La Primavera araba

Di Massimo D'Alema Lunedì 12 Marzo 2012 16:08 Stampa


È troppo presto per fare un bilancio definitivo di quello straordinario cambiamento dello scenario mondiale che è stato chiamato Primavera araba. Anzitutto perché il processo è tuttora in corso e ritengo sia destinato a investire progressivamente, anche se in forme diverse, l’intero mondo arabo, compresi i paesi del Golfo Persico. Una parte della sponda Sud del Mediterraneo ha tuttavia già vissuto un radicale rivolgimento politico: la Tunisia e l’Egitto sono nel pieno di una transizione democratica; in Libia si è compiuto il drammatico abbattimento del regime di Gheddafi e si è avviata una fase nuova; in Siria è in atto un sanguinoso conflitto, dagli esiti incerti e rispetto al quale è urgente un impegno della comunità internazionale sulla base del piano preparato dalla Lega araba. Quella Lega araba, sia detto per inciso, che è stata rivitalizzata dagli avvenimenti della scorsa primavera e che ha saputo raccoglierne gli stimoli positivi. Incontrando alcuni giorni fa il nuovo segretario generale della Lega araba, Nabil el-Araby, ho potuto accertarmi di come la sua prima preoccupazione sia quella di imporre al regime siriano la cessazione delle violenze e l’avvio di un negoziato per la transizione che comporti certamente il superamento della dittatura, ma anche un dialogo e un compromesso tra le diverse componenti etniche e religiose della società siriana, per evitare che dall’oppressione vissuta per troppi anni dal popolo siriano si passi ad una anarchica disgregazione e a una diffusa guerra civile.

Non è facile quindi distaccarsi dagli avvenimenti che stanno avvenendo, dai compiti politici e dalle responsabilità che chiamano in causa l’Europa. Ma cercando di avere uno sguardo d’insieme sul mutamento in atto, credo sia importante elaborare una linea interpretativa e una visione generale che consentano all’Europa di esercitare pienamente e in modo positivo la sua influenza in un’area cruciale per la nostra sicurezza e per le prospettive della nostra economia.

Sono profondamente convinto che si debba guardare in modo positivo a questa grande e autentica rivoluzione. Nulla sarebbe più sbagliato e inefficace che adottare un atteggiamento di sospetto, di timorosa attesa, di sostanziale rimpianto per dittature con le quali purtroppo l’Europa ha intrattenuto fin troppo relazioni collusive e poco rispettose dei diritti dei popoli della sponda Sud del Mediterraneo. Dobbiamo, invece, considerare questa rivoluzione come un successo dei nostri valori, perché ne è stata protagonista una nuova generazione di arabi che si è educata ai principi democratici attraverso i media moderni, grazie all’utilizzo intelligente del mondo web, entrando in questo modo in contatto diretto con il nostro mondo, la nostra civiltà e i valori fondativi della convivenza in Europa. Anche per questo l’Europa deve schierarsi senza riserve in favore del cambiamento e sostenerlo, ingaggiando un dialogo e una cooperazione con le nuove classi dirigenti scaturite da un processo democratico ancora – come è inevitabile – tumultuoso e confuso. L’idea che i vecchi regimi autoritari fossero la migliore garanzia per i nostri interessi, la scelta di una Realpolitik che mantenesse intatto lo status quo, si sono dimostrate infondate alla prova dei fatti. Si è rivelato invece vero il contrario: il fondamentalismo islamico e il terrorismo si rafforzavano proprio grazie al persistere di dittature che finivano per giustificare la violenza e spingere verso la disperazione e il radicalismo grandi masse di giovani.

Oggi siamo di fronte all’emergere, in quasi tutti questi paesi, di movimenti politici di ispirazione islamica con i quali è necessario fare i conti. Del resto non era difficile prevedere che proprio l’Islam politico avrebbe saputo raccogliere la spinta alla partecipazione e al protagonismo di grandi masse di donne e di uomini in paesi nei quali non esiste una forte tradizione di organizzazione politica e in cui la rete delle comunità religiose, comprese quelle che si occupano dell’assistenza e dell’educazione per i più poveri, è stata a lungo l’unica forma di organizzazione popolare radicata nella società.

La grande sfida è ora rappresentata dalla conciliazione fra Islam e democrazia. Sullo sfondo ci sono le diverse esperienze della Repubblica Islamica dell’Iran o della Turchia democratica, governata da un partito di ispirazione religiosa. In Tunisia ed Egitto non si può dire che l’esito di questa sfida sia scontato, anche se molto fa sperare in una evoluzione democratica. Ma molto dipenderà dalle nostre scelte, dalla nostra capacità di accompagnare e incoraggiare apertamente le transizioni in corso, senza chiusure e diffidenze ideologiche. E dipenderà anche dal modo in cui l’Europa affronterà il tema della convivenza con le comunità islamiche che vivono nelle nostre società, chiedendo sì a ciascuna delle persone che ha scelto di venire a vivere da noi il rispetto delle nostre leggi, ma anche garantendo il pieno rispetto della libertà religiosa e contrastando con vigore fenomeni intollerabili di razzismo e islamofobia. La coerenza dei nostri comportamenti qui in Europa renderà più credibile ogni nostro invito a garantire il pieno rispetto della libertà religiosa e dei diritti delle comunità cristiane che verrà rivolto ai nuovi governanti dei paesi della sponda Sud del Mediterraneo. In un grande e decisivo paese come l’Egitto appare, ad esempio, cruciale il tema della convivenza con la comunità copta: non una piccola minoranza, ma una parte rilevante del popolo egiziano (7-8 milioni di persone), che costituisce anche per storia e tradizione una componente fondamentale di quel paese. Certo, la democrazia non consiste soltanto nella elezione democratica dei Parlamenti e dei governi, ma è un insieme di regole e di garanzie innanzitutto poste a tutela delle minoranze e dei diritti individuali. Questo grande sforzo di conciliazione fra Islam e democrazia verrà messo alla prova sul fronte delle libertà e dei diritti delle donne. Di questo vogliamo discutere apertamente con gli amici – così li vogliamo considerare – che stanno assumendo la responsabilità di governare nel mondo arabo, rafforzando i legami esistenti e costruendo nuove opportunità di dialogo non solo tra i governi, ma tra i Parlamenti, le istituzioni culturali, le società civili. Mi domando se l’Europa abbia sin qui messo in campo un’azione politica all’altezza della portata storica del cambiamento, delle sfide e delle opportunità che esso ci propone. Credo sinceramente di no, malgrado lo sforzo fatto per ridefinire i contenuti delle politiche di vicinato e le aperture interessanti nei confronti dei movimenti politici di ispirazione islamica che hanno caratterizzato recenti scritti e prese di posizione dell’Alto Rappresentante per la politica estera e di difesa dell’UE Catherine Ashton. Ritengo che questa riflessione vada spinta più a fondo e non possa riguardare soltanto una diversa modulazione delle politiche di aiuto, ma debba necessariamente investire nodi strategici di grandissimo rilievo.

Per oltre un ventennio la politica europea ha guardato prevalentemente a Nord e a Est. Il crollo dei regimi autoritari comunisti e la fine della guerra fredda hanno spinto, comprensibilmente, l’Unione europea a puntare innanzitutto a un allargamento dei suoi confini, a una stabilizzazione dei processi democratici e all’estensione dell’economia di mercato ai paesi dell’Europa centrale e orientale. Si è trattato di un processo che ha conseguito indubbi successi sotto la guida della Germania, cioè del paese europeo più interessato a una riunificazione del continente che ha avuto il suo cuore proprio nella riunificazione della nazione tedesca. È stata la spinta all’allargamento dell’Unione europea la scelta fondamentale che ha orientato i processi politici, e che ha fatto sì che l’integrazione dell’Unione divenisse il principale obiettivo delle classi dirigenti e dell’opinione pubblica dei paesi dell’Est. Bisognerebbe ora pensare a una politica verso il Sud che abbia lo stesso respiro e la stessa forza.

È evidente che non possiamo promettere agli arabi che diventeranno membri dell’Unione europea (anche se la scelta della Merkel e di Sarkozy di chiudere la porta in faccia alla Turchia si sta rivelando, alla luce dei grandi cambiamenti di oggi, ancora più disastrosa e controproducente). La Primavera araba è tuttavia una svolta storica che può certamente essere accostata, per la portata rivoluzionaria degli avvenimenti, a ciò che avvenne nel 1989 in Europa. Anche per questo occorrerebbe almeno un gesto di discontinuità rispetto alle inconcludenti politiche europee sviluppatesi sotto l’egida del Processo di Barcellona, fino all’esperienza non certo esaltante dell’Unione per il Mediterraneo.

Il Movimento Europeo ha lanciato l’idea di una comunità euromediterranea con proprie istituzioni e risorse, aperta ai paesi della sponda Sud che scelgono con coerenza la democrazia e ai quali dunque proporre di divenire partner speciali dell’Unione europea. Si tratterebbe in sostanza di tradurre in una scelta significativa e visibile quel principio del “more for more” a cui fa riferimento anche l’Alto Rappresentante nella recente elaborazione della nuova politica di vicinato. Certo, ipotesi di carattere istituzionale così complesse richiedono un tempo di maturazione e una riflessione difficile, ma sarebbe molto importante che almeno questa riflessione si aprisse. E potrebbe essere proprio l’Italia, un grande paese europeo a vocazione mediterranea, a prendere l’iniziativa.

Al di là degli aspetti istituzionali, però, è sulle politiche che occorre intervenire in modo coraggiosamente innovativo. Anzitutto bisogna gettare le basi di una vera cooperazione con i paesi produttori di materie prime basata su un rapporto di pari dignità, libera da ogni tentazione neocoloniale o predatoria. In secondo luogo, è necessario sviluppare una politica comune in materia di immigrazione. La recente condanna dei respingimenti italiani concordati con Gheddafi da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo è la testimonianza della insostenibilità – dal punto di vista dei nostri principi – di politiche meramente repressive, inumane e non rispettose delle regole fondamentali di diritto internazionale. Una politica comune europea in materia di immigrazione comporterebbe una partnership tra Europa e mondo arabo per una iniziativa comune verso l’Africa subsahariana, da cui provengono e proverranno grandi flussi migratori, che vedono gli stessi paesi nordafricani sempre più come luoghi di immigrazione e non solo di transito.

Vi è, inoltre, il nodo fondamentale di una politica per la pace e per la sicurezza che non può ridursi alla collaborazione nella lotta contro il terrorismo e all’impegno, che dovrebbe essere comune, per prevenire il rischio che l’Iran si doti di armi nucleari. Occorre allargare l’orizzonte, puntare a obiettivi più ambiziosi di denuclearizzazione del Medio Oriente e dell’intero bacino del Mediterraneo nel quadro di un programma di prevenzione ed eliminazione di ogni arma di distruzione di massa. Occorre, infine, affrontare i conflitti irrisolti, da quello antico che riguarda il Sahara Occidentale – che richiede il pieno riconoscimento dei diritti del popolo saharawi nel quadro di un accordo tra il Marocco, la Mauritania e l’Algeria, necessario anche per la distensione e la cooperazione nel Maghreb arabo – a quello antichissimo fra israeliani e palestinesi. Sarebbe un errore per la leadership israeliana ritenere che la Primavera araba porterà a una emarginazione della questione palestinese. Al contrario, il rischio è che questo conflitto irrisolto assuma ancora di più un valore centrale, anche simbolico, nel rapporto fra Occidente e mondo islamico.

Anche l’Europa dovrebbe con più coraggio prendersi le sue responsabilità, nel momento in cui la lunga vigilia elettorale sembra paralizzare ogni iniziativa da parte degli Stati Uniti e accrescere la delusione del mondo palestinese e arabo che molto si attendeva da Barack Obama. È tempo di scelte coraggiose e di rinunce intelligenti sulla via della pace, e non di forzature arroganti (come quelle relative agli insediamenti e a Gerusalemme) che rischiano di compromettere definitivamente la speranza stessa di uno Stato palestinese. E forse noi europei dovremmo guardare a questo conflitto sia con il sentimento di amicizia che ci rende vicini ai due popoli che ne sono vittime, sia considerando i nostri interessi e la nostra sicurezza, aspetti che richiedono una ripresa spedita del cammino verso una vera pace.

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