L’uomo, il legame

Di Massimo Adinolfi Giovedì 02 Dicembre 2010 14:54 Stampa
L’uomo, il legame Foto: Michele Rallo

«L’antropologia dell’homo dignus – sostiene Massimo Adinolfi nel commento alla Lectio di Stefano Rodotà pubblicata alcuni giorni fa – non può non continuare a domandarsi “che cos’è l’uomo?” e magari scoprire che proprio la domanda, ancor più che la determinazione della risposta, costituisce la posta in gioco in cui si prolunga l’umanità dell’uomo».

 

In un celebre testo, Kant riporta tutte le questioni che stanno nel campo della filosofia – che cosa posso sapere? Che cosa devo fare? Che cosa ho diritto di sperare? – ad un’unica domanda fondamentale: che cos’è l’uomo?
Che l’uomo sia oggetto di domanda non è affatto ovvio: non lo è sempre stato. Lo è ancora meno il fatto che in una domanda sull’uomo debbano precipitare i massimi problemi della metafisica, della morale, della religione. Meno ancora, infine, lo è che questa domanda riceva una traiettoria definita, il cui compimento – secondo alcuni, il suo esaurimento – si troverebbe nello Übermensch di Nietzsche. L’uomo, una pratica ormai sbrigata.
No, il semplice fatto che una domanda del genere sia elevata dimostra che il senso d’essere di quell’ente che chiamiamo uomo è frutto se non di un’invenzione, come voleva, ne “Le parole e le cose”, quel poderoso lettore di Kant che è stato Michel Foucault, almeno di una costruzione, alla quale peraltro il diritto ha prestato e presta tuttora elementi fondamentali.
Col che è largamente giustificato il punto d’avvio che Stefano Rodotà affida, nella sua splendida Lectio “Antropologia dell’homo dignus”, alle parole di Alain Supiot: c’è una «maniera occidentale di legare la dimensione biologica e la dimensione simbolica, costitutive dell’essere umano». Questa maniera di legare è esposta con grande efficacia, in alcuni suoi snodi decisivi, nel testo di Rodotà. In particolare, viene dedicata grande attenzione alla conquista di un significato della cittadinanza (e, con esso, di umanità) non più fondato esclusivamente sulla dimensione proprietaria, ma ampliatosi, nel corso della modernità, in proporzione diretta all’imporsi del motivo fondamentale dell’uguaglianza e della forma politica democratica.
Di questo percorso, l’articolo 3 della Costituzione dell’Italia repubblicana rappresenta uno degli approdi più importanti: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».
In esso, come nota finemente Rodotà, non ne va però soltanto del riconoscimento di quel soggetto inventato o costruito dalla modernità giuridica e politica il quale, per essere uguale sotto ogni condizione, sembra perdere ogni profilo determinato, ogni concretezza storica e materiale; nel testo costituzionale, infatti, l’eguaglianza “davanti alla legge” non assorbe in sé ma affianca la “pari dignità sociale”. E alla dignità, alla “rivoluzione della dignità”, a cui Rodotà associa il lavoro come perno della dimensione sociale della persona, viene affidata la possibilità di istituire un “tempo nuovo”, una nuova «sintesi di libertà ed eguaglianza, rafforzate nel loro essere fondamento della democrazia», e in grado – sono ancora parole di Rodotà – di disegnare «un nuovo statuto della persona e un nuovo quadro dei doveri costituzionali».
Il lettore della Lectio scoprirà quanta ricchezza di relazioni, rapporti, qualificazioni sia contenuta in questo fondamento essenziale dell’esperienza giuridica contemporanea: la dignità. Troverà anche il modo assai convincente in cui Rodotà risponde alle due obiezioni principali che è possibile elevare al riguardo: la prima, se la dignità non sia un “fondamento troppo fragile” per reggere le sfide del nostro tempo (le intrusioni, più ancora che dei poteri politici, degli agenti economici e delle conquiste scientifiche e tecnologiche nelle sfere della vita individuale e personale); la seconda, se la nozione di dignità non funzioni (alla stregua di nozioni come onore o decoro) in maniera non solo difensiva, ma anche repressiva o autoritaria, censoria o superegoica, rispetto a istanze di emancipazione più radicali.
A ben vedere, e senza poter riprendere qui nel dettaglio le dotte analisi del giurista, è evidente che, per assolvere al suo compito, la nozione di dignità deve essere accompagnata e sostenuta entro una comunità d’interpretazione che ne svolga il senso secondo i semi di libertà ed eguaglianza fioriti nel corso della modernità illuministica, alla cui tradizione Rodotà esplicitamente si richiama.
È inevitabile, peraltro, che sia così, non potendosi più dare a tale principio di dignità alcun fondamento metafisico sostanziale, ma dovendosi invece guardare sempre al modo in cui esso può essere sostenuto storicamente e politicamente.
In questo modo, si torna però al punto dal quale la Lectio prende le mosse: al legame fra dimensione biologica e dimensione simbolica. Se infatti si tratta – come dice Supiot e come Rodotà ribadisce – di legare l’una dimensione all’altra è perché esse non sono legate in sé. Di più: se si tratta di un legame, vuol pur dire che quel legame si può sciogliere.
Ne viene però anche, in punta di logica, che nessuno dei contenuti morali e sociali e giuridici che fanno parte della dimensione simbolica da legare a quella biologica costituisce propriamente il legame, proprio perché costituisce soltanto uno dei due termini del rapporto, non il rapporto stesso. Quei contenuti sono un legato (nei molteplici sensi del termine), non il legame stesso. È però evidente che veramente costitutivo dell’essere umano non può che essere, in primo luogo ed essenzialmente, proprio il legame, più ancora di ciò che esso lega – come peraltro è dimostrato dal fatto che quei contenuti possono mutare e sono storicamente mutati, senza che venisse meno, perché l’umano potesse dirsi tale, il compito di legare alla nuda vita biologica una certa qualificazione simbolica. Compito che rappresenta forse una necessità morale, ma che ontologicamente rimane invece una semplice possibilità.
Se è così, prima ancora che la determinazione dei contenuti, storicamente mutevoli, che riempiono la dignità umana, spetta al pensiero filosofico la cura di quel così precario legamento, in cui propriamente consiste la condizione non storicizzabile dell’umano come tale. L’antropologia dell’homo dignus non può cioè non continuare a domandarsi “che cos’è l'uomo?” e magari scoprire che proprio la domanda, ancor più che la determinazione della risposta, costituisce la posta in gioco in cui si prolunga – come direbbe Merleau-Ponty – l’umanità dell’uomo.
Il vecchio Kant, che nelle sue lezioni di logica domandava – come ricordavamo sopra – “che cos’è l’uomo?”, cominciava l’“Antropologia dal punto di vista pragmatico” osservando pure che conoscere l’uomo è, in certo modo, conoscere il mondo. «Menschenerkenntnis ist Welterkenntnis», diceva. Forse però non occorre solo una simile integrazione, ma anche una decisiva inversione. Una volta compiuto il passo indietro dal “legato” della modernità al legame, o – come direbbero i filosofi – dal che cosa al come, non è neppure detto che la conoscenza, la conoscenza dell’uomo, debba andare effettivamente dall’uomo al mondo, e non piuttosto dal mondo all’uomo. E che proprio la cura dell’umano, la sua protezione e la sua promozione, non debbano pur’esse muovere anzitutto dal mondo, per costruire solo poi (e legare ad esso) una nuova figura dell’uomo.

 

 

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Foto di Michele Rallo

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