La mia CGIL. Intervista a Landini

Di Roberto Giovannini Giovedì 26 Ottobre 2017 15:50 Stampa
La mia CGIL. Intervista a Landini Foto: Marco Monetti



Roberto Giovannini
Maurizio Landini, dopo tanti anni in FIOM – tante discussioni, tante polemiche, tante prese di posizione, tante con­troversie – adesso lei è segretario confederale della CGIL. Ma la CGIL, e il sindacato così come lo conosciamo in Italia, esisterà ancora tra dieci anni, nel 2027?

Maurizio Landini Sono in crisi tutte le organizzazioni di rappresen­tanza sociale, sia quelle politiche che quelle sindacali, e sta cambian­do in modo radicale il modo in cui operano imprese e produzione. Nulla sarà più come prima. Mai come oggi abbiamo tanta precarietà del lavoro, tanta diseguaglianza, tanta frammentazione sociale, tanta competizione tra le persone. E dall’altra parte – questo è il tema – non c’è più un punto di vista del lavoro, una visione alternativa della società, mentre c’è e predomina il punto di vista del mercato e della finanza. In prospettiva, certamente il sindacato ha un futuro; ma deve avere un modello sociale di riferimento. Se chiediamo ai lavoratori di organizzarsi in sindacato, non basta dire che il sindacato serve per tutelare le loro condizioni di lavoro. Bisogna proporre anche un progetto di trasformazione sociale, un’idea diversa di giustizia so­ciale, di eguaglianza. Bisogna avere un’idea del perché e del come si lavora e si produce; bisogna avere un’idea di reale coinvolgimento e partecipazione delle persone. Si è scelta la strada di lasciar fare al mercato; si è lasciata vincere – nella cultura e nella politica – l’idea che al centro di tutto ci sono il mercato e la finanza. Questo ha fat­to scomparire la soggettività delle persone che lavorano, e dunque ha cancellato ogni punto di vista diverso e di trasformazione. Sono convinto, sinceramente, che il sindacato possa avere un futuro; ma lo avrà solo se sarà anche un soggetto politico, cioè se avrà valori e proposte di trasformazione sociale in autonomia e indipendenza da politica e governi.

R. G. Una storia, quella del sindacato in Europa, che da sempre si è intrecciata a quella del movimento socialista. Che oggi appare ovunque in grave crisi.

M. L. È così. Dopo la fine dell’esperienza “comunista”, oggi siamo alla fine anche dell’esperienza della socialdemocrazia, ovvero di quel modello di mediazione sociale tra imprese e lavoro che aveva dato vita allo Stato sociale. Lo dimostra il fatto che siamo di fronte a un arretramento senza precedenti delle condizioni di vita delle persone che lavorano. Per avere un futuro, il sindacato deve tornare a rap­presentare e unire tutto il mondo del lavoro, e costruire su questa base una cultura politica e sociale alternativa all’attuale modello che ha al centro mercato e finanza. Per farmi capire meglio vorrei citare la vicenda dell’approvazione nel 1970 dello Statuto dei lavoratori. La legge 300 non venne approvata perché sostenuta dalle forze di sinistra – il Partito comunista si astenne – ma perché votata da DC, PSI, PLI, PRI e PSDI, che avevano una larga maggioranza in Parla­mento. Nel 1970 anche le forze politiche di destra e di centro votano lo Statuto dei diritti dei lavoratori perché riconoscono che uno dei nostri principi costituzionali, la centralità dei diritti della persona che lavora, è un interesse generale da riconoscere e tutelare. E solo successivamente si articola la politica, a destra, a sinistra o al centro. Oggi siamo al paradosso che un partito come il PD, che fa parte dell’Internazionale socialista, sancisce che la cosa più di sinistra che può fare è il Jobs Act, una legge che smantella lo Statuto dei diritti dei lavoratori. E mentre nel 1970 si affermava che si poteva licen­ziare solo se c’era una giusta causa, si riconosceva che il lavoro aveva bisogno di tutele, e che il ruolo sociale dell’impresa doveva essere temperato dal rispetto dei diritti di chi lavora, oggi si giunge quasi a teorizzare che va tutelata l’impresa che licenzia. Prima il lavoratore veniva tutelato dal licenziamento ingiusto; oggi viene tutelata l’im­presa, che può disporre un licenziamento ingiusto sborsando un po’ di soldi. Un cambiamento culturale davvero drammatico.

R. G. Dunque, il sindacato secondo lei ha un futuro; ma deve riuscire a unificare il mondo del lavoro, ed elaborare un progetto di trasformazione della società. Non sembra affatto un compito facile: il lavoro e la società sono frantumati e disarticolati, e l’esperienza socialdemocratica – che è stata il suo punto di ancoraggio tradizionale – è tramontata. Il sinda­cato confederale resta impostato su un modello novecentesco e datato. La CGIL ha le risorse per fare il salto di qualità che lei indicava come indispensabile per poter sopravvivere?

M. L. Credo di sì, purché si cominci ad agire sin dal Congresso che avremo tra un anno. Non basta un rinnovamento delle persone che dirigono la CGIL, ma serve anche un rinnovamento delle pratiche sindacali, partendo dal rafforzamento di alcune caratteristiche im­portanti del sindacato italiano, che hanno fatto sì che ancora oggi – mentre un po’ dappertutto il tasso di sindacalizzazione è in forte calo – nel nostro paese i numeri sulle adesioni siano migliori. Da noi le cose vanno meglio perché il sistema di relazioni industriali si basa su una struttura contrattuale fondata sui contratti nazionali di categoria e sulla contrattazione aziendale. Sappiamo molto bene che questo modello contrattuale è minacciato dalla frammentazione del processo lavorativo: penso alle esternalizzazioni, al sistema degli appalti e dei subappalti, al proliferare di cosiddette “cooperative”. Al fatto che le tecnologie che intrecciano il digitale e la manifattura cambiano il perimetro delle tradizionali categorie produttive sulla cui base è ancora oggi organizzato il sindacato. Per reggere a questo cambiamento, dobbiamo essere in grado di riunificare in capo alle persone i diritti di chi lavora. Non basta immaginare una nuova le­gislazione sul lavoro e un nuovo Statuto dei diritti dei lavoratori, che pure dobbiamo conquistare.

R. G. Un nuovo Statuto con centinaia di pagine di norme, e di difficile realizzazione, come quello proposto dalla CGIL?

M. L. No, può essere anche più leggero di quello – effettivamente largo – che abbiamo presentato. Ma il punto centrale deve essere che i diritti fondamentali della persona che lavora non devono più rimanere legati al lavoro che si svolge, e non possono di fatto essere diritti effettivi solo se si lavora a tempo indeterminato. Devono es­sere diritti esigibili e garantiti per chiunque lavori, qualunque sia il lavoro svolto, qualunque sia la modalità, qualunque sia il grado di autonomia nella prestazione. E in questa logica, da un lato non è più possibile continuare ad avere 450 contratti nazionali di lavoro; dall’altro bisogna ridisegnare i contratti per mettere assieme tutte le persone che lavorano nella medesima filiera produttiva. Non ha sen­so che in una stessa azienda ci siano persone con il contratto della lo­gistica, altri con quello dei metalmeccanici, altri interinali, altri con il contratto del commercio. È un fattore di debolezza e di competi­zione tra lavoratori, mentre dall’altra parte il governo dell’impresa è totalmente centralizzato. Dunque dobbiamo riformarci e ridefinire le vecchie categorie, riducendo il numero dei contratti e pensando a una contrattazione di tipo nuovo. Il che implica l’abbandono della tradizionale ostilità del sindacato a una regolazione per legge del­la rappresentanza e di altre materie sindacali. Io credo che oggi sia giunto il momento di una legislazione sul lavoro e di una legge sulla rappresentanza che garantiscano determinati diritti in capo ai lavora­tori, compreso il diritto di votare tutti gli accordi che li riguardano, il diritto di potersi scegliere il sindacato cui aderire, e la misurazione della legale rappresentanza attraverso un funzionamento più traspa­rente delle organizzazioni sindacali.

R. G. Una legge sulla rappresentanza significa anche introdurre regole per limitare l’esercizio del diritto di sciopero attraverso referendum e al­tre misure a voi sgradite. La cultura cislina vede sempre con sospetto gli interventi legislativi sulle materie che riguardano le parti sociali.

M. L. Intanto, vorrei ricordare che la nostra Costituzione definisce lo sciopero un diritto dei lavoratori. Inoltre, di leggi contro il lavoro ne sono state varate in quantità. Da anni. Leggi che consentono oggi alle imprese di fare quello che vogliono. Da noi vige l’articolo 8, vo­luto dalla Fiat, realizzato dal ministro Maurizio Sacconi, che ha per­messo alla Fiat di uscire dal contratto nazionale, di non associarsi più a Confindustria, di farsi un proprio contratto aziendale, di decidere quali sindacati esistevano e quali no. E invece non c’è una legge che assicura alle persone che lavorano il diritto di votare gli accordi che li riguardano. So bene che non c’è un contesto politico che va nella direzione che auspico; ma se vogliamo costruire le condizioni per un rinnovamento del sindacato è necessario dare voce ai lavoratori attraverso la democrazia. Le persone che lavorano hanno il diritto di poter votare per dire se gli accordi che i sindacati concludono in loro nome li condividono oppure no. E c’è un altro fattore importante. Una legge sulla rappresentanza sindacale, per definizione, fa sì che i contratti abbiano una validità erga omnes, e che quindi non ci possa­no più essere imprese che, come avviene oggi, decidono di non ap­plicare i contratti nazionali di lavoro. Lo sviluppo logico è che possa nascere anche una definizione per legge del salario minimo – se ne discute in tutto il mondo – che secondo noi potrebbe essere quello sancito dai contratti nazionali firmati dalle organizzazioni effettiva­mente rappresentative e approvati dagli interessati. In questo modo si potrebbe realmente conquistare un sistema in cui a parità di lavoro corrisponde parità di retribuzione e di diritti, contrattuali e di wel­fare. Cosa che oggi non c’è, o rischia di essere messa in discussione.

R. G. Nel dibattito politico, tra i partiti e in Confindustria, però, per salario minimo normalmente si intende una cosa ben diversa dai mi­nimi contrattuali CGIL-CISL-UIL. Non c’è il rischio che per legge si stabilisca un salario minimo di povertà, su cui poi inevitabilmente si schiacceranno tutti i contratti?

M. L. Questo rischio c’è. Ma vorrei far notare che negli ultimi anni è avvenuto un fatto inedito: il Parlamento – l’ultimo in particola­re, eletto con una legge incostituzionale, dove c’è una maggioranza che non è la maggioranza di quelli che hanno votato, e che è una maggioranza solo perché c’era un premio di maggioranza – ha varato molte leggi sul lavoro senza mai permettere a quelli che lavorano e alle organizzazioni sindacali che li rappresentano di poter dire se erano d’accordo o no. Leggi che stanno cambiando radicalmente i rapporti di forza e lo stesso mestiere del sindacalista: in passato chie­devamo ai datori di lavoro di applicare le leggi, oggi ci troviamo a chiedere alle imprese di non applicarle. Bella situazione, no?

E allora, a mio avviso, il ruolo del sindacato è anche quello di creare il consenso sociale e politico per ricostruire una nuova legislazione del lavoro. Dobbiamo elaborare una nostra proposta su cui confron­tarci con tutte le forze politiche; e, se necessario, dobbiamo costruire anche una mobilitazione sociale per sostenerla. Nessun altro lo farà al posto nostro. O vogliamo, forse, accettare uno stato di cose in cui i contratti nazionali vengono scavalcati dai contratti pirata, in cui pre­dominano voucher, stages, tirocini, lavori pagati una miseria e senza tutela? Questa battaglia per costruire una nuova cultura dei diritti del lavoro è un rischio che dobbiamo correre. E, del resto, è quanto abbiamo fatto – per la prima volta nella storia della CGIL – quan­do abbiamo deciso di promuovere referendum abrogativi di leggi sbagliate. Non era mai successo nella storia del sindacato, che non nasce per fare referendum per cancellare leggi, ma per contrattare e per promuovere una legislazione a favore di chi lavora. Ma di fronte a una situazione inedita dico che servono risposte straordinarie e ine­dite. Perché se restiamo con le mani in mano, se non riconquistiamo un quadro legislativo diverso, non riusciamo neanche a contrattare.

R. G. D’accordo, ma anche prima del varo di queste leggi è un fatto indiscutibile che il sindacato ha fatto di tutto per complicarsi la vita. Non ha contrastato il dilagare della precarietà, specie per i giovani, ha abbandonato completamente interi settori emergenti, come la logistica, dove le confederazioni hanno lasciato ampi spazi ai “sindacati di base”. La CGIL ha difeso allo spasimo le indennità più discutibili degli or­chestrali del Teatro dell’Opera di Roma, e appare lontana e distante dai bisogni di tanti milioni di giovani e precari.

M. L. Ci saranno anche errori e limiti, non c’è dubbio. Dovrem­mo imitare – a proposito di logistica – la IG Metall, la grande or­ganizzazione sindacale tedesca, che si è predisposta a rappresentare tutti i lavoratori che concorrono alla catena di valore del prodotto, dalla produzione alla consegna, all’assistenza. Dobbiamo riunificare i contratti; ma questo significa riaffermare il valore fondamentale del contratto nazionale e della contrattazione aziendale. La pericolosi­tà del modello Fiat, inizialmente da troppi sottovalutata, è che ha importato in Italia un’idea americana delle relazioni sindacali in cui non esiste più il contratto nazionale. Il sindacato diventa un soggetto aziendale, che partecipa alla competizione tra le diverse aziende. Una innovazione che distrugge il cuore della stessa nostra ragion d’essere: senza una solidarietà generale tra i lavoratori, senza una strumenta­zione di diritti garantiti in qualsiasi parte del mondo e in qualsiasi azienda, il sindacato non esiste più. Io continuo a pensare che questi non sono ragionamenti “vecchi”, ma valori che vanno riaffermati. Per tornare alla domanda iniziale – se cioè il sindacato abbia un futu­ro – ebbene, il sindacato secondo me può avere un futuro perché ci sono milioni di persone che lavorano, persone che hanno bisogno e diritto di stare insieme per tutelare la loro condizione di lavoro. Ma, lo dico brutalmente, il sindacato è effettivamente dotato di una cultura, di una prospettiva, di una visione, di una struttura tale da rispondere a questa sfida? La mia risposta è negativa. Dobbiamo realizzare un cambiamento profondo, una trasformazione incisiva, immaginare nuovi strumenti di azione. Rimanendo un soggetto sociale e politico che si pone il problema di una trasformazione della società e che punta a rappresentare tutte le forme del lavoro all’interno di un progetto confederale.

R. G. Una volta il sistema delle relazioni industriali era semplice: c’era una controparte quasi unica, Confindustria, con cui si negoziavano ac­cordi che valevano poi per tutti. Adesso Confindustria sta quasi peggio dei sindacati, ed è tutto dire.

M. L. Io affermo che la legge per la rappresentanza è necessaria per noi, ma anche per le controparti. Abbiamo avuto anni in cui si è apertamente tentato di superare i contratti nazionali e di abbattere la stessa idea confederale del sindacato. Si è fatto di tutto per determi­nare la divisione tra i sindacati, per far sì che ogni volta che le nostre organizzazioni avevano idee diverse si finisse con accordi separati. E così come c’è bisogno di ricostruire una rappresentanza politica che abbia la fiducia e il consenso dei cittadini, occorre anche una riforma del sistema della rappresentanza delle organizzazioni sociali: ogni organizzazione deve misurarsi con le altre sulla base della sua rappresentatività e di regole democratiche. E poi, il sindacato deve tornare a occuparsi della condizione di lavoro e di vita delle perso­ne, a contrattare nuovi modelli di organizzazione del lavoro. Adesso parliamo molto di Industria 4.0, c’è un grande cambiamento dei modelli organizzativi nelle aziende. Ma in questi anni – e secondo me è una delle ragioni delle difficoltà della sinistra e del sindacato – è passata l’idea che il modo di lavorare non fosse più un tema oggetto di negoziazione o di confronto. Immaginare e proporre soluzioni per lavorare in modo diverso, più efficace, per dare più spazio di parte­cipazione e di decisione ai lavoratori da un certo momento non è stato più un nostro obiettivo. Non è un caso che a un certo punto il Partito Democratico di Renzi – che pure si definisce un partito di sinistra – abbia affermato di avere come riferimento l’impresa e il mercato. Davvero, abbiamo un lungo lavoro davanti a noi.

R. G. Un lavoro difficile, certo. Ma è un obiettivo praticabile?

M. L. Ritengo che sia un obiettivo possibile. Basta guardarsi intorno: nonostante tutto, nonostante la crescita spaventosa del lavoro preca­rio e le basse retribuzioni, c’è una domanda di sindacato. Si citava in precedenza la filiera della logistica: se CGIL-CISL-UIL non sono state in grado di intervenire, quei lavoratori hanno comunque cer­cato di trovare forme di tutela e di rappresentanza. Se non ci siamo andati noi, qualcun altro è arrivato. Si può accet­tare il dilagare del sistema delle cooperative e del subappalto, che spesso nasconde la presenza del­la criminalità organizzata? Si può accettare che un giovane che cerca lavoro – senza essere figlio o conoscente di qualcuno – non abbia un luogo fisico, una struttura pubblica in grado di dargli risposte? Che addirittura adesso si debba pagare per lavorare, e non il contrario? Si tratta di una grave degenerazione, di un degrado sul piano dei valori culturali, perché favorisce un modello so­ciale fondato sulla competizione tra le persone e sull’insicurezza. Per­ché è da qui che scatta poi la paura del migrante: diventa normale il timore che, se non si accettano determinate condizioni di lavoro, ce ne sono altri dieci pronti a lavorare a un euro di meno. Certo, il sin­dacato deve riorganizzarsi. Dobbiamo valutare fino in fondo i nostri limiti, gli errori commessi, analizzare le cose che non abbiamo capi­to, immaginare i cambiamenti che dobbiamo introdurre. Di questo, esplicitamente e con coraggio, noi della CGIL dobbiamo discutere nel Congresso che ci attende nei prossimi mesi.

R. G. A dire la verità, sappiamo tutti che un Congresso della CGIL è un complicato gioco politico che ha dinamiche, equilibri e regole tutte particolari. Non è propriamente una palestra di democrazia.

M. L. Penso che dobbiamo cambiare anche in questo. Voglio essere netto: non è possibile che i 5 milioni e mezzo di iscritti alla nostra or­ganizzazione, a parte pagare la tessera sindacale, abbiano in realtà ben poche possibilità di poter contare e incidere sulle scelte che vengono prese. È inaccettabile. Tanto più perché la CGIL – ed è una delle ragioni per cui, a differenza dei partiti che non esistono quasi più, noi reggiamo ancora – possiede tutt’oggi una spina dorsale costituita da migliaia e migliaia di uomini e di donne, persone che sono elette da altri lavoratori nei luoghi di lavoro. Delegati e delegate che ogni giorno rappresentano il sindacato. In molti casi i lavoratori, gli iscrit­ti, che sanno benissimo chi è il loro delegato, non sanno neanche chi sia il segretario generale del loro sindacato o della loro categoria, che – è anche il mio caso – non viene eletto dagli iscritti, ma dagli organismi dirigenti. Senza questa rete di migliaia di delegati non esi­sterebbero né il sindacato, né la CGIL, né la FIOM; ma nei fatti le persone che ne fanno parte non sono mai messe nella condizione, su certe scelte o certi passaggi politici, di dire la loro. Abbiamo fatto una sperimentazione, positiva, di consultazione straordinaria degli iscritti prima di decidere se raccogliere le firme per i tre referendum. Adesso dobbiamo mobilitare di nuovo questa energia. A cominciare dai nostri delegati e dai nostri iscritti, dobbiamo trovare le forme e i modi per un loro maggior coinvolgimento nella vita della CGIL.

R. G. E in quale forma? Con i meccanismi un po’ bizantini e farraginosi attualmente vigenti?

M. L. Bisogna rovesciare la consuetudine per cui prima, al centro, si decidono quanti documenti programmatici ci sono, e poi si va dagli iscritti a chiedere di dire un sì o un no, se stanno con questo o con quel dirigente sindacale. Bisogna capovolgere lo schema: si discuta liberamente su proposte aperte, su cui le persone possano esprimersi, e poi sulla base di questo lavoro di consultazione e di coinvolgimento preventivo si decideranno i contenuti dei documenti programmatici, su cui alla fine tutti gli iscritti voteranno.

R. G. Landini, lei è stato burlato da Crozza con la battuta del gettone telefonico e dell’iPhone. È un fatto che la democrazia assembleare clas­sica non coinvolge davvero tutti i lavoratori, e offre molte scorciatoie. Ma non sarebbe il caso di usare strumenti più innovativi, ad esempio digitali?

M. L. Non escludo nulla. Però non credo molto all’esistenza di una pura “democrazia digitale”, almeno così come viene raccontata. La tecnologia deve essere utilizzata per allargare gli spazi di democrazia, ma nella democrazia c’è anche l’appello alla responsabilità delle per­sone, all’assunzione di responsabilità.

R. G. Se invece si provasse a far imitare al sindacato quanto stanno facendo gli spagnoli di Podemos, che utilizzano un sistema misto assem­bleare e digitale?

M. L. Conosco Podemos, ho avuto dei confronti con Pablo Iglesias. Ripeto, non escludo nulla. Si può fare. Però quel che conta non sono le modalità di partecipazione, ma valorizzare davvero la partecipa­zione. Non ha senso che il Congresso sia un evento per cui ogni quattro anni si fa un’assemblea per chiedere agli iscritti solo un sì o un no. Questa non è reale democrazia. E c’è la spina dorsale della nostra organizzazione, fatta da forse centomila delegati eletti – nel pubblico come nel privato – dai lavoratori, iscritti e non iscritti. Per questi centomila delegati e delegate, che sono quelli che tengono in vita la nostra organizzazione, non dovrebbero esserci dei modi, dei canali per essere coinvolti nelle decisioni strategiche della CGIL? Io penso di sì. Non so dire, ora, quale sia la forma migliore. Ma sono certo che questa sarebbe una utilissima riforma democratica dell’or­ganizzazione sindacale.

R. G. Si era parlato, a suo tempo, dell’ipotesi di utilizzare le primarie anche nel sindacato. È uno strumento utile, a suo avviso?

M. L. Continuo a pensare che le scelte di una organizzazione, se me­rita questo nome, vadano affidate agli iscritti a quell’organizzazione. Diverso è per un contratto di lavoro, che riguarda tutti i lavoratori, e su cui hanno tutti diritto di voto. Ma primarie in cui votano quelli che non sono iscritti, o addirittura quelli che magari sono iscritti ad altre organizzazioni, le trovo una cosa senza senso. E più in gene­rale, se guardo alle primarie in politica, non mi sembra affatto che abbiano portato più democrazia e partecipazione; spesso hanno solo aumentato confusione e divisioni. Ho detto della necessità di coin­volgere di più gli iscritti e i delegati, ma bisogna anche valorizzare il ruolo degli organismi dirigenti della nostra organizzazione, che in CGIL sono formati prevalentemente da persone che sono nei luoghi di lavoro. Può essere utile in qualcuno di questi passaggi il meccani­smo delle primarie? Discutiamone: un’idea precostituita non ce l’ho. Ma se il modello è quello delle primarie della politica, beh allora sono totalmente contrario. Perché quelle primarie hanno accentuato al parossismo la personalizzazione. E secondo me uno dei mali peg­giori di questa fase politica è stato immaginare che basti individuare un leader per risolvere tutti i problemi. Una vera bestialità.

R. G. Eppure è riconosciuto che il profilo del leader, il suo carisma, la sua capacità di intessere relazioni, è un fattore decisivo.

M. L. Questa è un’altra faccenda. Non voglio dire che chi ha un ruo­lo dirigente non debba avere anche una leadership forte, perché in caso contrario o dirige male, o ben presto non dirigerà più. Il punto è che quando nelle nostre organizzazioni, in politica e nel sindacato, c’erano leader autorevoli, erano tali anche per la cultura di organizza­zione che avevano costruito, oltre che per la qualità dei dirigenti con cui collaboravano. Sono virtù che non si manifestano semplicemente grazie a un’elezione, a una votazione. Non lo stabilisce un’urna elet­torale chi è “più leader” tra due candidati. E poi c’è un problema più generale. Ci sono sempre meno spazi in cui le persone possono partecipare e decidere, c’è meno democrazia, solo il 50% degli italia­ni va a votare. E il sindacato si deve porre con forza il tema di come ricostruire una partecipazione democratica alle scelte, perché non è possibile, né giusto, né accettabile che nei luoghi di lavoro ci sia chi decide – l’impresa – e chi deve adeguarsi alle altrui decisioni senza poter mai dire la sua. Mi chiedo: ci sono forze politiche che si pon­gono il problema di tornare a esprimere e rappresentare un punto di vista alternativo al modello sociale del mercato e della finanza?

R. G. La politica, tema intrigante e delicatissimo. Il sindacato italiano dovrà fare come si fece a suo tempo in Gran Bretagna e fondare un pro­prio partito?

M. L. No. La mia idea è che il sindacato deve essere indipendente e autonomo dalla politica, ma allo stesso tempo trovo grave il vuo­to che c’è nella rappresentanza politica del mondo del lavoro. Nella sua autonomia, credo che la CGIL possa dare un contributo alla ricostruzione di un pensiero politico che riparte dalla centralità del lavoro. Ma solo se è in grado di cambiare pelle, di correggere i pro­pri errori, di inventare un metodo di partecipazione e di democra­zia; e senza dividersi, ma anzi tenendo insieme tutte le sue anime in un pluralismo di idee. Voglio essere chiaro: primo punto, se questo compito non lo assume su di sé la CGIL non vedo chi altri possa svolgerlo. Secondo punto, se la CGIL non svolgerà questo compito, rischia di cambiare negativamente la sua natura.

R. G. Ma l’indipendenza del sindacato dalla politica non equivale so­stanzialmente all’isolamento del sindacato?

M. L. È l’opposto. L’indipendenza è la condizione per poter essere un soggetto autonomo. Indipendenza vuol dire che il sindacato ri­sponde agli iscritti e ai lavoratori che rappresenta.

R. G. Ma se non c’è una forza politica che faccia da sponda in Parla­mento…

M. L. La forza politica si deve costruire. Ma si riesce a costruire solo a partire da una cultura politica nuova.

R. G. Parliamo di Matteo Renzi. A suo tempo lei ebbe un rapporto molto stretto con l’allora “rottamatore”. A “la Repubblica”, nel dicembre del 2013, disse addirittura che «Renzi ha un atteggiamento molto più libero sui temi della democrazia, del lavoro, della lotta alla precarietà rispetto a chi lo ha preceduto alla guida del Partito Democratico». Le posso chiedere che cosa vedeva in Matteo Renzi per fare una simile aper­tura di credito?

M. L. La forza di Renzi nasceva dagli errori di chi l’aveva preceduto. Compreso quello più grave, cioè non andare a votare dopo la ca­duta del governo Berlusconi e dar vita al governo Monti, con tutto quel che ne è conseguito sul piano economico e sociale. L’ascesa di Renzi nel PD nasceva dalla crescente sfiducia verso i dirigenti che erano venuti prima di lui, per le cose che avevano fatto e per quelle che non avevano fatto. Dirigenti che lui prometteva di rottamare in blocco. Ragionando in una chiave sindacale, mi sembrava dunque utile non avere preclusioni rispetto alle sue idee e alle sue proposte, ma piuttosto sfidarlo – visto che lui diceva di essere il “nuovo” e che voleva cambiare le cose – a cambiarle in una certa direzione. Diven­tato presidente del Consiglio gli scrissi una lettera aperta, a nome della FIOM, in cui dicevamo di non aver gradito che fosse diventato premier senza aver vinto le elezioni; ma visto che diceva di voler cambiare il paese, ebbene noi eravamo pronti a sfidarlo a cambiarlo assieme al lavoro. E indicammo una serie di terreni su cui agire, dalla politica industriale alla tassazione, fino ai diritti del lavoro.

R. G. Beh, per cambiare ha cambiato. Ma nella direzione esattamente opposta a quella da voi auspicata. Non è pentito?

M. L. Vorrei dire che c’è stato un Renzi fino alle elezioni europee del maggio 2014, e poi dopo le elezioni ce n’è stato un altro. Prima, per rimanere al tema del lavoro, lui si era detto contrario a modi­fiche all’articolo 18. Aveva parlato di un contratto unico contro la precarietà, e io – suscitando anche qualche ira in casa CGIL – avevo detto che se il nuovo contratto sostituiva altri rapporti precari, beh, eravamo interessati a sperimentare un vero cambiamento. Avevamo concluso a Palazzo Chigi l’accordo per Electrolux, che consentiva investimenti all’azienda evitando i licenziamenti. Ad agosto 2014, dopo le europee, Matteo Renzi ha preso un’altra strada. Sull’articolo 18, sulla precarietà, sui rapporti con il sindacato. E naturalmente i nostri cammini si sono divisi.

R. G. Come si spiega questa sterzata?

M. L. Con il rapporto con l’Europa, ma anche con il rapporto che aveva stabilito con la Fiat e con Sergio Marchionne, che è diventato un suo punto di riferimento. Certo è che con il Jobs Act si è reso esplicito che Renzi andava in una direzione opposta alla nostra. E di conseguenza abbiamo fatto una battaglia molto forte e netta, di­mostrando cosa sia davvero l’autonomia del sindacato dal governo e dalle forze politiche.

R. G. Autonomia, però, anche dal suo segretario generale Susanna Ca­musso. È normale che un segretario di categoria com’era lei vada riserva­tamente a parlare con il premier?

M. L. E che male c’è?

R. G. Per definizione, il rapporto con il primo ministro e con il governo è privilegio e responsabilità del segretario generale di una confederazione.

M. L. Veramente io questa critica non l’ho mai capita. Qualsiasi dirigente sindacale, per il lavoro che fa, sfrutterebbe una simile op­portunità. Si parlava di vertenze sindacali come Finmeccanica, Fin­cantieri, Fiat, Electrolux, Termini Imerese. Un segretario generale di una categoria non mette per questo in discussione l’autorevolezza della Confederazione, se fa quel che deve per tutelare gli interessi delle persone che rappresenta.

R. G. Siamo nella primavera del 2014, ma tra voi della FIOM e Ca­musso c’era già un durissimo scontro sull’accordo sulla rappresentanza del 10 gennaio del 2014.

M. L. Fu una discussione con momenti anche abbastanza – diciamo così – vivaci. Noi contestammo alla Confederazione di aver firmato quel testo senza un mandato del Direttivo e senza una consultazione degli iscritti e dei delegati.

R. G. Un accordo che peraltro, nonostante le polemiche e i tre anni e mezzo trascorsi, è rimasto ancora virtuale.

M. L. Non è stato applicato, perché la certificazione della rappre­sentanza ancora non c’è. Ma per la FIOM quell’accordo apriva una questione democratica di rilievo. Ci fu una consultazione degli iscritti in cui la maggioranza votò a favore, mentre i metalmeccani­ci votarono contro. La FIOM prese atto che l’accordo c’era, ma si impegnò nell’azione contrattuale a lavorare per modificarlo – come siamo riusciti a fare – nei limiti del possibile. Non è un caso che l’ultimo contratto nazionale dei metalmeccanici – firmato anche da Federmeccanica – stabilisse che il contratto sarebbe stato valido solo dopo un voto referendario dei lavoratori. Fu un risultato molto importante: non solo il contratto vedeva l’intesa di FIM-FIOM-UILM, non solo si superava la fase degli accordi separati, ma an­che la nostra controparte accettava che il contratto fosse valido solo dopo un voto dei lavoratori, cosa che non era indicata nell’accordo del 10 gennaio.

R. G. Tra un anno Susanna Camusso dovrà lasciare la leadership del sindacato di Corso d’Italia, compiuti gli otto anni di mandato. Lei vor­rebbe diventare il nuovo segretario generale della CGIL?

M. L. Non voglio girare attorno alla domanda, ma in questa fase il tema non è semplicemente quello di chi sarà il segretario gene­rale. Io non mi sono mai candidato a nulla; anche quando ho fatto il segretario generale della FIOM è perché mi hanno proposto di farlo. Naturalmente, quando è successo ho sempre accettato. Detto questo, ripeto: prima ancora di capire chi sarà segretario generale, c’è il problema di cui abbiamo parlato in precedenza, cioè che CGIL immaginiamo e che discussione facciamo per realizzarla.

R. G. Va bene: un dirigente presenta un programma, lo si valuta e poi lo si vota.

M. L. Sinceramente, io non credo alle autocandidature. Sarà una cosa che dovremo discutere e decidere assieme.

R. G. Ma io non le ho chiesto se si candida o no. Ho chiesto se vorrebbe fare il numero uno della CGIL. Se pensa di poter dare un suo contributo anche in questo modo.

M. L. Mi sento di poter dare un contributo di proposta e di iniziativa per la CGIL nel ruolo che alla fine verrà fuori. Ripeto, non è quello il tema oggi. Anzi, mi pare un rischio se la discussione che faremo si ridurrà al nome del segretario generale. Intendiamoci: è una cosa molto importante, anzi, decisiva. Ma se l’anno di tempo che c’è di qui al Congresso lo trascorreremo solamente per parlare di chi farà il segretario generale saranno guai. Chiunque sarà il nuovo segretario generale della CGIL, avrà un peso e una forza significativa solo se c’è una CGIL di un certo tipo; essere alla guida di un’organizzazione che non ha un grande futuro mi pare ben poco invidiabile. Oggi, dun­que, il tema è come restituire un progetto, una forza e una credibilità maggiore nel paese alla CGIL, allargando la sua rappresentanza. E quindi come cambiare sul piano organizzativo e democratico e come aggiornare le scelte strategiche.

R. G. Dopo tanti anni in FIOM, come si trova nella segreteria della confederazione?

M. L. Intanto vorrei dire che ho considerato importante che – dopo vent’anni – a un segretario generale della FIOM venisse proposto di far parte della segreteria CGIL. La FIOM, come le altre categorie, ha la sua autonomia, e continuerà a fare quel che deve fare. Ma mi è parsa una proposta significativa, perché per affrontare i cambiamenti che sono necessari c’è bisogno di rafforzare l’unità della CGIL. Che non vuol dire cancellare il pluralismo, ma trovare anche forme nuove con cui le diverse idee si confrontano e prendono le decisioni. Vorrei dare un contributo in questa direzione. Se questo contributo viene ritenuto utile, a qualsiasi livello, come ho sempre fatto valuterò e sarò a disposizione. In più, confesso che dopo una vita sindacale trascorsa tra i metalmeccanici sono interessato e curioso di frequentare altri pezzi del mondo del lavoro, farmi direttamente un’idea delle con­dizioni, dei processi, del modo in cui si lavora. Sono convinto che dobbiamo recuperare un rapporto con un mondo del lavoro fram­mentato, e soprattutto con i giovani, che molto spesso pensano che il sindacato sia una cosa inutile o lontana da loro. Questa percezione la dobbiamo assolutamente cambiare.

R. G. Concludiamo tornando a parlare di politica. A suo tempo lei lan­ciò la “coalizione sociale”, che poi non ha conosciuto un grande successo e che avete abbandonato, anche se le è valsa l’accusa di volersi candidare a un ruolo politico. Lei non ha mai detto per quale partito ha votato, ma certo vota a sinistra. E a sinistra del PD la confusione pare regnare sovrana, tra un Giuliano Pisapia dall’incedere insicuro e lo spettro della possibilità di una frammentazione in molte liste.

M. L. In politica vedo contemporaneamente un grande vuoto ma anche un grande spazio a disposizione. Negli ultimi anni sono emersi fenomeni politici nuovi e dirompenti, da Grillo a Salvini a Renzi; ma è costantemente aumentato il numero di persone che non vanno a votare, che non si sentono più rappresentate da nessuno. Non è gente, dal mio punto di vista, che non è più interessata alla politica. Sbaglierò, ma vedo invece una domanda di diversa rappresentan­za politica. Basti pensare al voto sul referendum costituzionale del 4 dicembre, che ha visto una partecipazione nettamente superiore a quella delle elezioni politiche, europee o amministrative. Si sono recate alle urne persone che invece non ritengono necessario andare a votare per un partito.

R. G. Ma come si rimettono in moto questi cittadini?

M. L. Credo che ci sia spazio per una forza politica che vuole restitu­ire ruolo e voce a quelli che non vanno a votare. Il problema sono i contenuti della proposta politica: non può essere semplicemente una somma di quel che c’è, oppure una discussione su chi è più vicino o più lontano dal Partito Democratico. Sono argomenti che mi paio­no poco interessanti e coinvolgenti. Per avere una prospettiva serve qualcosa che sia nuovo anche nelle forme ma che parta da contenuti e proposte concrete. Se tutto si gioca su uno sterile dibattito su cosa sia il centrosinistra è facile immaginare che non si va lontano. Se un giovane è precario quando governa la destra e continua a essere un precario anche quando governa la sinistra, cosa vogliono dire per lui in concreto destra e sinistra?

R. G. Insomma, questo agitarsi a sinistra del PD per ora è deludente.

M. L. Noto soltanto che bisognerebbe prendere atto che quelle mo­dalità di confronto non parlano più a nessuno. Serve a poco raggiun­gere un accordo tra persone o tra i gruppi politici. Chi hanno dietro, chi rappresentano? Se si vuole costruire qualcosa di grande bisogna coinvolgere le persone in carne e ossa, i cittadini, i giovani, i lavora­tori, i precari.

R. G. La sua “coalizione sociale” voleva essere questo?

M. L. Quella proposta nacque da un ragionamento sindacale: dopo lo sciopero generale non avevamo ottenuto nessun risultato, e il go­verno era andato avanti. Ma mentre nel 2002 avevamo portato tre milioni di persone a Roma, coinvolgendo l’intero mondo del lavoro e tantissimi giovani e precari, stavolta non c’eravamo riusciti. Noi della FIOM ci siamo così posti il problema di provare a costruire una coalizione sociale per allargare il fronte anche ad altri soggetti, e andare oltre la rappresentanza tradizionale del sindacato. A un certo punto però ci siamo fermati: a parte qualche defezione, ci eravamo resi conto del rischio che davvero si pensasse che il fine della coalizio­ne sociale fosse lo sbarco in politica, o la nascita di un partito. Che non era il nostro obiettivo. Ma fu un’iniziativa utile, tanto è vero che pochi mesi dopo la CGIL scelse, in seguito a una discussione mol­to impegnativa, di promuovere i referendum sul lavoro, parlando a tutto il paese e non solo ai lavoratori. Detto questo, se devo fare una riflessione autocritica sulla coalizione sociale – che pure è stata una decisione collettiva della FIOM – vorrei dire che quando si vuole scalare l’Everest non si parte con le scarpe da ginnastica. Si devono avere buoni scarponi, si deve pensare un po’ di più, bisogna organiz­zarsi e attrezzarsi, sapendo che in certi momenti ci vogliono anche le bombole di ossigeno.

R. G. Insomma, con l’attrezzatura giusta, l’Everest lo si può provare a scalare.

M. L. Quando parli con le persone, normalmente, con te discutono di pensioni, dei migranti, dell’evasione fiscale e della corruzione, o del figlio che deve andare all’estero perché non trova lavoro. Se si dimostra che attraverso la partecipazione c’è la possibilità di dare una risposta politica a quei problemi – ovvero se la politica torna a essere un progetto che offre soluzioni concrete – le cose possono cambiare. Un sindacato come la CGIL, o una sinistra che vuole essere tale, deve avere idee forti, su cui è in grado di discutere senza paura. Ci voglio­no anche la capacità e il coraggio di andare controcorrente.

 


Foto: Marco Monetti