Il disertore

Di Flavia Ganzenua Martedì 17 Aprile 2018 16:35 Stampa


«Porto addosso le ferite di tutte le battaglie che ho evitato».

Fernando Pessoa

Il bosco è talmente fitto, compatto che pare caderti addosso. S’infittisce via via che precipita dalla montagna, è una valanga, e poi si arresta di colpo. Gli alberi sembrano aver perso il coraggio di attraversare il fiume proprio all’ultimo momento e sono tutti ammassati, tutti piegati in avanti. Si dice che fossero soldati in fuga e che un incantesimo li abbia trasformati in alberi. Il bosco è pieno di spettri, animali, uccelli, di uomini che ci si sono persi, di bosco a cui il bosco è cresciuto tutto quanto intorno.

Io sono uno di quelli che ci si sono persi, uno di quelli che sono rimasti indietro, ben nascosti, e che hanno fatto finta di essere già morti, quando li hanno voltati per finirli con un colpo in testa – indietro, ben nascosto, aggrappato agli alberi che erano venuti giù, reti pietose che trattenevano a stento vestiti, scarpe, copertoni delle auto, li strappavano all’ingordigia del fiume, saccheggiavano il suo bottino di guerra. Aggrappato ai rami che si spezzavano, alle foglie, ai tronchi, spogliato di tutto ciò che avevo addosso dalla furia del fango e della corrente. Aggrappato, a occhi chiusi, dopo aver lasciato le vostre mani che mi trascinavano giù, a fondo – le mani, le gambe, giù, a fondo, con le unghie, a calci e pugni, giù, per i capelli, le spalle. Le vostre mani piccole tenute strette tra le mie tante volte al buio, di notte, con la luna e le stelle fluorescenti sul soffitto della stanza che vi conciliavano il sonno, strette tra le mie, mentre mollavamo i cartoni animati a metà, la cena nei piatti, il pigiama sul letto e correvamo sempre più forte per lasciarci il boato, che aveva fatto a pezzi gli argini, alle spalle – forte, sempre più forte, dopo che piatti e bicchieri avevano cominciato a tremare insieme alle sedie, al tavolo e il bagliore accecante dei fili dell’alta tensione, andati in corto circuito in cima alla montagna, aveva illuminato a giorno la vallata, i recinti, le verande, il lampadario, il divano, noi, immobili, le posate che non stavano più ferme tra le dita, dopo che il vento aveva spalancato porte e finestre – un vento umido, che sapeva di terra, macchiava i vestiti e che non si calmava più, toglieva il respiro, le forze: era cloroformio. A occhi chiusi, aggrappato ai rami, alle foglie, fino a quando anche l’ultimo di voi non ha smesso di chiamarmi e l’ultimo cane non ha smesso di guaire, dimenticato alla catena. Per questo sono ancora qui. Ogni sera mi affaccio alla vostra stanza, vi cerco al buio, tra i giochi e i vestiti sparpagliati ovunque, abbandonati alla rinfusa e in fretta. Vi immagino supini, confusi alle coperte, il respiro pesante, a intermittenza, l’odore di sudore misto a urina con cui bagnavate le lenzuola e che m’investe ancora adesso. Vi cerco, poi chiudo la porta, esco, arrivo fino al bosco, sotto una pioggia che non ha più smesso di venire giù da quando è successo. Una pioggia fitta che appesantiva grembiuli e quaderni, spegneva accendini e sigarette, ci teneva a casa, al caldo. Ci faceva sentire in salvo e intanto disperdeva i segnali del disastro, confondeva le tracce del mostro di fango e sassi, lo nutriva, svezzava perché fosse pronto a stanarci dai nostri letti, dalle nostre auto, al parco, al sicuro sui nostri plaid e sedie da picnic che scandivano sabati e domeniche.

Esco, arrivo al bosco, faccio la stessa strada che abbiamo fatto quella notte. Imbocco il sentiero mozzo, quello che s’interrompe di colpo spazzato via dalla corrente, insieme alla vallata, ai piloni, al ponte. Arrivo allo strapiombo, non mi fermo, lascio che il mio stesso pesomi trascini in basso. Frano, mi aggrappo ai rami degli alberi, ai rovi. Precipito fino in fondo alla scarpata, al fiume, ci finisco dentro, sembro non fermarmi più, raggiungervi, finalmente, invece i piedi si insabbiano, la ghiaia li trattiene e interrompe la mia corsa, come ogni volta. Come ogni volta il fiume non mi prende, mi tiene a distanza, immerso fino alla vita, mezzo dentro e mezzo fuori dall’acqua – una figura mostruosa vista dall’alto, metà uomo e metà bestia.

Mi tiene qui, in questo Cocito, mi costringe a contemplare il mio riflesso, a ritrovarlo ovunque, davanti, dietro, accanto, non ho alcuna via di fuga – il riflesso di chi è scampato al saccheggio, ben nascosto, l’unico della lista che è tornato indietro, sano e salvo, e di cui nessuno dimentica più il nome.

Mi chino, raccolgo una manciata di ghiaia e la tiro con tutta la forza che ho in corpo. Il fiume non fa resistenza, l’acqua si disfa in infiniti cerchi, si ritrae per l’offesa dei sassi, lascia che penetrino giù, a fondo e li trattiene lì, nel suo ventre, proprio come ha fatto con voi.

Mi divincolo, a fatica mi libero dal fango, raggiungo la riva. Mi siedo al solito posto, accanto alla croce che qualcuno ha piantato sotto l’unico pilone rimasto. Non c’è nessuna scritta, nessun nome, ma io so che quella croce è per voi. So che è una mappa e che siete il tesoro che cercano tutti e che nessuno troverà mai.

Guardo ciò che resta della vallata, ciò che il fiume ha risparmiato – il bosco tagliato in due da un solco netto, quasi ripassato a squadra, tutta quella terra rossa, a vivo, una ferita ancora fresca. Guardo ciò che resta del ponte e penso che è come un arto fantasma, che fa ancora più male quando non c’è più. Mi rannicchio e resto immobile, proprio come quella notte. Lascio che la pioggia penetri a fondo, nel cappotto, nel maglione, che si ramifichi, come sangue nei capillari, come linfa, dalle radici all’ultima foglia – lascio e vi chiedo perdono, a fior di labbra. Da qui, dall’alto, con la divisa ormai stinta, sono un soldato che un incantesimo sta trasformando in albero.