L'importanza dei beni comuni

Di Stefano Rodotà Mercoledì 13 Febbraio 2013 14:19 Stampa

Il dibattito sui beni comuni innescato dai referendum del 2011 ci obbliga a riflettere sulla necessità di superare schemi economici ormai obsoleti, fra cui il tradizionale binomio proprietà pubblica/proprietà privata. Parlare di beni comuni, oggi, significa includere nella riflessione anche l’accesso alla conoscenza, ai diritti, alla democrazia, agire nell’interesse delle generazioni future e svincolarsi dalle logiche del mercato e del profitto.


Ai luoghi più diversi del mondo si estende il contagio di quella che Franco Cassano ha chiamato «la ragionevole follia dei beni comuni». Perché la rilevanza crescente attribuita a questa categoria di beni viene affidata a un ossimoro, con una sorta di rinnovato “elogio della follia”? La risposta può essere cercata nel fatto che i beni comuni esigono una diversa forma di razionalità, capace di incarnare i cambiamenti profondi che stiamo vivendo e che investe la dimensione sociale, economica, culturale, politica. Siamo così obbligati ad andare oltre lo schema dualistico e la logica binaria che hanno dominato negli ultimi due secoli la riflessione occidentale, ovvero proprietà pubblica o privata. E tutto questo implica una diversa considerazione della cittadinanza, per il rapporto che si istituisce tra le persone, i loro bisogni e i beni che possono soddisfarli, modificando così la configurazione stessa dei diritti definiti appunto “di cittadinanza” e delle modalità del loro esercizio.

Per comprendere meglio una vicenda estremamente complicata, conviene fare almeno un riferimento al passato. Nell’ottobre del 1847, quattro mesi prima della pubblicazione de “Il Manifesto dei comunisti” di Marx, Alexis de Tocqueville gettava uno sguardo presago sul futuro, scrivendo: «Ben presto la lotta politica si svolgerà tra coloro che possiedono e coloro che non possiedono: il grande campo di battaglia sarà la proprietà, e le principali questioni della politica si aggireranno intorno alle modifiche più o meno profonde da apportare al diritto dei proprietari». Quella lotta è continuata ininterrotta e il campo di battaglia, che per Tocqueville era sostanzialmente quello della proprietà terriera, si è progressivamente dilatato. Oggi sono soprattutto i beni comuni – dall’acqua all’aria, alla conoscenza – a essere al centro di un conflitto davvero planetario di cui ci parlano le cronache, confermandone la natura direttamente politica, e che non si lascia racchiudere nello schema tradizionale del rapporto tra proprietà pubblica e proprietà privata.

Tra India e Pakistan è in corso una vera guerra dell’acqua; in Italia la questione è divenuta ineludibile dopo in voto referendario; il Parlamento islandese ha deciso che internet deve essere il luogo di una libertà totale, dove sia legittimo rendere pubblici anche documenti coperti dal segreto. Nuove parole percorrono il mondo: software libero, no copyright, accesso libero all’acqua, al cibo, ai farmaci, a internet, e queste diverse forme di accesso assumono la veste dei diritti fondamentali.

Diversi paesi, ad esempio, hanno già riconosciuto il diritto di accedere a internet come diritto fondamentale della persona con una varietà di strumenti: la stessa Costituzione (come in Estonia, Grecia o Ecuador), le decisioni di organi costituzionali (come il Conseil Constitutionnel francese), la legislazione ordinaria (ad esempio in Finlandia e in Perù); il piano Obama sulle comunicazioni contiene una significativa reinterpretazione del servizio universale; l’Unione europea e il Consiglio d’Europa si sono già espressi in tal senso e di ciò si discute intensamente in rete. Inoltre, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato una risoluzione che riconosce l’accesso all’acqua come diritto fondamentale di ogni persona, così come ha sottolineato il diritto di ciascuno a un adequate food. La tendenza è chiara. Nel momento in cui identifichiamo taluni diritti come fondamentali, dobbiamo identificare pure i beni direttamente necessari per la loro effettività, che da questo legame traggono la loro qualità di “comuni”, essenziali per la sopravvivenza (l’acqua) e per garantire eguaglianza e libero sviluppo della personalità (la conoscenza).

Questi esempi, tra i moltissimi che potrebbero essere richiamati, ci indicano elementi di continuità e discontinuità rispetto all’analisi di Tocqueville. Riferita com’era alla terra, essa scontava il fatto della scarsità, del problema che la terra non ammette usi “rivali”. E la scarsità permane per beni vitali come l’acqua. Diversa, evidentemente, è la situazione di altri beni come la conoscenza che, in rete, non presenta il carattere naturale della scarsità ed è, quindi, suscettibile di usi “non rivali”, nel senso che uno stesso “pezzo di conoscenza” può essere nel medesimo momento oggetto di accesso e utilizzazione da parte di una molteplicità di soggetti. Se rivolgiamo l’attenzione alle diverse categorie di beni in proprietà, e le consideriamo in chiave storica e non ideologica, è forse possibile avviare una analisi più adeguata delle realtà che abbiamo di fronte. Sappiamo tutti che i diversi trionfi della proprietà privata nella modernità occidentale individuale non hanno lasciato dietro di sé solo “reliquie” dei regimi precedenti, dal momento che non sono mai state eliminate del tutto le aree nelle quali è possibile ritrovare gestioni pubbliche o collettive di beni. E pure l’imposizione di un regime di proprietà di Stato o comunitario non ha potuto del tutto cancellare l’attribuzione esclusiva di taluni beni ai singoli, fossero pure soltanto quelli legati alla vita quotidiana. Ma è appunto questa alternante logica binaria a essere ormai inadeguata, intersecata com’è, e sempre più intensamente, all’attribuzione di una molteplicità di beni alla diversa categoria della proprietà comune. Che, tuttavia, non deve essere considerata con lo sguardo nostalgico di chi vede in questo fenomeno il semplice ritorno ai tempi che precedettero, in Inghilterra, le enclosures delle terre comuni e, altrove, il predominio della proprietà solitaria.

Proprio perché il tema dei beni comuni segna davvero il nostro tempo, non può essere affrontato senza una rinnovata riflessione culturale e politica: liberandosi, ad esempio, da semplicistiche proiezioni su questa categoria di schemi economici elaborati con riferimento al ricordato modello binario; e avendo memoria di quel che scrissero, negli anni Trenta del secolo passato, Berle e Means sulla scissione tra proprietà e controllo, individuando in quest’ultimo la proprietà “sostanziale”. È una qualità del bene a dover essere presa in considerazione, la sua attitudine a soddisfare bisogni collettivi e a rendere possibile l’attuazione di diritti fondamentali. I beni comuni sono “a titolarità diffusa”, appartengono a tutti e a nessuno, nel senso che tutti devono poter accedere a essi e nessuno può vantare pretese esclusive. Devono essere amministrati muovendo dal principio di solidarietà. Incorporano la dimensione del futuro, e quindi devono essere governati anche nell’interesse delle generazioni che verranno. In questo senso sono davvero “patrimonio dell’umanità” e ciascuno deve essere messo nella condizione di difenderli, anche agendo in giudizio a tutela di un bene lontano dal luogo in cui vive.

Di fronte a noi si delinea la grande partita della distribuzione del potere. Un grande studioso, Karl Wittfogel, ha descritto il dispotismo orientale anche attraverso la costruzione di una “società idraulica” che consentiva un controllo autoritario dell’economia e delle persone. Poteri pubblici e privati si contendono ancora oggi il governo di una risorsa scarsa e preziosa come l’acqua e, con la stessa determinazione, di una risorsa abbondante e altrettanto preziosa come la conoscenza. Di fronte ai nuovi dispotismi si leva la logica non proprietaria dei beni comuni, «l’opposto della proprietà», com’è definita in una ricerca americana di qualche anno fa.

Questo vuol dire che un bene come l’acqua non può essere considerato una merce che deve produrre profitto. E che la conoscenza, bene comune “globale”, non può essere oggetto di “chiusure” proprietarie, ripetendo nel nostro tempo la vicenda che, tra Seicento e Settecento, in Inghilterra portò a recintare le terre coltivabili, sottraendole al godimento comune e affidandole a singoli proprietari. Per giustificare quella vicenda si è usato l’argomento della crescita della produttività della terra. Ma oggi il nuovo, sterminato territorio comune della conoscenza accessibile attraverso internet non può divenire l’oggetto di uno smisurato desiderio che vuole trasformarlo da risorsa illimitata in risorsa scarsa, con chiusure progressive, consentendo l’accesso solo a chi è disposto a pagare ed è in condizione di farlo.

 

LA CONOSCENZA DA BENE COMUNE A MERCE GLOBALE?

Così i beni comuni ci parlano dell’irriducibilità del mondo alla logica del mercato, indicano un limite, illuminano un aspetto nuovo della sostenibilità: che non è solo quella imposta dai rischi del consumo scriteriato dei beni naturali (aria, acqua, ambiente), ma pure quella legata alla necessità di contrastare la sottrazione alle persone delle opportunità offerte dall’innovazione scientifica e tecnologica. Si avvererebbe altrimenti la profezia per cui “la tecnologia apre le porte, il capitale le chiude”. E, se tutto deve rispondere esclusivamente alla razionalità economica, l’effetto può essere «un’erosione delle basi morali della società», come ha scritto Carlo Donolo.

In questo orizzonte più largo compaiono parole scomparse o neglette. Il concetto di “bene comune”, di cui s’erano perdute le tracce nella furia dei particolarismi e nell’estrema individualizzazione degli interessi, s’incarna nella pluralità dei beni comuni. Poiché questi beni si sottraggono alla logica dell’uso esclusivo e, al contrario, rendono evidente che la loro caratteristica è quella della condivisione, si manifesta con nuova forza il “legame sociale,” la possibilità di iniziative collettive di cui internet fornisce continue testimonianze. Il concetto di “futuro”, cancellato dallo sguardo corto del breve periodo, ci è imposto dalla necessità di garantire ai beni comuni la permanenza nel tempo. Ritorna, in forme che lo rendono ineludibile, il tema dell’“eguaglianza”, perché i beni comuni non tollerano le discriminazioni nell’accesso se non a prezzo di una drammatica caduta in divisioni che disegnano davvero una società castale, dove ritorna la cittadinanza censitaria, visto che beni fondamentali per la vita, come la stessa salute, sono più o meno accessibili a seconda delle disponibilità finanziarie di ciascuno. Intorno ai beni comuni si propone così la questione della democrazia e dei diritti d’ogni persona.

Spostando lo sguardo sui beni comuni, dunque, non siamo soltanto obbligati a misurarci con problemi interamente nuovi. Dobbiamo sottoporre a revisione critica principi e categorie del passato. Dobbiamo rileggere in un contesto così mutato la stessa Costituzione, quando stabilisce che la proprietà dev’essere resa «accessibile a tutti» e quando, nell’articolo 43, indica una sorta di terza via tra proprietà pubblica e privata. Questa è l’ineludibile agenda civile e politica non di un solo paese, ma di tutti coloro che vogliono affrontare con consapevolezza e cultura adeguate le questioni concrete che ci circondano. Ce lo dice, tra l’altro, quel “costituzionalismo dei bisogna” che percorre i testi sempre più numerosi che arrivano dal Sud del mondo, connotati appunto da un raccordo esplicito tra diritti riconosciuti e beni necessari per renderli effettivi.

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