Le radici della sconfitta

Di Gianni Cuperlo Martedì 17 Aprile 2018 16:07 Stampa


La sconfitta non ha precedenti. Per la sinistra nel suo complesso è il dato peggiore nella storia dell’Italia repubblicana. La cartina del paese riprodotta per giorni, quello stivale bicolore, non si vedeva dai tempi del referendum Monarchia-Repubblica. Colpisce la mobilità del consenso. Il 40% delle europee 2014 tradotto nel 18% di ora. Una caduta verticale che si colloca nel solco di una regressione costellata di tappe. Oltre 12 milioni i voti raccolti da Veltroni alle politiche del 2008. Un terzo in meno quelli di Bersani cinque anni fa. Poco più di sei quelli del 4 marzo. Nel mezzo elezioni regionali finite male, nell’esito e prima ancora nell’indice di partecipazione come in Emilia a fine 2014. Le sconfitte a Torino, Roma, Genova. A Napoli l’esclusione dal ballottaggio per la seconda volta di seguito. E sullo sfondo i 19 milioni di No al referendum costituzionale.

Perché mettere in fila dati così diversi? Per due motivi almeno. Uno è che il 4 marzo non può essere giudicato come una sorpresa assoluta. O la si può ritenere tale solo in parte, per le dimensioni che pochi avevano previsto. L’altro è che quella sequenza di sconfitte non aveva prodotto alcuna vera riflessione sulle ragioni di uno scollamento della sinistra dalla parte di società più colpita nei suoi bisogni. Il che ha favorito l’aggravarsi della malattia. Detto ciò, molte ragioni del risultato sono incise nell’ultima stagione. Scriverlo è giusto, ma non basta perché oltre alle ragioni, legate alla cronaca e dunque al quinquennio alle spalle, la sconfitta ha radici che affondano più lontano. Almeno negli ultimi dieci anni – l’intero arco di vita del PD – e anche da prima. Nel senso che questo risultato interroga e incalza l’intera classe dirigente del centrosinistra. Il partito più grande. L’azione dei governi che si sono succeduti. I cosiddetti “Padri nobili”, le minoranze di vario taglio. E naturalmente, alla luce della percentuale finale, quanti hanno scelto di piantare la tenda altrove raccogliendo pochissimo. Sono responsabilità diverse, certo. Perché c’era chi ha comandato e chi no. Se guardo al PD, tuttora il mio partito, chi ha sempre applaudito. E chi no. Chi ha chiesto di cambiare per tempo. E chi no. Ma poiché la sinistra rischia di dileguarsi questo, per tutti, non può che essere un tempo di verità e di svolta.

Abbagli, limiti del progetto del PD hanno accentuato nella stagione più recente una regressione evidente. La sinistra però non ha perso a causa di una singola riforma venuta male. Ha perso per molte vie. Una è il declino rovinoso delle soluzioni che si sono elaborate e offerte alle democrazie dell’Occidente nell’ultimo quarto di secolo. Perde per la incapacità di restituire a valori proclamati – uguaglianza e dignità in primo piano – un legame saldo con i bisogni della parte più fragile dentro la società. Ancora. Perde – e qui il tema, se si vuole, è più interno alla parabola dei democratici – per un vuoto decennale di identità. Di senso. Pensare che l’aridità degli statuti potesse colmare il venir meno di una appartenenza fondata su simboli e culture è stata una illusione drammatica. Si è buttata a mare la sola cosa che andava rifondata: un pensiero attrezzato sulla società, l’economia, gli interessi. Mentre si è innalzato a modello un primato della guida associando il concetto di “comando” a quello di modernità. Veltroni, Bersani, Renzi: con profili diversi, lo schema che si è imposto è rimasto lo stesso. Con una differenza nella collegialità, aspetto che pure conta.

Anche tale schema va rovesciato adesso se vogliamo tornare in superficie. Ed è per questo che dinanzi alla valanga del 4 marzo ripartire dai nomi – immaginare nuovi Messia che bussano alla porta – non aiuta. Non è quello che i tempi ci chiedono. Non è ciò che serve per rialzarsi dalla sconfitta peggiore della nostra vita.

L’agenda ci mette davanti a due questioni. La prima riguarda le cause del risultato e le scelte che saremo chiamati a compiere. Dire che la nostra collocazione è di minoranza – dunque di opposizione – mi pare un dato di realtà. Ma ricostruire chiederà tempo e fatica. Il punto è che questo paese un governo dovrà averlo. Non sarà facile arrivarci ed è giusto che la parola passi a chi si dichiara vincitore: e almeno nelle percentuali lo è. Ma non credo si debba escludere la terza forza del Parlamento dal compito che le deriva dalle urne: fare politica. Usare il consenso raccolto per cercare lo sbocco possibile evitando una paralisi deleteria per l’Italia. Anche eventualmente con un governo di scopo che si rivolga al complesso delle forze e degli schieramenti. Con un programma limitato, l’appello al Parlamento a valutare il realismo di un percorso costituente almeno su bicameralismo e legge elettorale, e poi un ritorno governato alle urne. Ma su questo il tempo dirà.

La seconda questione della nostra agenda è persino più preziosa. Almeno se vogliamo rifondare assieme: una presenza lì dove da tempo non siamo e non ci votano, il pensiero in grado, quella presenza, di sorreggerla e uno spirito di comunità che in troppi luoghi non esiste più. Vuol dire ripensare molto. Introdurre categorie in grado di spezzare tanto l’ortodossia del vecchio laburismo socialista che i miti dell’innovazione depurati da classi, diseguaglianze e nuove miserie. Su questo dovremo discutere nei prossimi mesi. E scegliere. La verità è che in questi anni quello che è stato chiamato il “renzismo” (la combinazione della personalità e della politica di Matteo Renzi e del suo gruppo dirigente) è stato un disegno politico. Lo scrivo io che spesso ho espresso le mie ragioni di distanza da quella impostazione. Ma non vi è dubbio che fosse un impianto ambizioso. Una strategia che puntava a governare una nuova fase dello sviluppo del paese. Quel disegno è prevalso prima, in forme travolgenti, dentro il PD, poi, per un tratto breve, anche fuori. E ha prevalso anche perché – lo dico con onestà – a quel disegno non abbiamo saputo contrapporre alcuna vera alternativa. Né dentro il PD, né fuori da lì. Ma il 4 marzo ha sancito una cosa netta e diversa. Che quel disegno è stato sconfitto. E sta qui il limite fondamentale delle reazioni al voto di gran parte della classe dirigente che quella strategia ha promosso e governato, a partire dallo stesso segretario dimissionario del PD. Il limite è nel rimuovere ancora una volta la realtà per come si è manifestata ed espressa. Quel disegno non ha convinto una parte larghissima del paese e dell’elettorato stesso della sinistra. E allora a sinistra il ricambio necessario di una leadership e una classe dirigente non è solo il frutto di una percentuale bassa e deludente nelle urne. Ma la risposta dovuta a quel giudizio politico.

Toccherà costruirla un’alternativa. Presto. E toccherà farlo perché dalle grandi crisi – il Novecento lo ha dimostrato – non si esce con il mondo di prima. Servono analisi e ricette in larga misura sconosciute. Lo stesso vale per le grandi sconfitte. Non basterà correggere qualcosa o cambiare la disposizione degli arredi. Bisognerà rifondare: una teoria e una pratica. Programmi, alleanze sociali, i riferimenti nel mondo. Insomma se non vogliamo restare esclusi dalla storia adesso bisogna pensare a un edificio profondamente diverso. Conterà moltissimo il lavoro di scavo, di studio, di comprensione del mondo attorno. Ma conterà anche l’eresia della proposta, e la capacità di tornare fisicamente nei luoghi dove oggi si misura la natura dei conflitti, sociali, culturali, politici. Dopo conterà molto altro. La discussione che faremo. Le cose che diremo. Chi sarà chiamato a interpretare la riscossa necessaria. E ovviamente la ricomposizione di un campo largo della sinistra che si è presentato diviso e slabbrato all’appuntamento decisivo per il suo stesso avvenire. Sanare quella ferita è adesso una delle priorità e la speranza è di ritrovare l’umiltà – da ogni parte – per riuscire a farlo. Abbiamo perso, ma questa è la cronaca. Tocca a noi dimostrare che può non essere un destino.