Uno Stato sociale che tuteli i giovani

Di Lorenza Antonucci Giovedì 20 Marzo 2014 15:23 Stampa

Il dibattito sulla riforma del welfare per i giovani affronta la questione in chiave di lotta intergenerazionale o come contrapposizione tra i giovani, outsiders rispetto al sistema di welfare, e gli insiders ipertutelati. In esso manca completamente una visione riformatrice di ispirazione socialdemocratica incentrata sulla lotta ai problemi principali che toccano le giovani generazioni: precariato, diseguaglianza e sottoccupazione. Per contrastare questi fenomeni si rivelerebbero utili interventi che agiscano sulla distribuzione delle risorse prima dell’ingresso nel mondo del lavoro e che favoriscano la “defamilizzazione” e la “decommodificazione” della transizione giovanile.

A partire dagli anni Novanta si è affermata in Italia una corrente riformi­sta volta alla costruzione di uno Stato sociale sostenibile. Le idee per la riforma del welfare italiano sono state spesso di stampo liberale: ne “Le trappole del welfare” Maurizio Ferrera lamentava la cristallizzazione delle assicurazioni sociali obbligatorie pubbliche in Italia, prospettando una riforma dello Stato sociale volta alla ridefinizione dei rischi e dei bisogni “meritevoli”.1 La divisione tra bisogni meritevoli e non meritevoli non è altro che la trasposizione in chiave nostrana del welfare selettivo che caratterizza lo Stato sociale nei paesi di impianto liberista come la Gran Bretagna, basato su una contrapposizione deserving/underserving. Un al­tro innesto liberale nel nostro sistema di welfare continentale-mediterra­neo sono state le riforme del lavoro negli anni Novanta e Duemila volte ad aumentare la flessibilità e la competitività del sistema, che segnalano il passaggio da un sistema di welfare keynesiano a uno schumpeteriano orientato all’innovazione e all’offerta di personale qualificato e flessibile.

Più recentemente, il dibattito sulle riforme è stato accompagnato dalla retorica giovanilista di uno Stato sociale nemico dei giovani adulti, una categoria soggetta a nuovi rischi. Per i socialdemocratici si tratta di un terreno scivoloso, dato che le politiche di austerità sono state promos­se anche utilizzando l’argomento “giovanilista”: nell’intervista al “Wall Street Journal” del febbraio 2012 il presidente della BCE Mario Draghi sostiene l’idea di un’austerità che sia portatrice di riforme necessarie per limitare le problematiche sociali vissute dai giovani. Il corollario di que­sta tesi è che bisogna alleggerire il peso del welfare state così da ridurre anche il debito che i giovani dovranno pagare in futuro. Il tema del welfare per i giovani viene trattato principalmente in chiave di lotta intergenerazionale: i giovani con­tro i vecchi che hanno sperperato le risorse pubbli­che tramite sistemi di welfare enormi e inefficienti. Ancora, viene sottolineata la dicotomia insiders/out­siders, ossia quella che vede i giovani (outsiders) op­porsi alla categoria degli insiders privilegiati. Questa visione, eminentemente liberale, non solo ignora le implicazioni di lungo termine dell’austerità sulla generazione attuale di giovani (istruzione, pensioni e sanità), ma dimentica anche le complesse dina­miche intergenerazionali presenti in un sistema di welfare mediterraneo come quello italiano, in cui le relazioni familiari sono parte fondante dello Stato sociale. Il dibattito non contiene una visione riformatrice di ispirazione socialdemocratica del welfare per i giovani e non ha identifi­cato, in ultima istanza, l’obiettivo del welfare per i giovani, che dovrebbe concentrarsi su precarietà, diseguaglianza e sottoccupazione.

DOVE E COSA RIFORMARE

La prima dinamica centrale nella comprensione del welfare giovanile concerne la nota dimensione della precarietà. Da un lato, la precarie­tà riguarda la frammentazione della biografia dei giovani, che oggi af­frontano transizioni nel mercato del lavoro destrutturate e non lineari. Le transizioni giovanili contemporanee sono definite “a yo-yo”, perché implicano passaggi in avanti e indietro rispetto all’istruzione, alla situa­zione abitativa e al mercato del lavoro. Dall’altro, come sostiene Guy Standing,2 i giovani costituiscono il nucleo del “precariato” mondiale, ossia una categoria sociale sottoposta alle conseguenze più deleterie del­la deregolamentazione del mercato del lavoro. L’idea del passaggio alla “società del rischio” come evoluzione naturale della tarda modernità è stata soppiantata da un’analisi alternativa che vuole la società del rischio conseguenza non solo di processi esogeni, come la globalizzazione, ma anche di dinamiche endogene, come l’effetto stesso delle riforme del welfare. Le riforme del mercato del lavoro attuate tra la fine degli anni Novanta e l’inizio dei Duemila, volte a implementare politiche di attiva­zione e a rendere il lavoro flessibile con l’utilizzo di contratti atipici, sono state parte integrante del passaggio italiano verso la società del rischio. Inoltre, la divisione tra giovani outsiders e anziani insiders non cattura il vero effetto delle riforme: come mostrato dagli studi di Matteo Jes­soula e altri,3 le politiche hanno creato una nuova categoria, quella dei mid-siders, ossia lavoratori atipici che, pur essendo dipendenti, sono a tutti gli effetti lavoratori indipendenti per quanto riguarda la protezione sociale che ricevono. In altre parole, le riforme del mercato del lavoro che cadono sotto l’ombrello della flexicurity sono state orientate verso l’a­spetto flexi, tralasciando l’elemento secure. Il sistema italiano deve ancora controbilanciare questa dinamica attraverso la formazione di un sistema di protezione sociale “integrato” per i giovani: i dati Eurostat indica­no che i programmi di protezione sociale per “abitazione ed esclusione sociale” in Italia sono dello 0,1% del PIL rispetto a una media EU-15 dello 0,9% (dati relativi al 2006). Le riforme necessarie a controbilancia­re le conseguenze della flessibilità riguardano la creazione di un sistema di protezione che copra le diverse politiche coinvolte nella transizione all’età adulta, come sicurezza sociale, politiche per la casa, politiche del lavoro e istruzione.

Il secondo elemento chiave per comprendere le caratteristiche della co­siddetta “generazione perduta” è la diseguaglianza. Questa generazione non è solo la prima dal dopoguerra che vivrà in condizioni peggiori ri­spetto ai propri genitori, ma anche quella caratterizzata dal più alto livel­lo di stratificazione sociale dal dopoguerra. L’idea che in una società del rischio e individualizzata la diseguaglianza non sia importante è ritenuta nelle scienze sociali una “fallacia analitica”: proprio per la diffusione ca­pillare del rischio sociale, adesso più che mai la distribuzione diseguale di strumenti per proteggersi dai rischi genera stratificazione nel tessuto sociale.

Quando si parla di giovani, si ignora la loro specifica posizione rispetto alle tre fonti di welfare: la famiglia, il mercato del lavoro e lo Stato. Nel­le politiche sociali i giovani sono considerati per definizione individui “semidipendenti”, ossia non totalmente indipendenti, come gli adulti, ma nemmeno totalmente dipendenti, come i bambini. Il welfare state può intervenire in vari modi per modificare le caratteristiche di questa situazione di semidipendenza, ad esempio rendendo i giovani autonomi dalla famiglia tramite la presenza di sussidi pubblici che favoriscano la transizione abitativa, come avviene nel Nord Europa. In Italia, come è noto, la semidipendenza giovanile si basa quasi esclusivamente sull’uso di risorse familiari, con un limitato utilizzo della partecipazione lavorati­va (come accade nei paesi anglosassoni) e un ruolo irrisorio delle risorse dallo Stato (come accade nei paesi del Nord).

L’abuso di risorse familiari per navigare nella transizione all’età adulta non solo rafforza il “familismo”, ma aumenta la trasmissione diretta della diseguaglianza da una generazione all’altra. Consi­derando che, secondo i dati OCSE,4 l’Italia risulta il paese europeo più diseguale d’Europa dopo Gran Bretagna e Portogallo, il taglio di risorse nello Stato sociale, e quindi l’ulteriore dipendenza dalle risorse familiari da parte dei giovani, non fa che acuire la trasmissione delle preesistenti diseguaglianze so­ciali. La retorica dell’innovazione sociale si scon­tra quindi con la realtà di una società fortemente immobilizzata e non dinamica. In ultima istanza, i giovani possono navigare nel rischio in maniera diversa, alcuni utilizzando il capitale di conoscenze formali e informali della famiglia (mutuando il concetto bourdesiano di “capitale cultura­le”), altri utilizzando risorse familiari (reddito e capitale) come risorse di welfare per coprire la mancanza di altre risorse provenienti dal mercato del lavoro (dato il livello di disoccupazione giovanile) e dallo Stato (con­siderando i tagli allo Stato sociale).

Le fonti di welfare rappresentano gli strumenti centrali per gestire il ri­schio e, come sottolineato da Jacob Hacker, l’evoluzione del welfare state negli ultimi anni è andata verso una privatizzazione del rischio anziché una collettivizzazione dello stesso attraverso l’uso di risorse pubbliche. Al contrario, le riforme per la creazione di un sistema di welfare per i giova­ni dovrebbero intervenire sulle crescenti diseguaglianze, attuando quelle che Hacker chiama “politiche di pre-distribuzione”,5 ossia agendo sulla distribuzione delle risorse prima dell’entrata nel mercato del lavoro. Un esempio di tali politiche pre-distributive sono i sistemi di supporto agli studenti tramite borse di studio e benefici che, al contrario, negli ultimi anni in Italia sono diventati sempre più selettivi e residuali, trasferendo rischi aggiuntivi sulle famiglie.6

L’analisi dell’impatto della diseguaglianza sui giovani non può che essere dinamica e tenere conto dei cambiamenti avvenuti nella nuova moder­nità, come l’accesso di massa all’istruzione e il fenomeno della sottoc­cupazione. Distinguendo la diseguaglianza di background (relativa alla posizione occupazionale dei genitori e al loro livello di istruzione) dalla diseguaglianza della destinazione, risulta evidente come l’essere giova­ni in Italia non sia un’esperienza di tipo uniforme ma vi siano diverse tipologie di transizione giovanile: a) transizioni zero o non transizioni: riguardano i giovani esclusi dal mercato del lavoro e dall’istruzione e comprendono i cosiddetti “NEETs” (Not in Employment, Education or Training); b) transizioni corte, che interessano i giovani che entrano nel mercato del lavoro dopo l’istruzione secondaria (con background bassi o medio-bassi); c) transizioni aspirazionali, proprie dei giovani con background socioeconomici bassi o medio-bassi che sono entrati nell’i­struzione universitaria con l’accesso di massa; d) transizioni classiche che sono proprie dei giovani con background medi (spesso con genitori con background universitario) la cui entrata nel mondo universitario rappresenta una scelta naturale e in cui i genitori riescono a supportar­li nel periodo universitario, ma non riescono a sostenere la precarietà della transizione lavorativa; e) transizioni protette, ossia transizioni da background socioeconomici medio-alti o alti (sono protette dai genitori sia nell’eventuale esperienza universitaria che nel mercato del lavoro).

Sicuramente l’elemento nuovo che emerge dai recenti studi sui giova­ni7 riguarda le difficoltà crescenti che incontrano quelli provenienti da diversi background socioeconomici, non solo nel caso delle transizioni aspirazionali ma anche nelle transizioni classiche. Tuttavia, vi sono ele­menti di rafforzamento del ruolo della famiglia, che deve rispondere al protrarsi delle transizioni a causa dell’allungamento del percorso forma­tivo. I giovani stessi formano, se considerati indipendentemente dai ge­nitori, una nuova classe sociale istruita ma in posizioni sotto-qualificate.8

Tali cambiamenti hanno un impatto sul modello di welfare: da un welfare familista per i giovani, in cui la famiglia viene utilizzata per ridurre il li­vello di “commodificazione”, ossia per creare una sorta di indipendenza temporanea dal mercato del lavoro, l’Italia è passata a un welfare famili­sta-capitalistico, in cui le risorse familiari vengono “redirette” nel mercato del lavoro per permettere ai loro giovani di competere con i propri omolo­ghi laureati, in una corsa pseudo-meritocratica alla qualificazione più alta. È così che le risorse familia­ri vengono “mobilizzate” per evitare la spirale della sottoccupazione, per finanziare lavori o esperienze di formazione sottopagati e non pagati (stage gra­tuiti, master specialistici o corsi di specializzazione), creando una com­petizione con i propri omologhi che non si possono permettere ulteriori investimenti in formazione.

Tali meccanismi di trasmissione automatica possono essere scardinati tramite la costruzione di strumenti di welfare ad hoc orientati alla “de­familizzazione” e alla “decommodificazione” della transizione giovanile, come la creazione di una forma di protezione sociale a breve termine che sostenga i giovani nell’intervallo tra istruzione e mercato del lavoro (ad esempio i fondi di transizione). Tuttavia, lo scollamento tra il livello di occupazione e la qualificazione dei laureati deve essere inserito in una riflessione più ampia sulla riforma delle politiche del lavoro e della poli­tica economica volta a “riattivare la domanda”, ossia alternativa all’orien­tamento attuale, che vuole l’educazione come meccanismo unico per combattere la disoccupazione.

In definitiva, le politiche giovanili non possono essere costruite come oasi di policies per una categoria a parte, ma devono essere integrate nella ridefinizione dello Stato sociale, controbilanciando una privatizzazione del rischio del welfare italiano fondata sull’intervento salvifico delle fa­miglie nelle transizioni all’età adulta.

 


 

[1] M. Ferrera, Le trappole del welfare. Uno Stato sociale sostenibile per l’Europa del XXI secolo, il Mulino, Bologna 1998.

[2] G. Standing, The Precariat. The New Dangerous Class, Bloomsbury, Londra 2011.

[3] M. Jessoula, P. R. Graziano, I. Madama, “Selective Flexicurity” in Segmented Labour Markets: The Case of Italian “Mid-Siders”, in “Journal of Social Policy”, 4/2010, pp. 561-83.

[4] OECD, Divided We Stand: Why Inequality Keeps Rising. Nota sul paese: Italia, Parigi, dicembre 2011, disponibile su www.oecd.org/italy/49177743.pdf

[5] Si veda J. Hacker, The Institutional Foundations of Middle-class Democracy, 6 maggio 2011, disponibile su

www.policy-network.net/pno_detail.aspx?ID=3998&title=The+ institutional+foundations+of+middle-class+democracy

[6] L. Antonucci, University Students in Transition to Adult Age. Comparing Italy and England, in “La rivista delle politiche sociali”, 3/2011, pp. 271-89.

[7] L. Antonucci, M. Hamilton, S. Roberts, Young People and Social Policy in Europe: Dealing with Risk, Inequality and Precarity in Times of Crisis, Palgrave, Basingstoke 2014.

[8] M. Savage, F. Devine, N. Cunningham, M. Taylor, Y. Li, J. Hjellbrekke, B. Le Roux, S. Friedman, A. Miles, A New Model of Social Class? Findings from the BBC’s Great British Class Survey Experiment, in “Sociology”, 2/2013, pp. 219-50.

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