Sud

Di Franco Cassano Martedì 24 Maggio 2011 17:22 Stampa
Sud Illustrazione: Anna Sutor

Ogni tanto si è tentati di smettere di parlare del Sud italiano perché sembra impossibile invertire la tendenza: da un lato le classi dirigenti meridionali si confermano incapaci di fare un salto in avanti, dall’altro quelle nazionali, anche quando si ritengono lontane dai richiami del leghismo, hanno perso l’attitudine a fare un’analisi del Sud capace di varcare la soglia del moralismo e dell’emergenza criminale.

Ogni tanto si è tentati di smettere di parlare del Sud italiano perché sembra impossibile invertire la tendenza: da un lato le classi dirigenti meridionali si confermano incapaci di fare un salto in avanti, dall’altro quelle nazionali, anche quando si ritengono lontane dai richiami del leghismo, hanno perso l’attitudine a fare un’analisi del Sud capace di varcare la soglia del moralismo e dell’emergenza criminale. Questa pigrizia intellettuale ben si salda alla convinzione, moltiplicata da tutti i grandi media nazionali, che il Mezzogiorno italiano sia solo una molteplicità di gradazioni di uno stesso colore, quello di “Gomorra”. Questa immagine apocalittica ha tra l’altro il torto di mettere in ombra le esperienze che vanno in direzione inversa, e che potrebbero ricordare che il Sud del nostro paese non è riducibile a una replica allargata di ciò che avviene a Napoli e dintorni. Ma il modo in cui si forma l’immagine del Sud dipende molto dai grandi media, giornali e televisioni, nessuno dei quali notoriamente ha la sua sede principale nel Mezzogiorno. Poco più di un anno fa un noto editorialista affermava che il Sud non ha voce. Non è esatto: il Sud la voce ce l’ha. Quello che gli manca è il microfono. Analizzando gli ultimi due decenni di storia italiana, una conclusione non appare certo azzardata: di fronte alle sfide della globalizzazione e al passaggio alla Seconda Repubblica, il paese non ha risposto riformulando in prospettiva e con uno sguardo al futuro le ragioni della propria unità, e questo sguardo “corto” ha favorito la municipalizzazione e la corporativizzazione dei suoi territori. A una visione “lunga” e complessiva se ne sono sostituite molte, ma “corte” e parziali. In altre parole, il sentire leghista è egemone, anche se è diversa la gradazione di volgarità. È forse proprio da questa passività delle classi dirigenti di fronte all’egemonia del leghismo che nasce il successo di quella recente pubblicistica che ha riportato al centro dell’attenzione l’azione repressiva che accompagnò l’incorporazione del Sud nello Stato unitario o, come disse a suo tempo Carlo Alianello, la «conquista del Sud». Questo fenomeno era del tutto prevedibile, ed è in singolare corrispondenza con quei movimenti che hanno investito il ceto politico meridionale, all’interno del quale, a partire dal centrodestra, sembra affermarsi una sorta di leghismo reattivo, una lettura dell’identità meridionale altrettanto povera e riduttiva di quella che la Lega ha costruito al Nord. Non è un caso che questo filone abbia rispolverato la parola “terroni”,impugnandola con orgoglio e rovesciandone l’originario senso dispregiativo: una rivendicazione di identità polemica, che cerca di ribaltare l’immagine dominante di un Sud beneficiario esclusivo dell’unità nazionale in quella di un Mezzogiorno vittima privilegiata di quest’ultima. Vale la pena ripeterlo: di questa pubblicistica si possono capire le ragioni, ma occorre anche segnalarne i rischi, soprattutto quello di proporre, sulla scia di un’evidente tentazione mimetica nei riguardi della Lega, l’idea di un Sud chiuso in se stesso, un’identità, appunto, terrestre, che fa scomparire la sua ricchezza, la sua molteplicità interna e la sua connessione con il mondo che lo circonda. Lo sguardo corto è una perversa profezia che si autoadempie, seminando intorno a sé sguardi altrettanto corti. Io sono invece da sempre convinto che il Sud italiano sia terra e mare, un’identità costitutivamente ricca e plurale, segnata da arrivi e partenze, e soprattutto proiettata nel Mediterraneo. Il nostro paese è incomprensibile se non si ricorda che fu definito da Braudel, come il «giogo di un’immensa bilancia», «una stretta diga tra due metà del mare». Esso sta lì da sempre, è un «paese di mezzo» che diventa più vivo e più ricco quando può esercitare questa sua funzione: è l’esatto contrario di quell’immaginario terrestre che strozza la Lega e impoverisce e rattrappisce la stessa identità del Nord italiano. E quindi se nella storia del Sud c’è un passato al quale vale la pena rifarsi non è certo quello segnato dal regno borbonico, ma quello nel quale il Mediterraneo era un centro drammatico e vitale del mondo, l’ambiente privilegiato della formazione dell’identità italiana. La visione meridiana del Sud è anche una visione della paeninsula italiana come terra di collegamento tra il Nord e il Sud del Mediterraneo e tra il bacino occidentale e quello orientale di questo mare. Non si tratta in nessun modo di una visione del solo Sud, ma dell’Italia intera, di una rilettura geopolitica delle condizioni che possono consentire oggi il rilancio della funzione di mediazione di quella penisola e quindi del Mezzogiorno italiano. Questa monumentale differenza può sfuggire solo a una lettura primitiva o strumentale.

La partita dell’unità del paese non può essere giocata guardando all’indietro e richiede grande lucidità da parte delle classi dirigenti, qualità purtroppo poco diffusa. Il successo delle celebrazioni dei centocinquant’anni dell’Unità d’Italia non va sopravvalutato perché non sembra essere fondato su un’idea forte e sicura del ruolo che il Sud potrebbe svolgere nel paese. Infatti che cosa è il “patriottismo costituzionale” se l’articolo 3 della Carta, che sancisce l’impegno dei costituenti a rimuovere le disuguaglianze, si sta dissolvendo sotto i colpi del federalismo? Quest’ultimo è e rimane una risposta ambigua, perché rappresenta il trionfo definitivo dello sguardo corto: l’enfasi sulla responsabilizzazione delle classi dirigenti del Mezzo - giorno ha le sue buone ragioni, ma la riduzione ad essa della questione me-ridionale segna la sua definitiva liquidazione.

Vale forse la pena ripetersi: la questione meridionale non riguarda solo il Mezzogiorno, perché attiene al modo stesso di concepire l’Italia, a un’idea di paese che cerchi di esaltare la sua posizione come un vantaggio competitivo. Il vertiginoso cambiamento prodottosi in questi mesi sulla sponda sud del Mediterraneo offre all’Italia un’occasione da non perdere, anche se l’attuale governo va nella direzione diametralmente opposta. Fino a quando il nostro paese non riuscirà a proporre e a far passare almeno in parte in Europa una politica mediterranea, sarà sempre più esposto alle forze centrifughe che lo attraversano e non ci saranno celebrazioni che tengano. Si potrebbe provare a rovesciare in chiave ottimistica e innovativa la celebre massima del principe di Salina: «Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi». Perché il paese rimanga unito è necessario che tutto cambi, che esso impari a guardarsi da lontano e dal futuro; in altre parole, che abbia lo sguardo lungo. Dizionario civile 172 2011

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