito nei confronti della violenza politica nelle fabbriche e del terrorismo. Con inoltre una severa analisi della sconfitta subita dal PCI negli anni Settanta ricostruendone le matrici politiche e culturali.
Chiunque desideri oggi avvicinarsi alla complessa quanto affascinante storia del mondo sovietico non potrà prescindere dalla lettura del poderoso lavoro di Andrea Graziosi di cui la casa editrice Il Mulino ha pubblicato il primo volume, relativo al periodo 1914-45. Il libro è frutto di un amplissimo lavoro di lettura delle fonti pubblicate prima e dopo l’apertura degli archivi ex sovietici, avvenuta dopo il crollo dell’URSS nel dicembre del 1991, in lingua russa e non, e offre quindi il primo tentativo, molto ben riuscito, di offrire una sistematizzazione comparata di quanto pubblicato prima e dopo l’accesso diretto alla documentazione di epoca sovietica, tenendo ben presenti le talvolta forti novità interpretative che proprio quell’accesso ha consentito agli studiosi della storia politica, economica, sociale, internazionale dell’URSS.