Il delitto di Agora

Written by Antonio Pennacchi Monday, 14 January 2019 12:02 Print

Io questo libro non lo volevo fare. Non avevo nessunissima intenzio­ne di impicciarmi in questa storia. La prima volta che me lo hanno proposto – avevano appena arrestato Giacinto ed erano tutti super­sicuri che fosse proprio lui il frocio assassino – ho detto: «No. Non mi interessa».

La storia non m’era piaciuta. Anzi. Mi aveva proprio disturbato. Me­glio ancora: «sturbato», come dicono sui Lepini. Che non è più un semplice atteggiamento di distacco e disaffezione psicologica, ma è già uno stato fisico: con un senso di contrazione dello stomaco e poi di nausea. E che il fatto sia avvenuto a due passi da casa mia me l’ha aumentato. Fosse successo in Valpadana forse m’avrebbe interessato di più. A casa mia no. M’ha dato fastidio e basta. Anche perché la prima volta che l’ho sentito al telegiornale – e non mi ricordo più se è stato la notte stessa o il giorno dopo; il che non è, come si vedrà più avanti, un particolare del tutto ininfluente – ho pensato subito al padre: «E questo qui», mi sono detto, «si mette già in agitazione alle sette e mezzo di sera?». E poi troppe coltellate, oltre al fatto che li ha scoperti lui. Ma quando ne ho parlato a Sommacampagna ha fatto un sorrisino furbo e ha detto: «Lei ha svolto un semplicissimo processo di autoidentificazione».

«Mi ci voleva lo psicanalista per saperlo», gli ho risposto. E ho rim­pianto, dentro di me, tutti i soldi che gli porto. Ma questo non l’ho detto. È evidente che in quel padre mi ci sono rivisto io. Come, credo, tutti i padri di figlia femmina. Che esista l’Edipo oramai lo sanno tutti. Non ci voleva mica Sommacampagna. Sta pure sugli Albi dell’Intrepido. Con questo non voglio dire che tutti i padri ab­biano intenzione di uccidere le figlie. Anche se certe volte – quando ti trattano come un deficiente o ti lanciano sguardi pieni d’odio: «Non capisci un cazzo» – la voglia ti verrebbe pure. Ma la forza della civilizzazione è tale che uno riesce a mandare giù, e senza far vedere molto, anche rospi peggiori. Non è però sempre detto neanche que­sto – parlo della forza della civilizzazione – poiché Althusser è stato uno dei più grandi filosofi del Novecento eppure ha spaccato ugual­mente la testa alla moglie con l’accetta.

Questa storia, quindi, m’ha smosso dentro. Ma smosso in modo ne­gativo: un moto di repulsione. Figuriamoci se mi mettevo a scriverla. «Non faccio le storie mie», ho detto, «e mi metto a fare questa qua?».

C’era anche un motivo estrinseco, oserei dire strutturale: «Non è il mio mestiere», ho spiegato. «Io faccio normalmente romanzetti stori­ci, mischiati con un po’ d’amore e d’azione». So fare solo quello. Non mi sono mai occupato di gialli. Non so proprio come si facciano. Ne ho letti in tutto due o tre. Si fosse trattato di fantascienza, pure pure. Quella ne ho letta tanta, da ragazzo. Sugli Urania. Ma gialli niente. Non mi sono mai piaciuti. Ho un fratello che è uno specialista. Ma io no. Anche film gialli ne ho visti pochi. Mi mettono ansia. E non capisco mai l’intreccio e l’assassino. Figuriamoci a scriverli. «Ma è successo dalle tue parti», hanno insistito. E che c’entra? Tutti i giorni, dalle mie parti, partorisce qualcuna o a qualcun altro scoppia l’ap­pendicite. Ma a nessuno viene in mente di chiamare me per operarli: a ognuno il suo mestiere. E il giallista non è il mio.

In effetti era già qualche anno che m’ero stufato di occuparmi anche di storia. A un certo punto, all’improvviso, m’era venuto – come a Pirrone d’Elide – il sospetto che sia praticamente impossibile rico­struire per davvero come sono andati i fatti nella realtà. Ognuno la racconta come gli pare. Tacito dice che Nerone è un porco. E tutti a credergli. Per migliaia d’anni. Ma vai a vedere per davvero la storia come è andata. Ci mancavano solo la cronaca nera e i gialli giudiziari.

Nei libri gialli sono tutti sicuri: «Questo è il buono e quello è il cattivo. I fatti sono andati così e così. Il testimone è sacro: quello che dice lui è la verità. A meno che non sia un testimone falso: ma in questo caso alla fine saranno affari suoi. Il bianco è bianco e il nero è nero. Stop».

Qui, il primo testimone falso sono io. Dicevo, all’inizio, che non ricordo bene quand’è che l’ho sentito al telegiornale: se è stato la notte stessa – a mezzanotte o all’una, o all’una e mezzo – o se è stato il giorno dopo, a ora di pranzo. Ma sono quasi sicuro che è stato nella notte, mentre zigzagavo tra i programmi sporti­vi. Deve essere stato in una pausa di GOAL DI NOTTE. Sarei pronto a giurarci. Sarei pronto a metterci una mano sul fuoco. Dico davvero, per­ché mi pare proprio d’essere ancora lì, di notte, sulla poltrona, mentre tutti gli altri sono andati a letto.

E farei male: resterei monco più di Muzio Sce­vola. Poiché non c’è niente di sicuro a questo mondo. Purtroppo. E soprattutto qui. Anzi, una ricostruzione attenta porterebbe assolutamente ad escludere che possano averlo dato nella notte. Il fattaccio s’è svelato alle 23.25. Che è l’unico orario certo di tutta la storia. Ed è l’unico orario certo – a meno che non abbiano scritto fesserie pure i carabinieri – perché sta scritto nei verbali del “112 europeo”. Tutti gli altri sono ballerini. Non ce ne è uno che regga: le 23.25 sono l’unica certezza. L’appuntato Luigi Fois, in servizio presso la centrale operativa del comando provinciale dei carabinieri di Roma, registra la chiamata da Agora di Proietti Car­mine, che si qualifica come maresciallo dei carabinieri in congedo: «Sti figli di puttana mi hanno ammazzato mia figlia... ti possino am­mazzarti l’amico suo è da oggi che non torna l’ha ammazzata a casa... tutti e due in camera stanno... l’ha ammazzata e poi si è ammazzato... sto figlio di puttana che si è ucciso... sto bastardo disgraziato, figlio di mignotta, glielo avevo detto di lasciarlo... ha fatto fuori mia figlia... ti possa pigliare un colpo a te e la razza tua, me lo immaginavo che fosse successo».

E se il 112 è stato allertato alle 23.25, la stampa non può averlo saputo prima dell’una. Non c’era ancora Internet e i telegiornali a quell’ora erano chiusi. È matematico: non posso averlo sentito che il giorno dopo. È escluso che sia stata quella notte. Il mio primo ricor­do di questa storia, quindi, è un ricordo fallace. La mia sarebbe una testimonianza del cavolo. Sarei capace, come dicono ad Agora, «de fa’ ì ’n galera le pétre» (di far andare in galera le pietre).

La cosa strana, però, è che c’è anche un altro – e non è un semplice testimone, ma un indagato – che dice di averlo sentito in televisione la sera stessa. Ma alle undici però, su Telelazio – mezz’ora prima che i cadaveri venissero scoperti – ma è un indagato marginale, non è mai stato seriamente nel novero dei sospettati. A sentire il paese intero, non è uno che si possa definire sveglio e tutte le sue dichiarazioni, quindi, non fanno testo. Esattamente come le mie. Sia per il paese che per tutti gli inquirenti. A meno che non servano, di volta in volta, a reggere qualche tesi. Ma solo quelle a ca­rico, naturalmente. Quelle a scarico continuano a non fare testo.

Henri Pirenne – uno storico – ammoniva sempre i suoi allievi, soprattutto i più entusiasti, a non fidarsi troppo di nessuna testimonianza. Anche di quelle oculari e che sembrano assolutamen­te oneste e veritiere: al di sopra di ogni minimo sospetto. E ogni anno, alla fine del corso, mentre stavano facendo un seminario sulla metodologia della ricerca storica faceva entrare all’improvviso un ussaro in alta uniforme. Li pigliava di sorpresa. Lo faceva girare per l’aula e lo mandava fuori. Poi diceva agli studenti: «Adesso ognuno di voi descriva com’era vestito», e dieci minuti dopo passava a raccogliere i fogli. Su una trentina di deposizioni non ce ne erano mai due che collimassero: chi diceva che avesse un nastrino sopra il petto, chi quattro; chi lo aveva visto col cappello in testa e chi sotto il braccio; chi diceva che fosse incazzato e coi baffi, e chi allegro e senza un pelo in faccia.

E così è – lo sanno tutti – per gli incidenti stradali. Non ci sono mai due persone che lo abbiano visto allo stesso modo. Tutti in modo differente. Perfino l’omicidio Calabresi: la macchina del delitto era beige, secondo tutti i testimoni, ma Leonardo Marino – reo confesso di partecipazione al delitto ed autista della macchina stessa – afferma che era blu. E anche un daltonico come me capisce che tra beige e blu c’è qualche differenza. Ma non c’è niente da fare. Lo diceva pure Bloch, un amico di Pirenne: «Non esiste buon testimone, né deposi­zione esatta in ogni parte. Anche quando dice il vero, al novanta per cento il testimone mente. Inconsciamente». Ed esistono, in psichia­tria, biblioteche intere sulla psicologia della testimonianza.

Come fai a ricostruire come è andata? E a ricostruirlo, soprattutto, in modo che il lettore ci creda? Dovresti fare solo un giallo, o un romanzo-verità di stampo giornalistico. Dove ti aggiusti tutte le cose come faceva Tacito. Ma non è proprio il mio mestiere. Io non sono capace. Per me Nerone è stato un santo.

Prima dei carabinieri arriva a via della Fortuna l’ambulanza. L’ha chiamata per telefono la madre di Loredana. Al centralino dell’o­spedale era stato detto «feriti». L’ambulanza arriva alle 23.50 di do­menica 25 febbraio 1996. Mezzanotte meno dieci. Gli infermieri sono agitati. Non trovano la strada. Non trovano la casa. Si fermano diverse volte. Suonano ai citofoni. Chiedono informazioni. Nessuno gli risponde. Tutti tappati dentro. Finalmente arrivano.

L’appartamento non sta precisamente su via della Fortuna, ma in uno spiazzo che ci si affaccia: un cortile, un calle, una piazzetta di duecento metri quadri. Ha lo stesso nome della via e deve essere – sa­rei pronto a giurarci – proprio la persistenza archeologica del vecchio tempio della Fortuna Primigenia: l’area sacra è rimasta inedificata e tutt’attorno, invece, la gente ci ha costruito. S’affacciano, su questo piazzaletto, sei o sette abitazioni.

Questa dea della Fortuna non era però esattamente quella della pub­blicità con Nancy Brilli, che ti baciava sulla bocca porgendoti il bi­glietto della lotteria di Capodanno. Così graziosa c’è diventata nella modernità, a partire dai romani che col passare del tempo – potrem­mo dire – hanno cominciato ad abbellirla, man mano che si civilizza­vano. Ed oggi appunto dà le Tris e i Grattaevinci. Per le prime genti italiche era la dea dell’Abbondanza, che stabiliva a suo capriccio la fecondità o meno dell’uomo e della natura. La fertilità. La buona e la cattiva sorte. Cose che, come tutti sanno, vanno sempre pagate a caro prezzo e quindi lei esigeva sacrifici in antico – sacrifici anche uma­ni – perché la comunità potesse prosperare. Sacrifici da immolarsi nei templi – come questo – a lei specificamente dedicati.

Al numero 37 c’è una scaletta d’accesso. Si entra in una camera di 3 metri per 5. In mezzo c’è un muretto basso che fa da divisorio, in fondo la cucina e il lavello. A sinistra, a fianco alla porta appena si entra, c’è una scaletta a chiocciola. Si sale su. Un’altra stanza pressap­poco uguale: appena si sbocca dalle scale, a destra, c’è un bagnetto. Di fronte, la camera da letto. Tutto qua.

Nel bagno trovano Emanuele Ferraro – detto da tutti “Manuele il na­poletano” – di anni 23. In camera da letto Loredana Proietti di anni 17. Lui con 60 coltellate. Lei con 124. Totale 184.

Agli atti sta scritto: «Nello specifico, il sanitario cer­tificò che entrambi i corpi delle vittime presentava­no evidenti segni di rigor mortis iniziali».

«L’attività accertativa delle tracce e degli altri effetti materiali del duplice omicidio si svolse, come enunciarono gli operanti nel verbale relati­vo, dopo che negli anzidetti locali avevano avuto accesso altre persone, precisamente: Sangiovanni Giacinto, Proietti Carmine e Michele, che per primi hanno rinvenuto i cadaveri; il m.llo Fracasso Battista, che, uni­tamente a personale del locale nosocomio, ha constatato il decesso dei giovani; nonché la sig.ra De Simone Fortunata, madre di Proietti Loredana. Il sopralluogo nella casa del delitto metteva in evidenza che in un fonografo collocato nel locale al piano terra, vi era inserita una cassetta magnetica, sulla quale era stata registrata un’intera festa. Vi erano voci di donne inframmezzate dal vociare di bambini. L’ap­parecchio fonografico era staccato dalla presa di corrente e quando i militari operanti introducevano la spina emergeva che l’apparecchio era al massimo volume, segno evidente che chi lo aveva staccato non aveva toccato i tasti, ma aveva disinserito la spina».

La notte stessa, alle tre meno dieci – ore 02.50 del 26 febbraio 1996 – nella stazione dei carabinieri di Agora viene interrogato Giacinto Sangiovanni. È un ragazzo bassino, sul metro e sessanta. Ha 28 anni, brevilineo, coi capelli biondi e lunghi che gli circondano la faccia. A caschetto. Come Nino D’Angelo quand’era ragazzo. Anzi, gliela coprono la faccia. E spesso con la mano se li sposta. Allora si vede la fronte sfuggente. E le ossa sopracciliari pronunciate.

Dice Giacinto: «Verso le ore 21.30 circa di ieri 25.02.96, sono uscito di casa facendo rientro alle ore 21.40 successive, recandomi presso il mio studio sito sotto l’abitazione di mia madre». Questo che chiama studio, in effetti, è un luogo separato dall’abitazione. È un locale a piano strada con una porta a vetri, quasi proprio la vetrina di un negozio. Fino a una trentina d’anni fa deve essere stata la stalletta del somaro, poi trasformata in cantina. Adesso è rimesso a posto. Appena dietro la vetrata c’è la scrivania, e poche altre cose. In fondo c’è una parete, con un passaggio chiuso da una tenda. Di là un altro semilocale, che dà proprio sulla roccia bianca del monte che declivia. E sulla roccia, a mezza altezza come un soppalco, c’è una specie di letto a una piazza e mezza. E delle sbarre, su cui Giacinto fa le flessio­ni. Sulla parete divisoria c’è un’altra porta da cui si accede al bagno con la doccia, la tazza e il lavabo. Senza finestra.

La casa della madre è al piano di sopra. Si entra ugualmente dalla strada: un’altra porta a vetri, a fianco alla vetrata più grossa dello stu­dio, con il citofono. Si accede alla scala, si sale e si va sopra.

Giacinto dice che è rimasto lì fino alle 22.30 – a studiare – poiché l’indomani lo dovevano interrogare sul circolo fetale, in pediatria: fa il secondo anno della scuola per infermieri, all’ospedale generale di Latina. E invece l’interrogazione gliela fanno i carabinieri.

Alle 22.30, quindi, è salito su, per andare a dormire. Ma ha saputo dalla madre che tra le 21.00 e le 21.30 erano passati a cercarlo il pa­dre e il fratello di Loredana, per sapere da lui dove stavano Emanuele e la ragazza. «Glio’ so’ visto proccupato», gli ha fatto la madre, «ca non ci riescéva da trova’ la fìa». Allora Giacinto ha chiamato subito Ema­nuele al cellulare, ma dava sempre occupato. Ha provato sull’utenza di casa: non rispondeva nessuno. Allora ha detto alla madre: «Li vado a cercare», ed è uscito.

È andato in piazza, al bar Giovannino, e ha chiesto al proprietario se li avesse visti. «No. In serata no». È andato sotto casa di Emanuele. Sul posto ha trovato il padre e il fratello di Loredana. E una scala di ferro poggiata al muro. Una scala di sei metri. In direzione di una finestra. E quei due stavano lì sotto: «Volevamo controllare se c’era qualcuno dentro». Il padre gli ha chiesto se avrebbero potuto essere con qualche altro amico. «Vado a vedere da Astolfo Muratori», ha risposto lui. E s’è avviato. Ma quando è arrivato là la madre gli ha detto che non c’era: era uscito col fratello e non era nemmeno rientrato per cena.

È tornato in via della Fortuna. Hanno parlottato e hanno deciso di controllare meglio. Lui è salito sulla scala e ha tentato di spiare dalla finestra. Le luci erano spente. Con la torcia elettrica che gli ha dato il padre si vedevano all’interno le giacche e i giubbotti. L’altra cosa che lo ha colpito è che era spenta anche la luce dell’acquario, che inve­ce Emanuele lasciava sempre accesa, anche di notte, quando andava a dormire. «A quel punto, insospettiti, il padre di Loredana ed io decidemmo di rompere una finestra ed entrare nell’interno».

Entra lui. Poi apre la porta d’ingresso, che non era chiusa a chiave, e fa strada agli altri due. Sul tavolo della cucina vede un foglio con frasi d’a­more e gli viene il sospetto – del resto già abbon­dantemente adombrato dal padre nei parlottii di sotto – «che abbiano compiuto un gesto insa­no». Sale di corsa al piano di sopra, «constatando che nel bagno riverso per terra vi era Emanue­le, mentre nella camera da letto riversa per terra vi era Loredana. Preciso che dietro di me c’era il fratello e subito dopo è salito anche il padre. Dopo di ciò il padre è ridisceso chiamando voi carabinieri. Al mo­mento del rinvenimento del cadavere io e il fratello ci siamo messi a gridare mentre il padre di Loredana proferiva le seguenti parole: sto bastardo l’ha ammazzata, sto bastardo l’ha ammazzata».

Gli inquirenti vogliono maggiori particolari sull’intero arco della giornata e sui suoi rapporti con le vittime. Giacinto dice di aver sen­tito l’ultima volta per telefono Emanuele intorno alle 13.00. C’era in ballo una cena, per la sera stessa, da tenersi a via della Fortuna a casa di Emanuele. Avrebbe dovuto esserci un certo Luigi di Cisterna, uno che lui non conosce e che non ha mai visto, ma che Emanuele gli voleva presentare. Lui però ha risposto che non sarebbe andato alla cena: aveva da studiare. Pare – almeno così avrebbe detto Emanuele nella telefonata delle 13.00 – che questo Luigi lo avesse insistente­mente cercato per tutta la mattinata.

Questo Luigi – aggiunge Giacinto – lo conosce bene Astolfo Muratori, che tre o quattro sere prima era stato a cena con loro, sempre a casa di Emanuele, e c’era anche un’amica di Luigi di nome Betty. «Preciso che sabato sera, verso le ore 21.30, Emanuele chiamava telefonicamente Luigi dicendogli che domenica sera a cena c’ero anch’io e da quanto ho potuto capire dalla conversazione, la mia presenza al Luigi lo distur­bava, mentre Emanuele lo assicurava dicendogli di non preoccuparsi che io ero un ragazzo tranquillo». A questa cena, di sicuro, dovevano esserci – oltre a Emanuele che era il padrone di casa – il Luigi cisternese e Astolfo Muratori. Così gli ha detto Emanuele. Sabato sera. E anche che c’era una somma in discussione di 160.000 lire, che Astolfo Mu­ratori avanzava da Emanuele per un guasto che gli aveva procurato alla macchina quando gliela aveva prestata.

Sempre sabato, ma nel pomeriggio, verso le 14.30, mentre insieme a Loredana stavano a sentire musica a via della Fortuna, Emanuele gli aveva raccontato che nella prima mattinata – era stato il suo ultimo giorno di lavoro con la Tappezzeria Mancini di Agora – era andato a montare delle tende in una villetta di Doganel­la «ed aveva asportato da questa abitazione una collana con crocifisso in oro ed un anello in oro con un brillantino».

La collana l’aveva rivenduta subito a Marcello, l’orefice che sta vicino casa sua, e ci aveva fatto 500.000 lire; mentre l’anello lo aveva regalato a Loredana che lo portava già al dito. Con quei soldi Emanuele diceva di voler pagare nel pome­riggio stesso l’affitto di casa, e andarsi poi a comprare un telefono cel­lulare a Cisterna, al Dream. «Io gli dissi che i soldi li aveva spesi male, visto che era rimasto senza lavoro ed egli si giustificava dicendomi che da lì a poco avrebbe ricevuto altri soldi senza specificare la fonte».

A dire di Emanuele, il padre di Loredana un paio di mesi prima gli aveva prestato due milioni – poiché era senza lavoro e doveva fare fronte a spese immediate – facendogli firmare una cambiale. Lui però non aveva ancora restituito nulla, anche perché il padre aveva detto di non preoccuparsi e di restituirli con comodo.

Gli aveva parlato anche del suo, di padre: quello naturale. All’inizio un paio d’anni prima, quando era appena arrivato ad Agora, gli aveva raccontato che i suoi genitori erano morti in un incidente stradale e lui era andato a vivere con sua zia, Rosa Ferraro, a Cisterna. Così aveva raccontato anche al prete, don Angelo. Solo in seguito aveva confessato di essere stato abbandonato dai genitori a sei anni, e di essere stato adottato da due coniugi di Cisterna, i Ferraro.

«Circa due mesi fa Emanuele mi presentava suo padre Di Spirito Vincenzo e mi disse che stava andando con lui a Napoli per tre o quattro giorni. Al ritorno da Napoli Emanuele mi riferiva che aveva una relazione con la convivente del padre naturale. Dopo circa una settimana mi disse di aver ricevuto una telefonata dal padre naturale che gli diceva di non farsi più vedere perché aveva in qualche modo intuito l’accaduto. A seguito di ciò Emanuele mi confidò che il padre sarebbe stato pure capace di venire qui e fargliela pagare». Questo è quanto ha detto Giacinto nella nottata. O, almeno, quello che i verbalizzanti hanno raccolto.