Come discutere la Resistenza

Di David Bidussa Martedì 17 Aprile 2018 16:28 Stampa


Su “The Washington Post” lo scorso 20 febbraio è comparso un lungo editoriale nel quale si sottolineava come in Europa il revisionismo storico stia assumendo le vesti della svalorizzazione della lotta al fascismo. 1 Lo stesso giorno in Italia, il “Corriere della Sera” ha pubblicato un’intervista a Giampaolo Pansa, in cui quest’ultimo affermava, smentendo se stesso,2 che la storia della Resistenza, così come ci è stata raccontata, è un falso.3

È interessante il doppio passaggio: nel primo caso il tema è la rivendicazione della dignità della storia di chi ha perso; nel secondo caso l’affermazione di chi sarebbe legittimato a raccontare il passato, in conseguenza di appartenere, avrebbe detto Prezzolini, alla “società degli apoti”, quelli che non la bevono e che per questo sono inequivocabilmente non solo nel giusto, ma soprattutto nel vero. Qui è rilevante soprattutto la seconda categoria. Il dato di partenza è la delegittimazione della ricerca storica, in quanto chi parla dichiara di essere vero e autentico, perché disinteressato, e, perciò, risulta credibile quel suo impegno a raccontare come le cose andarono per davvero. Peccato che la moralità del bravo storico non consista nel raccontare come le cose andarono, ma nella volontà di farlo, e per farlo non basta dichiararlo, ma è necessario impegnarsi a portare sul tavolo del racconto quanti più elementi possibile di valutazione al fine di avvicinarsi a come le cose andarono per davvero. Senza dimenticare che nell’analisi storica, nella ricostruzione di “come i fatti andarono”, in gioco non ci solo i documenti, le testimonianze, le memorie, ma chi raccoglie, ordina e scrive e dunque anche il suo bagaglio culturale, concettuale, linguistico, la sua retorica.4 In altre parole: la storia della sua persona. Dunque la Resistenza. La Resistenza nella coscienza pubblica dal 1945 in avanti ha avuto momenti diversi nella discussione e nella retorica pubbliche.5 Ogni volta sono stati dei testi di storia a segnare i temi della discussione. Ovvero a dare le categorie, meglio le parole chiave, che hanno marcato il confronto e lo hanno reso possibile. Ad esempio, la biografia di Benito Mussolini di Renzo De Felice, che la si condivida o meno, è un testo imprescindibile che segna un prima e un dopo nella discussione pubblica sul fascismo. Se De Felice avesse compiuto e chiuso l’ultimo tomo della sua monumentale biografia (quello dedicato agli anni 1943-45) noi avremmo un libro che ci consente di ragionare su quei venti mesi attraverso uno studio analitico da quel lato del conflitto. Ma non è andata così. A oggi quei venti mesi non sono stati raccontati in forma concettuale, analitica e problematica scavando dentro la storia della Repubblica di Salò, ma solo dentro la Resistenza.6 Ciò non è avvenuto né per preconcetto né per impedimento, contrariamente a quanto si dica.7 Anzi si potrebbe aggiungere, paradossalmente, che chi ha intrapreso e proposto un primo contributo di analisi storica e problematica di Salò lo ha fatto proprio partendo dal libro di Claudio Pavone.8 Dunque “Una guerra civile” è un testo imprescindibile non perché non ci sia più niente da dire dopo. Ma perché è il testo che ha stabilito i canoni, discutibili indubbiamente – ma per discuterli, o ancor di più per inverarli occorre produrre un testo d’identica mole, concettuale, documentale, metodologica –, intorno a cui sia possibile confrontarsi anche avendo letture diverse e persino opposte di ciò che la Resistenza è stata.

Dire questo non significa dire che tutti i temi che la Resistenza propone siano risolti da Pavone in quel libro. In quel volume si propongono fonti, categorie, modi di analizzare le fonti, definizioni di serie documentali, parole chiave che indicano un prima e un dopo nell’analisi storica. “Una guerra civile” non è né vuole essere un libro definitivo, ma un cantiere metodologico su un caso storico concreto. 9 Per questo quel libro è imprescindibile. Perché non ha la pretesa di dire l’ultima parola, ma fissa i canoni per mettere tutti coloro che vogliono proseguire nella condizione di proporre ogni volta la “penultima parola”. Perché in questo consiste la ricerca storica e il mestiere dello storico: portare avanti il testimone della ricerca, non pretendere di dire l’ultima parola. Quello, invece, è il mestiere del demagogo.

Scelgo due parole – scelta e violenza – per cui quel libro è imprescindibile e che in gran parte, da allora, si concordi o meno con Pavone, tutti hanno assunto come categorie utili per produrre analisi.

Scelta Pavone segue vari percorsi,10 propone molte tipologie, e dunque offre un ventaglio di ipotesi. Una condizione in cui contano gli stati d’animo, le letture precedenti, le esperienze. Pavone compie una scelta d’analisi, simile a quella che Primo Levi fa nel suo “Se questo è un uomo”. Che cosa è “Se questo è un uomo”? Un manuale descrittivo della vita nei lager. Un viaggio che percorre tutte le tappe del processo nell’arco di tempo di un anno. Ma proviamo a domandarci se è credibile che la selezione avvenga in quei dieci mesi solo una volta. La risposta è negativa. Eppure in quel libro la selezione c’è una volta sola. Perché? Perché quella di Primo Levi non è la cronaca di ciò che è avvenuto nell’arco di quei dieci mesi (marzo 1944-gennaio 1945), ma è la storia della genealogia del ciclo di vita e di morte che definisce l’esperienza del lager. In altre parole “Se questo è un uomo” non è una cronaca temporale ordinata di dieci mesi di vita. È, invece, il canone della vita nei lager, dall’ingresso alla possibile ultima tappa. È un manuale per orientarsi, non un diario. Lo stesso fa Claudio Pavone quando analizza la scelta. Descrive l’atto, non la frequenza, né i tempi, né i luoghi, né le circostanze. Ovvero propone lo schema concettuale di ciò che compone l’azione di un individuo. Ma non fa la storia dell’individuo concreto. Mi spiego. Secondo una visione meccanica l’insieme di quelle storie dovrebbe descrivere una divisione di strade: qualcuno sceglie di andare in montagna, altri scelgono Salò, molti scelgono di rimanere a metà, di aspettare o di non scegliere. Quando avviene questa scelta? In un tempo qualunque tra il settembre 1943 e l’inverno 1945, fino alle giornate dell’aprile. È possibile che quella scelta avesse i canoni della irreversibilità? Non proprio, e si deve a Carlo Greppi11 di averci restituito, pur in un contesto locale – Torino – e pur guardando a un angolo specifico, quel settore del mondo del funzionariato e della macchina repressiva di Salò, la storia delle molte uscite ed entrate di individui, o meglio delle diverse scelte, della stessa persona lungo quei venti mesi. Dunque la storia reale, concreta, dice che non ci fu un momento dato “senza ritorno” nell’esperienza della scelta. Ma questo non significa sostenere che quelle cento pagine di Pavone siano un falso. Per un semplice motivo, perché quella possibilità di cogliere il problema storico della scelta sarebbe impossibile senza quelle cento pagine.

Ciò che Pavone costruisce è un criterio, una categoria, una modalità di analisi. È facendo proprie quelle procedure che si può scrivere la storia concreta. Diversamente si costruisce ancora una storia fittizia.

Violenza Nella Resistenza si hanno due tipi di violenza.12 La prima è quella nei confronti dell’avversario, la seconda è la conflittualità infrapartigiana (ad esempio il caso della giustizia interna, ma anche quella dei conflitti tra formazioni politiche diverse). Pavone, nel suo libro, indaga soprattutto la violenza di primo tipo, ma non tralascia di indicare alcune questioni che riguardano la violenza di secondo tipo, quella che si consuma quando “cessarono gli spari”.13 La questione non è solo quella generica della violenza, ma anche quella dell’uccidere.

Un tema che Pavone mette a fuoco, in conseguenza della discussione che si sviluppa a partire da “Una guerra civile”, soprattutto in Francia sulla scorta di due diversi percorsi di riflessione relativi alla Resistenza e alla violenza: il primo quello avanzato dallo storico francese Pierre Laborie intorno all’azione di Resistenza come rivolta, e poi come azione violenta;14 il secondo utilizzando il significato di Resistenza civile proposto da Jacques Semelin15 e che poi riprende quando torna a riflettere sui molti volti della “zona grigia”.16

Uccidere non riguarda solo il tema della violenza, ma anche quello della vendetta, della continuazione nella guerra civile antifascista, come ha sottolineato Giovanni De Luna.17 Riguarda il tema della logica di contrapposizione noi/loro, riguarda anche, come ha ricordato Santo Peli, sulla scorta delle indicazioni di Pavone, prendere atto delle difficoltà, delle contraddizioni, delle “ombre” oltre che delle luci della Resistenza italiana e della guerra partigiana.18 E infine riguarda il fatto che prendere un fucile implica, consapevolmente o meno, mettere nel conto di uccidere. Non solo per difesa, ma anche per ribadire un rapporto di forza. È una condizione che ha opportunamente richiamato Marek Edelman, a proposito del rapporto tra uso della violenza, i suoi limiti e le sua finalità.

Il conto, comunque, non si salda nel lungo periodo. Lo storico Sergio Luzzatto ha giustamente ricordato anni fa come i vecchi giacobini che ripensano alla loro condizione una volta che sono stati messi al margine provino un sentimento di frustrazione, sentendosi circondati da un mondo che rimprovera loro la violenza ma che non è disposto a riconoscere quel legame tra la libertà di cui gode e la violenza che è stata necessaria, o non eludibile, per raggiungerla.19

Altra questione è l’elogio della violenza o la sacralizzazione della violenza. Ma in quel passaggio si consuma una metamorfosi sulla quale non sarebbe improprio avviare una riflessione e in cui il tema è cosa implica la scelta civile della rivolta, avrebbe detto Camus,20 e che cosa, invece, diventa retorica della rivolta cui probabilmente non è estranea, nel caso anche della Resistenza, una dinamica mitogenica che implica magnificare il fatto d’armi, ovvero creare un’immagine in cui la Resistenza è esclusivamente conflitto armato, e che solo attraverso quell’atto si esprime il momento di rottura nei confronti della tirannia.

 


 

[1] G. Witte, J. McAuley, L. Beck, In Europe, revisionist history is taking shape, in “The Washington Post”, 20 febbraio 2018.

[2] G. Pansa, Il gladio e l’alloro. L’esercito di Salò, Mondadori, Milano 1991, pp. X-XVIII.

[3] A. Cazzullo, Giampaolo Pansa: «La Resistenza, storia da riscrivere. Politici pericolosi, stavolta non voto», in “Corriere della Sera”, 20 febbraio 2018.

[4] C. Ginzburg, L’inquisitore come antropologo, in R. Pozzi, A. Prosperi (a cura di), Studi in onore di Armando Saitta dei suoi allievi pisani, Giardini, Pisa 1989, pp. 23-33.

[5] S. Peli, Le stagioni del dibattito storiografico sulla Resistenza, in A. Agosti, C. Colombini(a cura di), Resistenza e autobiografia della nazione. Uso pubblico, rappresentazione, memoria, SEB 27, Torino 2012, pp. 21-37.

[6] C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991.

[7] E. Aga Rossi, Fare i conti con il proprio passato: la resistenza in Italia tra mito e realtà,in “Ricerche di storia politica”, 1/2002, pp. 9-16.

[8] D. Gagliani, Brigate nere: Mussolini e la militarizzazione del Partito fascista repubblicano, Bollati Boringhieri, Torino 1999; L. Ganapini, La repubblica delle camicie nere, Garzanti, Milano 1999.

[9] Sulla moralità della Resistenza. Conversazione di Claudio Pavone condotta da Daniele Borioli e Roberto Botta, in “Quaderno di storia contemporanea”, 10/1991, pp. 19-42,disponibile su www.isral.it/web/risorsedocumenti/intervisteonline_Pavone.htm.

[10] C. Pavone, Una guerra civile cit., pp. 3-123.

[11] C. Greppi, Uomini in grigio. Storie di gente comune nell’Italia della guerra civile, Feltrinelli, Milano 2016.

[12] C. Pavone, Una guerra civile cit., pp. 413-514.

[13] Sulla moralità della Resistenza cit.

[14] P. Laborie, L’idée de Résistance, entre définition et sens: retour sur un questionnement, in “Cahiers de l’IHTP”, 37/1997, pp. 15-28.

[15] J. Semelin, Qu’est-ce que «résister»?, in “Esprit”, 1/1994, pp. 50-63.

[16] C. Pavone, Caratteri ed eredità della zona grigia, in “Passato e presente”, 43/1998, pp. 5-12.

[17] G. De Luna, Il corpo del nemico ucciso: violenza e morte nella guerra contemporanea, Einaudi, Torino 2006, pp. 167 e sgg.

[18] S. Peli, La Resistenza in Italia. Storia e critica, Einaudi, Torino 2004, p. 268.

[19] S. Luzzatto, Il terrore ricordato: memoria e tradizione dell’esperienza rivoluzionaria, Einaudi, Torino 2000.

[20] A. Camus, L’uomo in rivolta, Bompiani, Milano 1994, pp. 17-27.