Dopo la crisi: riflessioni e prospettive

Di Vincenzo Visco Mercoledì 10 Novembre 2010 16:25 Stampa

 

I

Circa tre anni sono passati dall’inizio della crisi finanziaria, e ancora non si può ritenere che essa sia stata superata. La ripresa ha avuto inizio, ma appare incerta e stentata. Gli squilibri che hanno dato origine alla crisi sono tutti ancora presenti. Inoltre non esistono interpretazioni generalmente condivise né sulle cause della crisi, né sulle terapie necessarie. Negli ultimi tempi si è anzi riproposta una contrapposizione tra Amministrazione americana e governo tedesco (e BCE) che ha riportato alla memoria la discussione che divise il “punto di vista del Tesoro” inglese dalla posizione di Keynes al tempo della crisi degli anni Trenta.[1] In questo contesto di incertezza può essere utile qualche breve riflessione di carattere generale.

II

Lo sviluppo economico del dopoguerra ha conosciuto due distinte fasi di crescita: quella che va dalla fine della guerra (accordi di Bretton Woods) agli anni Settanta (fine della convertibilità del dollaro nel 1971), e quella che, partita negli anni Ottanta, si è esaurita nella attuale crisi finanziaria.
Non si è trattato solo di due “fasi”, bensì di due diversi modelli di viluppo. Il primo nasce come risposta alla grande crisi degli anni Trenta e alla sfida posta al capitalismo dall’ipotesi socialista, e si manifestata nel cosiddetto “compromesso keynesiano”: una sintesi tra poteri dello Stato e ruolo del mercato all’insegna di un robusto processo di redistribuzione del reddito e della ricchezza, nel quadro di una crescita sostenuta e ordinata, promossa dalla progressiva riduzione delle protezioni doganali in un contesto di cambi fissi e convertibilità delle valute in oro, dal controllo del movimento dei capitali e dalla erogazione del credito per grandi flussi, dalla gestione attiva del bilancio pubblico e, in non pochi paesi, dalla presenza di imprese e banche pubbliche, nonché dalla regolamentazione pubblica di pressoché tutti i mercati rilevanti (credito, assicurazioni, trasporti aerei, terresti e marittimi, porti e aeroporti, telefoni, poste e telecomunicazioni, radio e televisione, ecc...). Questo modello ha prodotto risultati impressionanti per molti anni e ha garantito una inedita stabilità finanziaria. Si è però esaurito nella grande inflazione degli anni Settanta.
La risposta alla crisi maturata dopo alcuni anni consisté in un mutamento radicale nella gestione delle economie, ma soprattutto in un cambio di egemonia culturale, con l’ideologia liberista che seppe contrapporsi e sostituirsi con successo alla cultura keynesiana-socialdemocratica (allora) dominante; furono così introdotti nuovi criteri di governo delle economie all’insegna delle deregolamentazioni e privatizzazioni di Reagan e della Thatcher, criteri che sono diventati progressivamente senso comune, quasi realtà ontologiche, nelle enunciazioni teoriche e tecniche e nelle prassi operative successive: politiche monetarie non accomodanti, indipendenza delle banche centrali, bilanci in pareggio, libertà nei movimenti dei capitali, privatizzazioni, deregolamentazioni, liberalizzazioni, integrazione dei mercati finanziari, sviluppo senza limiti della finanza, tutto in funzione di un nuovo ciclo di sviluppo basato sulla globalizzazione e l’integrazione dei mercati, e sulle grandi imprese multinazionali. Si tornava così, in sostanza, agli assetti economici, culturali e anche politici prevalenti negli anni Venti del Novecento. Il crollo del sistema sovietico forniva un ulteriore impulso al processo di restaurazione liberista.
Il nuovo modello ha comportato una grande crescita di cui, per la prima volta, hanno beneficiato anche i paesi in via di sviluppo (e questa è stata la novità positiva), ma ha anche creato all’interno dei paesi già sviluppati una drastica redistibuzione del reddito che ha penalizzato i più poveri e soprattutto le classi medie, ha determinato un indebolimento dei sindacati, nonché un massiccio trasferimento di poteri dai governi e dai Parlamenti, al mercato, alle banche centrali, o alle autorità indipendenti.
Ne è derivato, nei paesi occidentali, un indebolimento dei meccanismi democratici e la progressiva perdita di autorevolezza della politica.

III

Il cambio di paradigma economico non è dipeso soltanto – come si è detto – dall’esaurimento del modello precedente, dalla necessità degli Stati Uniti di finanziare la guerra del Vietnam o dal crollo del comunismo, ma anche, anzi soprattutto, dall’esigenza di finanziare e promuovere una nuova fase di sviluppo basata su una impressionante ondata di innovazioni tecnologiche in grado di creare nuovi prodotti e destinate a cambiare i modi di produzione. Si pensi alle nuove tecnologie informatiche e telematiche, ai telefoni cellulari, a internet, alle macchine fotografiche e alle cineprese digitali, ai nuovi farmaci e tecnologie mediche, alle nanotecnologie, alle grandi navi e aerei da trasporto. Il vecchio modello basato essenzialmente su politiche economiche strettamente nazionali, sia pure nel contesto di una cooperazione internazionale, gravato da vincoli e regolazioni stringenti mal si prestava a promuovere e sostenere la nuova fase.
A ciò va aggiunta la crisi della grande impresa fordista e la riorganizzazione dei sistemi produttivi. Le grandi imprese cominciano a decentrare e delocalizzare la produzione nella ricerca della riduzione dei costi; le economie di scala vengono integrate e sostituite dal just in time e dall’acquisto di componenti in tutto il mondo in un contesto di concorrenza feroce provocata e promossa delle liberalizzazioni e dalla deregolamentazione. In tale contesto l’occupazione si riduce, i salari vengono compressi e i lavoratori occidentali si trovano a dover competere quasi direttamente con i lavoratori cinesi, malesi, indiani ecc. L’immigrazione dai paesi più poveri contribuisce anch’essa a ridurre il potere contrattuale dei lavoratori e dei sindacati occidentali.
Contemporaneamente si sviluppa la nuova finanza, anch’essa caratterizzata da importanti innovazioni (prodotti strutturati, redistribuzione dei rischi ecc.) e dall’integrazione telematica su scala globale. La nuova finanza serve inizialmente a finanziare la nuova economia, poi, come è inevitabile, comincia a vivere di vita propria fino a diventare autoreferenziale (e quindi alla fine autoregolata!). In un contesto in cui i profitti raggiungono livelli non più sperimentati da decenni, l’industria finanziaria si appropria di una quota impressionante di questi profitti ed esercita una influenza decisiva sulle scelte economiche e anche sulla politica. Negli anni Cinquanta del secolo scorso, i profitti del settore finanziario rappresentavano negli Stati Uniti il 10% del totale, negli anni Ottanta erano saliti al 22% e negli anni Novanta al 34%; prima della crisi rappresentavano il 40%! Al tempo stesso la quota delle retribuzioni del settore saliva dal 3% del totale ad oltre il 7%. La nuova finanza crea altresì bolle speculative e crisi finanziarie, che si manifestano al ritmo di una ogni 2-3 anni (crisi di borsa nel 1987 e nel 2001, crisi messicana, crisi russa, crisi asiatica, crisi LTCM, crisi argentina, crisi dei subprime, più una serie di crisi minori). Le bolle (sui titoli, sugli immobili, sulle materie prime…) nascono e vengono sostenute da una politica monetaria iperlassista, che guarda esclusivamente al controllo dei prezzi sulle merci (tenuti bassi dalla globalizzazione) e non a quelli degli assets.
Il processo descritto appare in verità molto simile a quanto accaduto nei primi decenni del secolo scorso: anche allora si verificò un imponente fenomeno di integrazione finanziaria, di dimensioni anche superiori a quelle attuali: una imponente crescita dei commerci e delle economie reali. Anche allora – come oggi – all’origine del processo ci fu un’ondata impressionante di scoperte scientifiche e innovazioni tecnologiche (il motore a scoppio e l’auto, l’aereo, l’elettricità al posto del carbone, il telefono, la radio, la televisione, gli elettrodomestici) in grado di cambiare radicalmente i processi produttivi e la struttura dei consumi. Anche allora l’economia visse una fase di liberismo accentuato, anche allora i costi di trasporto diminuirono, le protezioni doganali si abbassarono, ed enormi masse migratorie si spostarono da un continente all’altro, le borse salivano senza sosta, la speculazione dominava; tutto sembrava possibile, tutti si arricchivano, spendevano, si divertivano, tutto sembrava andare per il verso giusto. Eppure l’intero sistema collassò improvvisamente, vittima dei propri eccessi, e gli errori compiuti nella gestione della crisi precipitarono il mondo nella Grande Depressione.
La storia sembra essersi ripetuta, con la differenza che la grande crisi del 1929-33 ha insegnato qualcosa alle classi dirigenti che questa volta sono intervenute massicciamente, sia pure con un ritardo di oltre un anno. E in verità la crisi del 2007-09 appare ancora più grave di quella del Ventinove: Eichengreen e O’Rourke[2] hanno posto a confronto gli accadimenti di allora e quelli recenti, aggiornando periodicamente i dati con l’evoluzione della crisi. Ebbene, gli andamenti delle due crisi a livello globale appaiono molto simili, ma quella 2008-09 risulta più grave per quanto riguarda il crollo della produzione industriale, il crollo degli indici della borsa, il crollo del commercio mondiale. Viceversa, a differenza del 1929, i tassi di interesse attuali sono molto più bassi, segno di una politica monetaria ben più consapevole.

IV

La differenza principale tra la crisi del 1929 e quella recente è che la prima fu una crisi di borsa che degenerò in crisi finanziaria globale perché le banche furono lasciate fallire; quella attuale è invece una crisi da insolvenza debitoria partita dalle famiglie e trasmessasi in tempo reale alle banche e al sistema finanziario internazionale grazie alle interconnessioni finanziarie esistenti a livello globale. Si è così verificato, in sostanza, una sorta di black out progressivo che ha rischiato, nell’ottobre del 2008, di azzerare il sistema dei pagamenti globale. La catastrofe è stata evitata, ma ancora una volta si è dimostrato che lasciar fallire banche di dimensioni sistemiche (Lehman) può essere esiziale.
Dalla finanza – come è ovvio – la crisi si è trasferita all’economia reale, grazie al processo di deleveraging che ha coinvolto famiglie, imprese e banche. Per ripagare i debiti si devono vendere gli assets disponibili, i prezzi scendono di conseguenza determinando nuove perdite in conto capitale per imprese, famiglie e soprattutto per le banche, la cui capacità di erogare credito si riduce drasticamente determinando un credit crunch che i governi e le banche centrali hanno cercato in tutti i modi di compensare e contrastare. Il processo, tuttavia, non si è esaurito e durerà ancora per qualche tempo condizionando la possibilità di ripresa. A tutto ciò si aggiungono le sofferenze da inesigibilità di crediti ordinari che creano e creeranno nuovi problemi alle banche, al sistema finanziario e all’economia reale. Gli interventi pubblici quindi dovranno proseguire e forse intensificarsi.
L’ideologia e la prassi neoliberista sono finite in una tragedia, ancora una volta. E a ben vedere sono un intero sistema e una visione del mondo ad essere crollati: un sistema coerente dominato da un nuovo imperativo etico, quello di aumentare l’efficienza e i profitti aziendali, al fine di “creare valore” per gli azionisti. A ciò si sono dedicate a tempo pieno società di consulenza che spiegavano ai governi e alle imprese come ridurre i costi e costruire piani industriali profittevoli, banche d’affari che organizzavano quotazioni di nuove imprese, privatizzazioni, scalate (ostili o amichevoli), fusioni, scissioni, aumenti di capitale, emissione di obbligazioni e carta commerciale, cartolarizzazioni, swaps, costruzioni di derivati e asset-backed securities, che offrono assicurazioni contro i rischi diffondendoli in verità ovunque ecc.; società di revisione o di rating che fungono da garanti e che operano in evidente conflitto di interesse, professionisti pagati a percentuale sul valore del contratto, enormi fondi che comprano e vendono imprese, o che, scambiando titoli sulle borse di tutto il mondo, segnano la sorte delle imprese e degli amministratori delegati: se i profitti non crescono sono guai; stock options e buonuscite milionarie per incentivare i manager a massimizzare i profitti a breve riducendo i costi di fornitura, l’occupazione e i redditi dei dipendenti; private banking per assicurare ai nuovi (e vecchi) ricchi rendimenti adeguati per i loro capitali; sistemi contabili che impietosamente evidenziano ogni debolezza e, dal lato del settore pubblico, riduzione delle tasse e della spesa ad ogni costo, privatizzazione del welfare (i fondi pensione sono un elemento essenziale per sostenere i livelli delle borse). Contemporaneamente, i migliori cervelli si concentrano a Wall Street o nella City, grandi matematici diventano gestori di hedge funds ottenendo di gran lunga i risultati migliori (con guadagni individuali annui che hanno raggiunto in alcuni casi la cifra incredibile di 1,5-2 miliardi di dollari).
Tutte queste innovazioni sono state codificate in nuovi standard legislativi contenuti in trattati internazionali, nuove normative sulla finanza, sul funzionamento delle imprese, sulle crisi aziendali ecc., creando una sostanziale convergenza in tutti i paesi verso un modello di mercato (essenzialmente quello anglosassone). Queste modifiche, peraltro ineludibili nel nuovo contesto globalizzato, hanno frequentemente avuto l’appoggio fattivo e talvolta entusiasta dei partiti di sinistra, spesso del tutto inconsapevoli di stare in realtà adempiendo alle prescrizioni del “pensiero unico”.[3]
Un altro aspetto di somiglianza tra le due crisi riguarda gli squilibri commerciali reali; negli anni Trenta tra Stati Uniti ed Europa; oggi soprattutto tra Stati Uniti e Cina, ma anche tra Stati Uniti e Giappone, tra la Germania e gli altri paesi europei. Oggi la crisi sta provocando il rientro dal debito di famiglie, banche e imprese, e la trasformazione di molto debito privato in debito pubblico. Quindi la crisi ha posto all’ordine del giorno anche il problema del riequilibrio delle bilance dei pagamenti americana, cinese ecc. Ciò è richiesto sia da coloro che rilevano che negli ultimi decenni gli Stati Uniti hanno vissuto al di sopra delle proprie possibilità, sia dal presidente Obama quando afferma che gli Stati Uniti non potranno più sostenere da soli, con i loro consumi, l’intera economia globale. Un processo di riequilibrio di tali dimensioni e portata, ancorché inevitabile, non sarà né facile né indolore: la questione infatti ha a che vedere con la distribuzione del potere nel mondo e con chi sarà in grado di assumerne la leadership (da solo o con altri). Un tale processo di riequilibrio richiede inevitabilmente una riforma del sistema monetario e del sistema internazionale dei pagamenti.[4]

V

Stando così le cose è molto difficile immaginare che la crisi attuale si concluderà senza conseguenze rilevanti, come una parentesi nel contesto di un trend che riprende la sua corsa. Ci saranno invece mutamenti profondi, trasformazioni e riorganizzazioni che cambieranno molte cose: quello che sta avvenendo nel mercato delle auto ne è solo un esempio. Il mondo del futuro sarà verosimilmente un mondo con meno finanza, banche più piccole e/o segmentate, meno debiti, meno credito e tassi di interesse più alti. Se sarà anche un mondo con meno crescita dipenderà dalla nostra capacità di sostituire alle bolle che si sono succedute negli ultimi decenni, e che sono state il vero motore della globalizzazione, altri meccanismi e soluzioni organizzative, come avvenne negli anni successivi alla crisi del Ventinove e alla seconda guerra mondiale.
Né va trascurato il fatto che dalla crisi i paesi OCSE usciranno con livelli di debito pubblico raddoppiati o moltiplicati rispetto a quelli attuali. Come spesso è accaduto, dopo una grande crisi finanziaria vi è anche il rischio di possibili insolvenze debitorie e default da parte degli Stati. Il futuro ci riserverà quindi o tasse più alte o maggiore inflazione. Si tratta di ipotesi e prospettive che si collocano ben al di fuori della ortodossia economica prevalente.
Inoltre, la crisi ripropone problemi sociali che si ritenevano superati: i costi dell’aggiustamento sono – come sempre – unidirezionali, le disuguaglianze, in tale contesto, diventano insopportabili, come dimostra la rivolta contro le retribuzioni dei manager. Le classi dirigenti non potranno non tener conto di tale malessere: ciò si rifletterà con ogni probabilità sia sui sistemi di regolamentazione che di tassazione, meno sulle dimensioni dei bilanci, che sono già molto elevate.
Infine, la crisi rende evidente un rilevante fallimento culturale, in quanto essa mette in discussione trent’anni di egemonia del pensiero liberista. È stata smentita, infatti, la convinzione che i mercati tendono spontaneamente verso l’equilibrio e che si autogovernano; è stata smentita la teoria delle aspettative razionali; hanno fallito i modelli di regolazione e supervisione dei mercati basati sulla autoregolamentazione e sul controllo da parte dei mercati stessi, e si è verificato che la redistribuzione dei rischi attraverso le cartolarizzazioni aumenta i rischi sistemici anziché ridurli; così come è risultata illusoria l’idea della gestione dei rischi con procedure interne alle imprese, mentre è emerso chiaramente il conflitto di interesse delle agenzie di rating, remunerate da coloro che dovevano valutare. In sostanza sono crollati tutti i pilastri sui quali per parecchi lustri si è fondata l’ortodossia economica e finanziaria. Ciò è stato formalmente riconosciuto, ad esempio da Alan Greenspan, George Soros e numerosi altri, mentre gli studenti americani hanno organizzato un network contro i toxic textbooks, cioè contro l’ortodossia accademica nell’insegnamento dell’economia.

VI

In sostanza, un’analisi oggettiva della crisi, delle sue origini e dei suoi effetti rende molto credibile l’ipotesi che essa dovrebbe rappresentare comunque un elemento di discontinuità nel funzionamento delle nostre economie. È difficile prevedere quanto tempo sarà necessario per raggiungere un nuovo equilibrio: è probabile che non sarà un tempo breve e che ci saranno oscillazioni, incertezze e contraddizioni lungo il percorso. Il fatto è che, diversamente dagli anni Trenta e Quaranta del Novecento manca oggi un nuovo, diverso e condiviso paradigma culturale di riferimento che possa fare da guida nel processo di cambiamento. Inoltre, come si è già detto, diversamente dal passato non sarà più possibile fare affidamento su un unico paese (economia) di riferimento, ma sarà necessario costruire una governance multilaterale dell’economia globale, basata sulla cooperazione, e dotarla di istituzioni funzionanti. Ciò implica un nuovo assetto nell’equilibrio dei poteri delle nazioni.
Attualmente non sembrano esserci né le condizioni politiche né quelle culturali perché ciò avvenga in tempi rapidi: si procederà quindi per prove ed errori, con il rischio di ricadute e nel contesto di una crescita moderata. A questo proposito è molto indicativo il dibattito in corso negli Stati Uniti, dove la polemica politica si è concentrata e radicalizzata sulla questione del disavanzo e del dibattito pubblico, che sono aumentati moltissimo a causa della crisi, degli interventi di salvataggio e di quelli di rilancio dell’economia. Nonostante l’efficacia di tali interventi (iniziati già durante l’Amministrazione Bush) e la loro evidente necessità, la paura di un possibile incremento futuro della imposizione fiscale ha creato reazioni che all’osservatore esterno appaiono assolutamente incomprensibili nella loro irrazionalità.[5]
Un altro esempio delle contraddizioni attuali è rappresentato dalla crisi dei debiti sovrani, che sono stati oggetto di attacchi da parte dei mercati. I disavanzi e i debiti pubblici sono infatti fortemente cresciuti durante la crisi, sia per l’operare degli stabilizzatori automatici sia per le manovre di sostegno delle economie, sia per gli interventi di salvataggio delle banche e di sostegno dei mercati. In sostanza una parte dei debiti privati sono stati scaricati sugli Stati e sono quindi diventati debito pubblico. Ed è abbastanza paradossale, ma del tutto coerente con la logica che presiede e guida l’attività dei mercati, che questi ultimi si rivolgano oggi proprio contro i governi che li hanno salvati (a spese dei contribuenti) perché oberati da troppi debiti. Si controlla cioè la capacità di tenuta e resistenza dagli Stati che si sono fatti carico dei fallimenti dei mercati proprio perché se ne sono fatti carico. In tutto questo c’è evidentemente qualcosa che non funziona: torna in mente la nota storia della rana che aiuta lo scorpione a traghettare il fiume portandolo in spalla e sentendosi pungere a metà tragitto chiede: «perché lo hai fatto? Ora moriremo tutti e due», ottenendo la risposta: «non posso farci nulla, è nella mia natura».
Grande è quindi la confusione nel dibattito economico: la realtà spingerebbe verso innovazioni e cambiamenti anche istituzionali, ma la cultura economica prevalente rimane quella tradizionale, che non poche responsabilità ha avuto nel provocare la crisi. Si tende quindi a riproporre interpretazioni e soluzioni ortodosse tradizionali per i problemi attuali. Ad esempio: cosa fare dei debiti pubblici accumulati e come riportare in equilibrio i bilanci degli Stati? La soluzione che viene proposta è semplice: tagliare la spesa (sociale), ridurre i salari e i dipendenti pubblici; in ultima istanza, anche aumentare le tasse. E tutto ciò si prevede debba avvenire a livello nazionale, di singolo Stato, mentre dovrebbe essere ormai evidente che una crisi globale come quella del 2008-09 richiede soluzioni e rimedi altrettanto globali.
D’altra parte c’è stata anche una tendenza alla riproposizione spesso meccanica delle soluzioni adottate dopo la crisi degli anni Trenta, congiuntamente alla (opportuna) rivalutazione dei contributi di studiosi come Keynes, Minsky, Kindelberger. È evidente che la crisi ha riproposto la legittimità, anzi la necessità dell’intervento pubblico nell’economia, almeno in circostanze di particolare emergenza; così come la necessità di regolamentazione dei mercati è diventata di nuovo una esigenza riconosciuta. Ma ciò non significa che la crisi attuale possa essere affrontata con gli strumenti varati negli anni Trenta del Novecento e adottati da tutti gli Stati fino agli anni Settanta, per la semplice ragione che le condizioni oggettive sono oggi profondamente mutate. Le misure di regolamentazione e di intervento pubblico erano infatti allora tutte basate sul potere e l’autonomia degli Stati nazionali (sia pure in un contesto di cooperazione internazionale), che ne garantivano il successo; l’economia inoltre era caratterizzata dalla prevalenza delle grandi imprese industriali fordiste, cosa che facilitava il successo di misure di variazione della spesa pubblica in funzione anticiclica. Oggi l’economia è globalizzata e prevale l’attività nel settore dei servizi rispetto a quella industriale. Inoltre, a differenza degli anni Trenta, oggi i bilanci degli Stati nazionali rappresentano una quota molto consistente del PIL di ciascuno, e rilevanti sono anche i debiti pubblici accumulati, sicché semplicemente non esistono le possibilità materiali per interventi consistenti e permanenti di rilancio delle economie attraverso i bilanci pubblici. Riproporre oggi le polemiche anche scientifiche degli anni Sessanta del secolo scorso è una semplice esercitazione accademica priva di ogni rilievo pratico-operativo;[6] sarebbe invece necessario riconoscere che le soluzioni per il governo delle economie contemporanee richiedono cooperazione e assetti istituzionali sovranazionali e misure coordinate di intervento. Ciò che si fa e si propone attualmente non va purtroppo nella giusta direzione.
Ciò è evidente nelle conclusioni del G-20 di Toronto (giugno 2010), che ha stabilito che i governi saranno «impegnati a dimezzare i disavanzi fiscali entro il 2012, oltre a sostenere la ripresa». In sostanza si prevede che ogni paese dovrà «mettere ordine in casa propria», senza nessun distinguo o differenziazione. Al tempo stesso il Fondo monetario internazionale[7] ha indicato che l’obiettivo dei governi dovrà essere quello di riportare al più presto (entro il 2030) il livello del debito pubblico al 60% del PIL. Ciò comporterebbe un “aggiustamento” medio di 8¾ punti di PIL, ai quali andrebbero aggiunti altri 4-5 punti derivanti dagli effetti sulla spesa pubblica dell’invecchiamento della popolazione. Per realizzare questi obiettivi il rapporto propone il blocco della spesa pubblica pro capite in termini reali, e quindi una sua robusta riduzione in quota di PIL; riforme dei sistemi previdenziali e sanitari e anche, se necessario, un aumento delle imposte: i bilanci dei singoli Stati, quindi, dovrebbero tutti tendere rapidamente verso il pareggio, e lì rimanere.[8]
Si tratta di un approccio che ignora (o nega) la natura collettiva dei problemi creati dalla crisi e che, se adottato, creerebbe forti contraccolpi politici all’interno dei singoli paesi e conseguenze economiche negative, a meno che con si ritenga (come sembrano ritenere la Germania e la BCE) che le politiche deflazionistiche stimolino la crescita!
In verità, il problema principale negli anni successivi alla crisi dovrebbe essere quello di facilitare la ripresa della crescita economica e di evitare i rischi di default dei debiti sovrani; a tal fine sarebbe necessario liberare i bilanci pubblici dei diversi paesi dall’eccesso di debito che si è creato a causa della crisi, riportando in sostanza la finanza pubblica alle condizioni esistenti a fine 2007. Questo è il contenuto di una proposta avanzata da chi scrive sul “Corriere della Sera” del 13 luglio 2010.[9] Una proposta simile, che comporterebbe però un vero e proprio consolidamento dei debiti pubblici e lascerebbe l’onere del servizio sui bilanci degli Stati, è stata avanzata da Paolo Savona.[10]
In conclusione, l’uscita dalla crisi richiederebbe soluzioni cooperative e l’accettazione di nuove regole condivise. Poiché al momento attuale ciò sembra difficile (se non impossibile) da realizzare, il superamento della crisi sarà lungo e sofferto, anche se è da escludere che alla fine gli assetti definitivi dell’economia mondiale, dei mercati finanziari e dei rapporti tra gli Stati possano essere gli stessi prevalenti prima dello scoppio della crisi. Ci attendono tempi travagliati.



[1] Una analisi della crisi attuale alla luce di quelle che l’hanno preceduta è contenuta in N. Roubini, S. Mihm, Crisis Economics. A Crash Course in the Future of Finance, Penguin, New York 2010.

[2] B. Eichengreen, K. H. O’Rourke, A Tale of Two Depressions, in “Vox”, settembre 2009 e stesure successive, disponibile su www.voxeu.org/index.php?q=node/3421.

[3] Ciò è quanto accaduto, ad esempio, in Italia con la limitazione dei poteri della Banca d’Italia e in particolare della sua discrezionalità nella vigilanza. Nella convinzione di operare un intervento di moralizzazione, il Parlamento ha in verità indebolito il principale organo di vigilanza dei mercati. E non è un caso che dopo la crisi del 2007-09 il ruolo delle banche centrali sia ridiventato preminente.

[4] Questo è esattamente quanto accadde con gli accordi di Bretton Woods che segnarono formalmente il passaggio del testimone tra Regno Unito e Stati Uniti nella leadership dell’economia mondiale.

[5] Si fa riferimento al movimento del Tea Party e alle posizioni della destra radicale americana che, pur non avendo protestato per gli interventi di sostegno che hanno evitato il collasso del sistema, ne contestano invece gli esiti, invocando una economia di mercato senza interventi dello Stato, senza minimamente interrogarsi sul perché lo Stato è stato costretto ad intervenire.

[6] Per un approccio di questo genere al dibattito sulla crisi si veda A. Roncaglia, Economisti che sbagliano. Le radici culturali della crisi, Laterza, Bari-Roma 2010.

[7] Si veda IMF, Navigating the Fiscal Challenges Ahead, Fiscal Monitor, 14 maggio 2010, disponibile su www.imf.org/external/pubs/ft/fm/2010/fm1001.pdf.

[8] Le ipotesi di intervento fiscale ipotizzati dal FMI vanno dalla introduzione dell’IVA per i paesi in cui essa non è in vigore, Stati Uniti innanzitutto, all’aumento delle aliquote agevolate per i paesi che già hanno l’imposta;,dall’aumento delle accise su oli minerali, alcool e tabacchi all’imposizione patrimoniale sugli immobili, all’introduzione di una carbon-tax e di altre imposte ecologiche, oltre a misure di contrasto dell’evasione. Le valutazioni compiute indicano un gettito massimo ottenibile delle misure indicate di oltre 5 punti di PIL.

[9] Può essere utile riportare un brano dell’articolo: «Una soluzione possibile sarebbe quella di conferire in un apposito fondo quote di debito sovrano dei diversi paesi variabili in relazione all’impatto della crisi su ciascun paese, scorporandoli dai bilanci nazionali, e riconoscendo così la loro natura di debiti collettivi. Inizialmente l’attivo del Fondo sarebbe rappresentato da titoli di Stato di diversi paesi e quindi beneficerebbe delle stesse garanzie implicite. Il Fondo tuttavia dovrebbe poi funzionare secondo regole di mercato, come un normale operatore. Tuttavia il pagamento degli interessi e il rimborso del debito sovrano, che rappresenta l’attivo del fondo, dovrebbe essere assicurato dall’introduzione, decisa collettivamente dagli Stati, di una imposta dedicata sulle transazioni finanziarie. Si darebbe così un senso preciso al dibattito confuso e non coordinato sulla opportunità di introdurre misure di tassazione di banche e banchieri: nell’ipotesi prevista, infatti, i mercati, gli operatori e gli investitori finanziari pagherebbero quanto necessario (e per il tempo necessario) a liberare i bilanci pubblici dalla zavorra della crisi, i cittadini da aumenti fiscali e tagli tanto pesanti quanto incomprensibili, e le economie dal pericolo di una prolungata stagnazione. A ciò si aggiungono gli evidenti vantaggi politici per i governi. L’imposta sulle transazioni, decisa a livello internazionale, potrebbe comportare una limitata cross-subsidiation tra i diversi Stati, dal momento che non esiste una corrispondenza esatta tra debiti conferiti nel fondo e ammontare delle transazioni sui mercati domestici. Ciò tuttavia non avrebbe effetti sostanzialmente diversi da quanto già implicito nei meccanismi di sostegno decisi recentemente nella UE. I risultati che sarebbe lecito attendersi da un tale intervento sarebbero: a) di rassicurare i mercati circa la solvibilità dei debiti extra creatisi a causa della crisi nei diversi paesi; b) di riportare i bilanci pubblici nella situazione pre crisi, ciascuno con i suoi problemi, ma senza il sovraccarico degli effetti di una crisi devastante e non gestibile a livello nazionale; c) di garantire il rimborso e il sevizio del debito. Gli aspetti più strettamente tecnici della proposta andrebbero approfonditi e concordati. Andrebbe per esempio evitato il rischio che il mercato possa spostarsi dai paesi che applicano l’imposta a quelli che non la applicano, il che richiede una cooperazione internazionale; inoltre andrebbe previsto che tutte le transazioni (comprese quelle OTC) fossero liquidate nelle clearing houses, in modo da facilitare la riscossione delle imposte. Tutti comunque trarrebbero un beneficio dall’attuazione delle proposte: Stati, mercati, cittadini, sistemi economici, se la proposta non fosse praticabile a livello globale, potrebbe funzionare anche se limitata a livello di UE. Un eventuale accordo dovrebbe comunque comportare anche un impegno dei paesi partecipanti a uno stringente controllo delle finanza pubblica nazionale, e a non aumentare il debito pubblico, anzi a ridurlo progressivamente se (come nel caso dell’Italia) esso fosse elevato».

[10] V. Savona P. Serve un accordo globale sul debito. Il Corriere della Sera, 8 Luglio 2010. In sostanza Savona propone di “parcheggiare” quote (rilevanti) di debito pubblico di tutti gli Stati presso il FMI denominandole in diritti speciali di prelievo (ai fini di garanzia) con scadenze di alcuni decenni. Si veda V. Visco, Come salvarsi dalla deflazione, “Corriere della Sera”, 13 luglio 2010.

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