Italia mia

Di Luisa Adorno Lunedì 06 Dicembre 2010 11:45 Stampa
Italia mia Disegno: Domenico Rosa

Anni fa, una delle ultime volte che partecipai a un convegno della Fondazione Sciascia a Racalmuto, mi resi conto, con un’occhiata, di quanto la mia età fosse lontana da quella degli altri invitati a parlare. Così, aprendo bocca per prima, «Mi sento uno degli ultimi garibaldini» confessai «di quelli che, nella mia prima adolescenza, chiudevano i cortei fascisti sforzandosi di mantenere il passo» e aggiunsi «se Sciascia fosse qui riderebbe con me».

Anni fa, una delle ultime volte che partecipai a un convegno della Fondazione Sciascia a Racalmuto, mi resi conto, con un’occhiata, di quanto la mia età fosse lontana da quella degli altri invitati a parlare. Così, aprendo bocca per prima, «Mi sento uno degli ultimi garibaldini» confessai «di quelli che, nella mia prima adolescenza, chiudevano i cortei fascisti sforzandosi di mantenere il passo» e aggiunsi «se Sciascia fosse qui riderebbe con me».

Infatti eravamo perfettamente coetanei e pur essendo cresciuti in mondi lontani e diversi, quali la Sicilia e la Toscana di allora, la nostra infanzia aveva le stesse impronte (Titina, la cagnetta di Nobile, le figurine Zaini, le bandierine sulla carta d’Etiopia, la croce al merito senza merito… traggo dai suoi libri e dalla mia memoria), la nostra giovinezza gli stessi entusiasmi, le stesse delusioni.

Comunque pochi erano quei garibaldini, quattro o cinque all’inizio, e diminuivano ogni anno. Avevano capelli bianchi lunghetti e incolti, cenciose camicie rosse, gambe incerte: noi ragazzi aspettavamo di vederli passare con un’eccitazione mista di curiosità e rispetto.

L’ultimo lo vidi una domenica di primavera dal prato del Duomo. Che anno era? Se io e Ninni eravamo lì da sole dovevamo essere sui dodici anni, vale a dire primi anni Trenta. Lo ricordo perché in quel corteo fra autorità, labari e gagliardetti vidi sfilare

anche il babbo di lei. Piccolo, magro, in camicia nera stretta in vita dalla fascia mi sembrò particolarmente dignitoso, elegante. Fu quella anche la prima volta che mi resi conto di come mio padre non andasse mai in corteo. Anzi nei giorni delle celebrazioni ufficiali schizzava a Livorno, a pescare. «Con i miei amici del porto» diceva rivolto a mia nonna, sua madre, subito adombrata «tutti e due pregiudicati» aggiungeva con divertita sfida.

Inghiottito, appena laureato, dalla prima guerra mondiale, ne era uscito col grado di maggiore che gli sarebbe servito, in seguito, solo a essere richiamato fra i primi nella guerra fascista, anche senza essere andato ai cortei.

Nel frattempo era diventato l’avvocato dei poveri. Certe sere d’inverno, dovevano essere sere da lupi perché non uscisse, portava giù dalla soffitta una grossa cartella da disegno con tanti legacci, zeppa di fogli, di vecchie lettere. Si metteva a scorrerne qualcuna, sorrideva ogni tanto, alzava la testa «Questa è di Guerrazzi» annunciava, senza riuscire a distogliere me, mia madre o mia nonna da una commedia alla radio. «Questa è di Fattori, ringrazia mio zio…».

Figurarsi… di Fattori c’era, nel salottino di passaggio, il ritratto a grandezza naturale, fino al ginocchio accavallato, di un grosso signore in poltrona, con cui mi trovavo faccia a faccia ogni volta che andavo a tirare su la maniglia per aprire il portone… Appunto: lo zio. Era arrivato in casa da Livorno, questo Fattori prima maniera, con l’eredità destinata a mio padre dalla vecchia zia di cui avevo sentito parlare tra parenti, con stupore e allegria, perché a ottant’anni aveva messo il dente del giudizio.

Il problema, per appenderlo, era stata la cornice, larga più di dieci centimetri, irta di frutti a tutto tondo, dorata, non di legno come sembrava, ma di ceramica.

«Della fabbrica di lui» aveva spiegato mia nonna, con lontana invidia di cognata rimasta vedova giovanissima.

Un imprenditore in famiglia mi dico ora, ce l’avessi oggi! Prenderebbe in affitto un bel capannone in Cina, produrrebbe a costo quasi zero e senza abbassare i prezzi in Italia ci renderebbe tutti ricchi. Oddio! Contribuirebbe, sì, alla disoccupazione, ma tant’è, un po’ più, un po’ meno… «Era un mecenate» aveva detto mio padre guardando il ritratto appena issato «aiutava gli artisti… aiutava Fattori, ci sono le lettere…».

Allora no, lui non prenderebbe in affitto il capannone in Cina, fallirebbe magari o morirebbe presto, anche molto prima che la moglie mettesse il dente del giudizio. Quanto a Guerrazzi era un nome che evitavo, non sapevo bene chi fosse e temevo mi venisse chiesto. Anche oggi, del resto, se mi dicessero «Parlaci di lui o ti mettiamo al muro» finirei al muro.

Ma ne avevo rispetto attraverso l’importanza che gli dava mio padre quando sfogliava il libro “I garibaldini livornesi nel risorgimento italiano. Note storiche (1847-1859)” stampato nel 1913 a Livorno dalle officine grafiche Chiappini. Libro che si direbbe pubblicato solo per noi, visto che nessuno dei parenti vogliosi è mai riuscito a trovarne una copia, nemmeno nelle biblioteche.

Se lo fece dare, invece, da mia nonna il figlio minore, venuto a trovarla a Pisa da Roma, mentre mio padre era in guerra. Per fortuna, perché così si è salvato e ora l’ho io. Tutto il resto: il ritratto del prozio, la grande cartella da disegno piena di lettere, la cartellina durissima, rivestita di carta telata, lucida, nera, mi riaffiora in questo momento tanto poco mi piaceva sulla mia prima scrivania, bianca nell’interno dove una grafia minuta, piegata verso destra, aveva vergato un fitto scritto. «… questa cartellina è stata con me durante la spedizione dei mille» ricordo soltanto, non la firma (non c’era o non le davo peso? Somara che ero, che sono!), tutto, dicevo, sprofondò con la casa nel bombardamento del ‘43. Ecco ora ho il libro in mano, lo sfoglio. Ogni tanto ha una pagina bianca, in carta lucida, con al centro una foto a mezzo busto, in ovale, di Garibaldi la prima. Un Garibaldi severo, dal volto magro, altissima la fronte senza il riparo della papalina, niente a che fare col “biondo duce dei mille” a cui ci avevano avvezzati i vecchi libri di testo.

Nella seconda: Guerrazzi. Ripreso più da vicino, il volto sembra poggiare direttamente sul bavero di un pellicciotto. Svolto, cerco la terza. Era questo che lusingava mio padre «Subito dopo Guerrazzi viene Giuseppe Curradi, mio nonno!». Bello devo dire, dritto, asciutto, attillato in una redingote nera, il volto dai lineamenti fini orlato da un filo di barba, curata.

Sulle altre, rade, pagine bianche le foto diventano rettangolari e riproducono scene di battaglie da stampe, da quadri: “Morte di Luciano Manara”, “Morte del livornese Pasquale Pichi”. Sull’ultima ritornano ovali, ma tre in una pagina, di patrioti mazziniani, come se l’autore, Attilio De Fusco, mazziniano, non volesse prendere troppo posto. Poiché De Fusco non racconta la vita dei protagonisti, ma li presenta via via all’interno degli avvenimenti, per sapere qualcosa di più del mio bisnonno, devo scorrere una cinquantina di pagine, con l’occhio a brevi citazioni sottolineate nel tempo dai parenti, fino a quella in cui si dice «dopo la difesa di Livorno riuscì a sfuggire agli artigli austriaci e raggiunse Garibaldi a Roma». Lì, a piè di pagina, da una lunga nota a caratteri piccoli vengo a sapere che «Giuseppe Curradi, nato nel 1829... nel ‘48 (ovvero a 19 anni) combatté a Curtatone, dove salvò la vita a Cesare Menaboni ferito alla fronte da palla nemica…».

Curtatone! La parola mi accende. Ritrovo la mia giovinezza di guerra all’Università di Pisa, la fierezza per il nostro berretto da studente diverso da quello di tutte le università italiane, poco più di uno zucchetto da quando, appunto, gli studenti della nostra, accorsi volontari a Curtatone e Montanara, avevano tagliato la lunga tesa a punta che impediva di prendere bene la mira col fucile. Il mio, della facoltà di Lettere, era rosa. Lo usavo molto di rado, ma lo amavo proprio per quel ricordo, ci avevo appeso qualche ciondolo e scritto, con lunghi punti di filo blu, «Domani studio» (non proprio una battuta).

La facoltà di Lettere era invisa al governo per quello che certi professori, presto in silenzio arrestati, potevano insegnare e per quel trust di cervelli rappresentato dai “normalisti”, quasi tutti ragazzi del Sud, che superata una selezione durissima per entrare nell’ambito collegio, dovevano dare, per restarci, più esami di noi e mantenere una media altissima.

Credo di dovere anche ai frequenti, liberi discorsi con loro, alla crudezza di certi loro giudizi, alla serietà di vita che si erano imposti, se nel ‘43, quando il bombardamento tutti ci disperse, potei affrontare, a Roma, i mesi dell’occupazione tedesca, con la fame e i rischi di un bracciantato nella Resistenza, considerati in seguito i più intensi, i più carichi di speranze della mia vita.

La libertà guadagnata l’ho comunque goduta, anche dopo il crollo ai miei occhi, molto prima che accadesse davvero, del mondo in cui avevo candidamente creduto, ovvero un mondo più giusto, che offriva una vita semplice, austera, senza la volgarità del lusso, o l’insulto di stipendi astrali. E l’ho goduta non da posizioni di potere, ma da un lungo, paziente lavoro nella scuola.

Per questo tremo al pensiero di una riforma che dimezza il numero delle classi, stantuffa gli alunni nelle aule e dice «Ora tocca ai professori!» come se li premiasse. Senza contare i giovani insegnanti, sia pure precari, sia pure mal pagati, rimasti del tutto a spasso.

Se poi penso al significato di “lavoro a progetto”, a cui sono arrivata da poco, mi chiedo com’è possibile, oggi, che un giovane, assunto a contratto, con uno stipendio minimo, senza garanzia di rinnovo, né ferie, né copertura di malattia, sia assicurato per tre ore e costretto a lavorarne dalle dieci alle dodici, in sede.

Vuol dire che riporterò nella casa dei miei suoceri, in Sicilia, dove niente è mai andato perduto, il vecchio orologio da taschino, trovato in un cassetto, insieme ad altri abbandonati, e portato via da me per le parole «otto ore lavoreremo, otto ore ci istruiremo, otto ore riposeremo» scolpite in rilievo sulla cassa, che suonavano ancora trionfo e speranza.