Editoriale 5/2017

Di Massimo D'Alema Mercoledì 25 Ottobre 2017 10:37 Stampa



Cosa ci dice il voto tedesco sullo stato di salute della sinistra in Eu­ropa? Innanzitutto ci racconta del lento logoramento subìto da quel­le forze che per troppo tempo hanno condiviso la responsabilità e l’impegno del governo di Grande coalizione. Al netto dell’eclatante e allarmante risultato ottenuto dal partito di estrema destra Alterna­tive für Deutschland, che conquistando il 13% dei consensi diventa la terza forza politica del panorama tedesco, c’è da rilevare che, per fortuna, esiste ancora un 87% di tedeschi che sceglie di votare per partiti saldamente democratici. Questi, però, decidono di punire i due principali partiti, la CDU di Angela Merkel e la SPD guidata da Martin Schulz, alleati per troppi anni in un’azione di governo che ha finito per indebolire entrambi e oggi vittima di quella che si potrebbe definire la “fatica” della Grosse Koalition. Se in Europa in tanti si entusiasmano per la longevità della leadership politica della Merkel, in Germania, al contrario, molti sono i tedeschi ormai stanchi di essere guidati ininterrottamente da 12 anni dallo stesso personale politico e dagli stessi partiti. Con il voto la società tedesca ha espresso un legittimo bisogno di cambiamento rispetto a una dinamica con­solidata ormai da troppo tempo e che, forte della convergenza dei due maggiori partiti, ha bloccato tutti i processi politici e il ricambio della classe dirigente.

Altro fattore che ha molto pesato sulla crescita della destra estrema tedesca è la paura dell’immigrazione, ossia la percezione del rischio di diventare meta di un incontenibile flusso di stranieri. Una per­cezione che ha pesato più della realtà, come dimostra il fatto che la crescita più rilevante dei consensi per l’AfD si è registrata nelle aree che vedono una presenza minore di immigrati. Se guardiamo a come stanno davvero le cose in Germania scopriamo che la ragione del di­sagio sulla quale si innesta la paura dell’“invasore” va ricercata altro­ve, nei caratteri peculiari della struttura socioeconomica tedesca che si sono andati formando negli ultimi anni. Anche il cosiddetto “mi­racolo” tedesco, così come il “miracolino” italiano, poggia le sue basi sull’estrema precarizzazione del lavoro e su salari bassi. Si tratta di una crescita che, sebbene registrata dagli indicatori economici, non viene avvertita dai cittadini, non crea benessere diffuso, soprattutto in alcune aree più marginali rispetto ai processi di sviluppo economico come quelle dei Länder orientali della Germania. In definitiva, quindi, il risultato del voto è frutto dell’interazione di queste due componenti: malessere sociale gene­ralizzato da un lato e pervasività della campagna anti-immigrazione dall’altro. Si spiega così come mai l’elemento di disagio abbia avvantaggiato la destra, con una crescita dei consensi di 5 punti percentuali, e non la sinistra, come avvenuto in altri paesi europei dove, in presenza di una questione sociale rilevante, il voto antisi­stema di protesta si è distribuito anche a beneficio di questo fronte politico.

La CDU è la forza che paga il prezzo più alto nell’immediato, anche se, a guardare bene, non si può escludere che si tratti di un fatto congiunturale. Più preoccupante e meritevole di un supplemento di riflessione è invece la situazione del partito socialdemocratico, quella SPD che dal 2005 a oggi è passata dal 42 al 20%. Il ridimensiona­mento dell’SPD è un fenomeno che colpisce per le sue macrosco­piche dimensioni e che è in gran parte dovuto al ruolo subalterno svolto rispetto alla CDU nel quadro della Grande coalizione che, è bene ricordarlo, non fu una scelta obbligata. Nel 2005, infatti, i numeri avrebbero potuto consentire il perseguimento di un’opzione alternativa, ossia la costruzione di una maggioranza a guida SPD in coalizione con la Linke e con i Verdi. Ma la SPD allora escluse l’al­leanza con la Linke – con cui, in realtà, già collaborava in alcuni casi a livello locale – preferendo contribuire alla costruzione di un’intesa con i democristiani. Da quel momento è iniziato il declino della socialdemocrazia tedesca. Anche la scelta di puntare su Schulz come candidato Cancelliere va letta come un tentativo di superare la diffi­coltà di individuare nella classe politica socialdemocratica nazionale una personalità che non fosse strettamente associata all’esperienza di governo con la Merkel. La scelta dell’SPD di essere junior partner dei conservatori per così lungo tempo ne ha accentuato lo stato diprofondo malessere, ne ha accelerato il declino, impedendole di por­si come credibile alternativa di governo: 12 anni di collaborazione e sostanziale indistinguibilità delle politiche proposte hanno lasciato il segno.

Ci sono però ancora segnali di speranza. Se infatti sommiamo i voti di SPD, Linke e Verdi possiamo constatare che un’area che potrem­mo definire “progressista” raccoglie in Germania circa il 40% dei consensi. Rimane un blocco molto consistente, quasi pari al 42% ottenuto dall’insieme delle forze conservatrici. Se, al netto di ogni considerazione sulla traducibilità politica di queste operazioni ma­tematiche, vogliamo interpretare tale distribuzione del voto come lo specchio della realtà sociale tedesca possiamo rilevare come uno spazio da cui ripartire, per la sinistra, ci sia. In Germania come in diversi altri paesi del Vecchio continente.

Ci troviamo infatti, nel contesto tedesco, di fronte a un fenomeno che, pur con alcune specifiche peculiarità, richiama quanto avvenu­to anche in altri paesi europei. Nei casi in cui non si è registrata la tenuta dei partiti socialisti si è determinata una diversa articolazione della sinistra, con la crescita degli ambientalisti, ad esempio, o con il successo di partiti di sinistra più radicali come avvenuto in Grecia, dove SYRIZA ha rovesciato i rapporti di forza con il PASOK, partito socialista che per primo ha scontato elettoralmente la sua subalter­nità alla destra, il sostegno alle politiche dell’austerità e la condivi­sione delle responsabilità di governo con i conservatori di Nuova Democrazia; o ancora, con l’affermazione di movimenti che potrem­mo definire “populisti di sinistra”, come è avvenuto in Spagna con Podemos che, con il suo 20%, ha raccolto moltissimi voti in uscita dal PSOE ma rimasti nell’alveo della tradizione della sinistra spagno­la, da cui Podemos sostanzialmente trae origine. In chiave minore anche in Portogallo si assiste a una dinamica simile: è nato il Bloco de Esquerda, che si colloca tra i comunisti tradizionalisti e i socialisti favorendo così la formazione di un governo di coalizione di sinistra; un’esperienza originale che sta dando risultati positivi.

Anche il socialismo francese, a ben vedere, ha cambiato pelle: si è disperso, ma non è scomparso, né è andato a destra. Una parte di esso, quella che potremmo chiamare “socialismo delle compatibilità” o “socialismo dell’ENA”, si è dissolta nel macronismo; un’altra parte, il socialismo di tradizione più massimalista e alternativa, ha sostenu­to Melenchon; una terza parte, più piccola, è rimasta con Hamon. Quello che abbiamo descritto in precedenza come dilemma politico si è tradotto in Francia in una lacerazione del corpo del Partito socia­lista francese, nella separazione delle sue due anime, che già si erano manifestate in occasione del referendum sulla costituzione europea e che ora, in seguito al disastroso fallimento del tentativo di Hollande di tenerle insieme, se ne sono andate ognuna per la sua strada.

Tutti questi esempi ci portano a dire che oggi la socialdemocrazia europea si trova di fronte a un bivio: stare sul terreno dell’ortodossia e formare coalizioni in cui normalmente porsi come junior partner dei conservatori, oppure giocare la carta dell’alternativa, puntando a costruire un rapporto con forze nuove che, pur se spurie e con alcuni tratti di populismo ed elementi di critica radica­le, stanno crescendo nella società e si caratteriz­zano non tanto per un generico e intransigen­te antieuropeismo, quanto per le circostanziate critiche che riservano all’attuale modus operandi dell’UE.

Di fronte alla scelta tra queste due alternative tendo a preferire la seconda, quella che si adope­ra per la ricostruzione della sinistra, per la crea­zione di una vasta area progressista, che impone di misurarsi con nuovi elementi di radicalità nel campo ambientalista o della critica femminista, e che soprattutto richiede uno sforzo comune per sviluppare un progetto di radicale rinnova­mento e rilancio del processo europeo.

Quella che ci troviamo a vivere è quindi una fase che non definirei di estinzione della sinistra. Si­curamente è una fase di crisi, ma di una crisi che può essere intesa anche come processo di trasformazione, di necessa­rio ripensamento dei paradigmi culturali di riferimento, a partire da un elemento centrale, un progetto europeo profondamente rinnova­to all’insegna di due elementi imprescindibili: più democrazia e più sviluppo sostenibile.

Dovremmo cominciare a utilizzare l’espressione “sviluppo sosteni­bile” preferendola alla generica “crescita”, perché quello di crescita è un concetto ambiguo, che contiene al suo interno anche elementi disenso non positivo, come l’impatto sull’ambiente o l’aumento delle diseguaglianze sociali. Occorrerebbe invece parlare di uno sviluppo inclusivo, sostenibile dal punto di vista tanto sociale quanto ambien­tale, che porti a una più equa redistribuzione delle risorse e a un miglioramento della qualità della vita per tutti.

Quindi democrazia, sviluppo sostenibile e, altro elemento fonda­mentale, regolazione e contenimento dello strapotere della finanza. Su quest’ultima questione, in particolare, si misurerà la capacità di proposta dell’Europa, la portata della sua proiezione sullo scenario mondiale. Penso, ad esempio, all’idea di istituire una nuova autorità finanziaria mondiale che possa, da un lato, occuparsi della regola­zione della finanza internazionale, dall’altro che funzioni come una sorta di Tax Authority in grado di incidere sulla più rilevante delle cause delle attuali disegua­glianze: la tassazione dei redditi da capitale, ossia delle ricchezze di quell’1% più ricco del mondo che, pur possedendo il 40% delle risorse dell’u­manità, sfugge in tutto o in larghissima parte al fisco. Come ha illustrato bene Thomas Piketty nei suoi studi, l’incidenza del fisco sul reddito è in crescita progressiva fino a un livello di redditi medio-alto e alto, ma quando arriva al livello altissimo registra una caduta verticale, perché i sistemi fiscali operano su scala nazionale mentre le grandi ricchezze non hanno patria. In fondo, se c’è una regolazione internazionale per il commercio e per molti altri aspetti della vita economica globale – teoricamente anche per il lavoro – non si capisce perché non ci possa essere un’autorità che si occupi di dare delle regole anche in campo finanziario e fiscale.

Un campo progressista internazionale e, in primo luogo, europeo dovrebbe cercare un terreno di unificazione, di sintesi, di incontro a partire proprio da una visione nuova dell’Europa. Nel nuovo sce­nario internazionale, con il ritorno della politica di potenza che lo caratterizza, dove imperversano il nazionalismo di Trump e di Putin, l’Europa è chiamata a fare un salto di qualità sul piano dell’unità politica.

La questione è in parte già sul tavolo, sollevata di recente anche da Juncker, che invoca un rafforzamento della governance dell’eurozona incardinato nelle istituzioni esistenti, e chiaramente inserito nell’a­genda della Merkel e di Macron, che rimandano invece a una solu­zione intergovernativa che si colloca a latere delle istituzioni già esi­stenti. Si tratta di una partita complessa, con importanti risvolti dal punto di vista istituzionale e tecnico, ma che si pone essenzialmente come questione politica, democratica e di contenuti. Per questo pen­so che un ruolo centrale debba essere svolto dal Parlamento europeo, essenziale in una discussione che non riguarda solo gli strumenti ma anche, se non soprattutto, le politiche e i contenuti.

Sarebbe bene che il Parlamento europeo cominciasse a occuparsi an­che dell’euro, che interessa non solo i paesi membri dell’eurozona, ma anche quelli che, pur non facendone parte, dell’euro subiscono l’influenza. E che lo facesse a partire dalla questione cruciale della riforma del patto di stabilità.

Su questo tema i socialisti potrebbero cominciare col dire che è im­pensabile che il patto di stabilità, attualmente un accordo intergo­vernativo, entri a far parte dei trattati europei senza essere sottoposto a una radicale revisione, a cominciare dall’esclusione della spesa per investimenti dal calcolo del rapporto debito/PIL. Quindi sì all’in­troduzione di nuovi strumenti, purché siano bilanciati da un forte elemento di valorizzazione della partecipazione democratica, e quin­di da un Parlamento che diventi il cuore politico dell’Europa, rivi­talizzato dalla prospettiva di liste transnazionali o dalla possibilità di prevedere liste di partito o di coalizione, in modo che effettivamente le elezioni europee possano delineare, se i numeri lo consentono, del­le maggioranze di governo dell’Europa e una dinamica del confronto politico tra maggioranza e minoranza.

L’innovazione per quanto riguarda gli strumenti non deve però andare a scapito della riflessione sulle politiche e i loro contenuti. L’attuale Commissione ha lanciato dei segnali in questa direzione, invocando la formazione di un governo comune che possa confron­tarsi con sfide che oggi non possono che essere affrontate insieme. La gestione dei flussi migratori in primis, ma anche lo sviluppo so­stenibile, la tutela dell’ambiente, il rafforzamento del ruolo globale dell’Europa, in particolare nei conflitti che infiammano il Medio Oriente.

Viviamo una fase in cui non c’è più allineamento tra gli interessi americani e quelli europei, come dimostra il diverso atteggiamento nei confronti dell’Iran: per l’Europa un possibile partner nella paci­ficazione della regione, per gli americani un pericolo per contenere il quale vengono armati i sauditi, in evidente contrasto con la visione e gli interessi dell’Europa.

Su tutti questi fronti, finora, i paesi dell’Unione europea si sono mossi in ordine sparso, procedendo in maniera contraddittoria e in­concludente. È impensabile continuare a operare in questo modo se vogliamo che l’Europa continui a esercitare la sua influenza a livello globale. Occorre perciò un progetto di rilancio. È questo il banco di prova per una sinistra profondamente rinnovata.