Denaitbifor

Di Alessio Viola Giovedì 26 Ottobre 2017 16:04 Stampa

 

C’erano quelle luci da discoteca che lo guardavano nel buio. Di fron­te a lui che se ne stava dietro i vetri di un balcone dell’ospedale che dava sul nulla, verso l’aeroporto. Linee colorate e spezzate, rosse verdi azzurre, acide, sembrava un supermercato perso nella notte. Sempre meglio dello spettacolo dalla finestra interna alla sua stanza, pen­sava: il buio pesto spezzato dalle mille luci della zona industriale e da quelle smorte delle vie del quartiere San Paolo, periferia di Bari. Paesaggio alla Blade Runner, fumi bianchi in una notte di mezzo in­verno, poteva seguire qualche camion che passava tra quei capannoni che indovinava senza vederli. Ci aveva passato tre anni dentro una di quelle fabbriche, il tempo necessario per lavorare e respirare amianto a pieni polmoni. Era stato tanto tempo prima, quasi quarant’anni. «Il periodo classico d’incubazione» gli aveva detto il medico dopo la biopsia. «È maligno», aveva aggiunto senza inflessioni di voce né emozione. Ora era il momento di togliere via la bestia, dopo mesi di chemio e analisi e controlli e tutto un inferno di schifo.

Meglio non guardare da quella parte, si fottessero i capannoni e le tonnellate di morte volatile che ancora portavano nella pancia. Lo sguardo passò al letto accanto al suo. Da qualche ora era arrivato un nuovo inquilino: voce da fumatore bruciato tosse idem rantoli pure catarro espettorato senza ritegno anche. «Due pacchetti al giorno», aveva risposto alla domanda se avesse mai fumato. Se di mestiere fai il contrabbandiere e non fumi sei come un barista che non beve caffè, era il concetto che in qualche modo gli aveva esposto Franco Lacalamita, ceppista dichiarato e orgoglioso. 65 anni e ne dimostrava 80. Gli abitanti del Cep, il quartiere di Bari in cui avevano piazza­to il grande ospedale per dare il segno che le periferie non erano emarginate, vanno orgogliosi della loro identità. Il suo cancro era dei peggiori, allo stadio terminale. Ne avevano parlato da letto a letto, entrambi sarebbero entrati in sala operatoria di lì a due giorni. Li attendeva il giorno dopo un digiuno assoluto, prima del mattino dei bisturi.

«Digiuni? Nah! Non esiste proprio!». Il tono di Franco era quello del vecchio capo di paranza del tempo degli sbarchi quando comandava lo scarico dei cartoni di sigarette arrivati dal Mon­tenegro con la ritmica e le grida di un centurione su una galera romana.

L’uomo lo guardava con aria interrogativa.

«Senti a me, Pierino come ti metti, mò stasera ce ne usciamo e ci andiamo a mangiare gli invol­tini, che quelli sono la morte loro prima del digiuno». L’uomo che si era fatto tre anni di amianto, Piero Martiradonna da Carrassi, lo guardò senza ribattere, non c’erano obiezioni possibili, era un invito che non poteva rifiutare.

«Ma la caposala…?».

«Sta parlata. Appartiene». Davvero non c’era altro da dire.

Alle sette di sera, a febbraio è praticamente notte. Scesero le scale dopo un saluto complice alla caposala. Nel parcheggio buio pesto, il posteggiatore abusivo aspettava gli ultimi parenti che uscivano dalle visite, salutò con deferenza Franco e il suo amico. Nessuna guardia­nia, si poteva entrare e uscire liberamente. In macchina fecero poche centinaia di metri, si fermarono davanti a un basso. Un garage per la precisione. Saracinesca alzata, sedie di plastica sul marciapiedi ac­coglievano tre persone attaccate alle loro bottiglie di birra come una guardia del milite ignoto alla sua arma di ordinanza. Dall’interno ar­ rivava il profumo inconfondibile di carne alla brace. Saluti abbracci sfottò all’operando.

«Ancora sbagliano a tagliare e ti prendono l’uccello!» fu l’augurio di buona fortuna per il prossimo intervento. Il compagno di stanza fu presentato come un amico del cuore. Fratelli di sangue, praticamen­te. Olive, provolone piccante, qualcuno fece notare che purtroppo non avevano trovato cozze buone. Gli involtini di budella di agnello ripieni di fegato e polmone si esaltano, alla brace. Se accompagnati da birra ghiacciata poi raggiungono il sublime. Il vecchio capo barca fece una strage, non si fanno prigionieri in certi casi. Il suo compa­gno ne assaggiò uno, chiese acqua e raccolse sguardi che nascondeva­no il disprezzo solo per rispetto al vecchio. Che sembrava avere fretta di chiudere la cena. Ringraziarono gli amici, uscirono. La macchina aveva un tanfo di tabacco da voltastomaco. Finestrini aperti.

«Mò ti porto dalla nigeriana» disse l’uomo dal cancro ai polmoni allo stadio terminale con la sigaretta fra le labbra. C’era il tono del padrone in quella voce. La nigeriana era una sua schiava personale, si premurò di informare il suo giovane compagno.

«Pure tu 65? Madò, sembra che ne tieni dieci di meno!» commentò la risposta su quale età avesse il ragazzo.

Le aveva dato un buon lavoro a Farah: la puttana. E una casa dove lavorava, e in più era la sua favorita. Una sistemazione “alla grande” sottolineò il vecchio soddisfatto. In effetti, era bellissima. Lo aspettava. Alta sensuale e senza le curve clamorose di tante sue sorelle di tragedia. Per galanteria Franco propose all’amico di assag­giare. Non se ne parlava. Non è che era razzi­sta per caso? Ma neanche a dirlo! No è che la chemio dei mesi prima lo aveva indebolito assai, spiegò con qualche timore il nuovo amico, per questo preferiva passare. Occorreva fugare ogni sospetto di ricchionismo, ci mancherebbe.

«Vabbù, vengo subito, aspettimi» sorrise compli­ce Franco prima di consumare il suo amore da padrone. In effetti fu veloce. Non è che avessero tanto tempo. Chissà la felicità della ragazza, pensò il nuovo amico. Il vecchio risalì in macchina, sigaretta sempre accesa, si avviarono per altre strade semideserte. Nessuna conversazione. Poca gente qual­ che motorino spaccatimpani luci dietro le finestre, nessun negozio. Qualche anziano alla fermata del bus aspettava rassegnato.

«Mò andiamo all’aeroporto. Ho voglia di sparare. Mi rilassa assai». Stavolta il giovane non riuscì a nascondere un moto di agitazione.

«Cioè in che senso?». La voce di Piero non riusciva a nascondere l’ansia. Franco non rispose, diresse la macchina verso l’aeroporto. Costeggiarono dapprima la mole enorme della caserma della polizia, poi quella altrettanto maestosa della guardia di finanza. Il quartiere ospitava centinaia di sbirri, sottolineò Franco. Tutti lì erano andati a stare, per controllare il territorio avevano detto.

«Sai a che cosa ci fanno leva?» chiese. Il ragazzo conosceva la risposta, ma non la disse.

Si avvicinarono a una rete alta e spessa, verso il lato nord delle piste. Si vedevano gli aerei fermi, la serata era bella fredda e pulita, le luci di un aereo che arrivava dal lato mare, ultimo volo for­se. Si fermarono davanti a una vecchia casa ab­bandonata. Dal buio sbucò un ragazzino, era su uno scooter, nascosto dietro al rudere, lo aspet­tava. Si avvicinò senza parlare, porse all’uomo un panno scuro, pesante. Lacalamita lo scafista tirò fuori una Beretta calibro nove come ci tenne a informare l’amico. La sua preferita. La stessa del­le guardie. C’erano lì vicino un paio di cartelli stradali. Già forati. Uno indicava un paese vici­no, Bitonto. L’altro segnalava una stradina che s’immetteva su quella comunale in cui si trovavano. Era uno dei tanti poligoni di tiro in cui si esercitavano i ragazzi dei clan baresi. Ci facevano le gare, vere e proprie selezioni di ammissione ai clan.

«Vuoi provare?» il vicino di stanza scosse la testa a dire no, temeva che un rifiuto esplicito potesse metterlo in cattiva luce, mica tutti i giorni capita di essere invitato a sparare. L’altro scosse le spalle, quasi desse per scontato il rifiuto.

Il rumore di una Beretta di notte al buio fa un casino d’inferno, Pierino che aveva respirato l’amianto provò a contarli, ma perse il filo. Il caricatore fu svuotato in pochi minuti. Lo scafista si avvicinò ai cartelli, controllò soddisfatto l’esito, fece cenno di no col capo al ragazzino che gli porgeva un altro caricatore. «Torniamo al quartiere ù frà» al suo compagno di stanza. «E tu tieni gli occhi aperti uagliò» al ragazzino cui aveva allungato una cinquan­ta euro per l’efficienza del servizio.

«Sei stanco? Vuoi rientrare» chiese con una punta di premura quasi da fratello maggiore accendendo un’altra sigaretta. Forse parlava a se stesso, il respiro si era fatto pesante, rumoroso, rantoli e fischi com­ponevano una sinfonia di fine corsa che metteva i brividi. Il lamento di coltelli spuntati passati su una lavagna sporca.

«Come vuoi, un poco mi sento stanco, la verità». Il grande lo guardò con un sorriso furbo, quasi cattivo. Diresse verso la zona dove un cartello indicava anche una caserma dei carabinieri. Una palazzina vicina al vecchio mercato. Porta scassata citofo­no bruciato, luci dietro le tapparelle abbassate al primo piano. Fermarono l’auto, scesero, il con­trabbandiere si diresse verso un cancello, Piero il giovane lo seguì. Entrarono in un cortile che recintava uno spazio di desolazione. Copertoni in un angolo sedie rotte monnezza. Dal buio una faccia da walking dead si avvicinò.

«Uè Franchì. Non stavi all’ospedale?».

«Fatti i cazzi tuoi. Vedi che mi dai una cosa buo­na, e vedi che ti muovi» fu la risposta. La cortesia praticamente pensò Piero che cercava di umet­tarsi le labbra improvvisamente secche oltre ogni limite. Il ragazzo che sembrava morto passò una bustina di stagnola, fece cenno di entrare. Accanto al portone una stanzetta sul cortile. Un neon, un tavolino di formica, un paio di sedie. Sul tavolo un vas­soio lucido argentato, tipo di quelli delle zie quando offrono il caffè la domenica pomeriggio. Il vecchio preparò veloce e sicuro quattro piste, arrotolò una cinquanta bella stretta con cui tirò due strisce in successione respirando forte. Silenzio. La tosse che ne seguì fu uno schifo di saliva muchi schifezze varie che volavano nell’aria. Nessuno si mosse.

«Mè fatti due tiri» rivolto al ragazzo dell’amianto.

«No grazie, no» la gola secca gli impediva di motivare al meglio la rinuncia. Il pusher e il vecchio si guardarono, poi lo commiserarono con lo sguar­do. Il vecchio senza parlare si fece un’altra pista, l’ultima la lasciò come mancia al cadavere. Solito tsunami di tosse umida e ripiena di ogni cosa. «Almeno stanotte mi guardo la televisione fino a tardi, che quella mi fa addormentare sempre» commentò soddisfatto il capo paranza. Rivolse lo sguardo al ragazzo.

«E comunque tu un poco ricchione mi sa che sei… ahahah» la bat­tuta gli era sembrata la conclusione degna della serata. Piero annuì, certo, chi di noi non lo è? Sembrò dire al vecchio. Tutto, pur di ac­contentarlo e rientrare in ospedale.

Era quasi mezzanotte. Nessuna vigilanza. Corridoi deserti. Salirono al quarto, scritte negli ascensori e sui muri accompagnavano disegni zozzi e dediche d’amore. Bussarono alla porta tagliafuoco chiusa. La caposala arrivò subito.

«Appost?».

«Appost».

Esauriti i convenevoli rientrarono nella stanza 7. Pierino crollò a dor­mire neanche il tempo di stendersi. Franco il vecchio uomo di paran­za resistette, guardò la TV, tossì, andò al cesso rumorosamente, poi rutti, e ancora rumori, e un respiro che si faceva sempre più aspro. Prese a lamentarsi forte per i dolori. Verso l’alba gli diedero una cosa per sedarlo e farlo dormire.

Il giorno di digiuno preoperatorio nessuno parlò, il vecchio dormiva a tratti, non guardò mai il suo nuovo amico, ogni tanto girava lo sguardo verso la finestra e il quartiere che non aveva mai lasciato in tutta la sua vita, lo aveva detto quando si erano presentati.

Certi giorni corrono velocissimi se non hai niente da fare, neanche mangiare o bere.

Il mattino dopo furono rasati in ogni dove, si spogliarono, indossaro­no autoreggenti bianche strettissime per controllare la fluidità della circolazione, camici leggerissimi di carta verdi cuffiette per i capelli. Il vecchio riemerse dal silenzio guardandosi e guardando il vicino.

«Sembriamo due zoccole così». L’altro sorrise. Li misero su due barel­le che si mossero quasi contemporaneamente.

«Facciamo la corsa» rise il vecchio, poi tossì fin dentro l’ascensore, aspettando il suo turno. Il ragazzo ne ascoltava i tuoni mentre scen­deva al pianoterra delle sale chirurgiche. Poi toccò a lui.

«Chissà domani», pensò.