Politica a sinistra?

Written by Carlo Galli Monday, 26 February 2024 12:55 Print
Politica a sinistra? ©iStockphoto/saemilee


C’è vita a sinistra? Esiste ancora uno spazio politico nel quale si organizzino forze dotate di pensiero critico, di capacità analitica, di progettualità orientata alla trasformazione in senso progressivo dei rapporti sociali? Ovvero, esiste ancora una politica che da una parte riconosca con realismo le contraddizioni del presente e dall’altra non le accetti come naturali, individuando sia uno spazio di azione emancipativa sia soggettività adeguate e interessate al cambiamento, a un’alternativa di paradigmi economici e sociali? Esiste ancora una politica che riconosca l’esigenza primaria di fondarsi sopra un apparato di idee? Sopra una consapevolezza della storicità del presente e dei problemi che vi si manifestano?
Se nulla di meno di tutto ciò è richiesto perché esista una sinistra e perché una forza politica possa definirsi di sinistra, allora è quasi certo che nel nostro paese non esistano partiti organizzati ascrivibili alla sinistra. Esistono alcune reazioni popolari a manifeste difficoltà sociali, ma non acquistano stabilità organizzativa, e presto decadono e scompaiono; esistono invece forze politiche non di destra e anzi concorrenziali rispetto a questa: sono forze politiche, il PD e il M5S, che si definiscono la prima di centro-sinistra mentre la seconda rifiuta di fatto la topografia ufficiale della politica, e certo non trae ispirazione da un pensiero politico di sinistra.
Il PD nasce dalla fusione fredda di elementi ex democristiani ed ex comunisti, mentre il M5S è un movimento populista di reazione e protesta. Entrambi sono stati tanto al governo quanto all’opposizione, e hanno anche governato insieme, generando nel tempo, con diverse responsabilità, proprio quello scontento sociale che ha portato la maggioranza dei votanti a far vincere le forze di destra. Ed entrambi sembrano ormai stabilizzati intorno a percentuali costanti, il 19% per il PD, il 16% per il M5S. Valori insoddisfacenti per l’uno e per l’altro partito, che stanno a indicare difficoltà politiche: il PD ha perduto due elezioni consecutive, quelle del 2018 e quelle del 2022, mentre nell’ultima tornata elettorale il M5S è risultato dimezzato rispetto alla precedente.
Queste due forze – a cui si aggiungono minuscole realtà centriste la cui consistenza è ancora da verificare – non sono legate da alcun vincolo intellettuale, da alcuna storia comune, da alcuna prospettiva progettuale. Si rivolgono a fasce sociali diverse: ai ceti medi più o meno riflessivi il PD (volgarmente, ai residenti nelle ZTL), nonché a un elettorato tradizionale in alcune Regioni (Emilia, Toscana, Campania, Puglia, ormai divenute tuttavia contendibili), mentre quello dato al M5S è un voto populista e prevalentemente giovanile, con una notevole connotazione assistenziale e meridionale. Il PD ha perso gli operai, le periferie, i lavoratori precari, quelli che si sentono più esposti alle crisi, i piccoli imprenditori: a tutti questi la destra offre sia rassicurazioni simboliche e anche materiali (in entità molto diseguali) sia la possibilità di esprimere una rabbiosa protesta convogliata in un pan-penalismo vendicativo, ma anche in opportune de-penalizzazioni, sia qualche grado (molto differenziato) di autonomia da leggi e regolamenti.
Al momento le opposizioni – di centro, di centro-sinistra, populista – sono divise, non coordinate fra loro. Certo, in Parlamento i loro voti si sommano (benché non sempre votino allo stesso modo), ma alle elezioni europee, in cui vige il sistema proporzionale, si presentano necessariamente divise; mentre alle concomitanti elezioni amministrative e regionali, nelle quali i sistemi elettorali richiedono qualche forma di alleanza, collaborano con difficoltà e diffidenza, dando l’evidente impressione di non avere niente in comune, se non (forse) l’aspirazione a sconfiggere la destra.
L’opposizione delle due forze politiche principali risulta nel paese episodica, marginale, e in nessun caso riesce a mettere il governo sulla difensiva, ma anzi dipende dall’agenda governativa. Più sente che i grandi nodi della politica le sfuggono, più l’opposizione si limita a compiacersi delle difficoltà che il governo incontra nel suo rapporto con l’Europa, ad esempio sul nuovo Patto di stabilità, o del fallimento delle passate velleità sovraniste sull’immigrazione illegale, o a inseguire fatti di cronaca minore come i saluti romani, dai quali la destra può facilmente affermare di avere da tempo preso le distanze: e anche dove rinuncia allo sdegno antifascista, ovvero su issues importanti come la riforma giudiziaria (che interviene sul tema dolente e controverso del rapporto fra politica e magistratura), la delega fiscale (che istituisce un circuito privilegiato per il lavoro autonomo), il progetto di premierato elettivo (che stravolge gli equilibri fra i poteri dello Stato), l’opposizione non riesce – finora, ma sul premierato non si sono perse le speranze – a produrre effetti politici. A ciò si aggiunga che, data la situazione internazionale particolarmente turbolenta, è difficile per le opposizioni, e soprattutto per il PD, attaccare il governo sulle scelte politiche relative alle questioni ucraina e palestinese, e anche sulle linee iper-atlantiche e anti-cinesi della nostra attuale politica estera. E, soprattutto, le opposizioni non riescono a imporre propri temi di rilevante interesse generale, come ad esempio la questione del salario minimo o dello ius soli; per non parlare del collasso della sanità pubblica, le cui cause del resto non stanno certo solo nell’operato dell’attuale esecutivo.
Tanto più gravi sono le difficoltà politiche dell’opposizione quanto più precaria è in realtà la coalizione di destra: anche a destra, infatti, non vi è espansione elettorale ma solo spostamento di voti, e di potere, fra un partito in buona salute, momentaneamente esente da gravi conflitti interni, cioè FdI, e gli altri due partiti della coalizione, Lega e FI, che per motivi diversi perdono elettori e vedono restringersi l’area geografica della propria influenza, oltre a smarrire il proprio fondamentale obiettivo politico. L’esito del berlusconismo è infatti ormai da tempo pienamente operante come irriducibile individualismo sociale, assorbito senza sforzo nelle capaci braccia di FdI, ben in grado di ricomprendere in sé anche istanze di ceti medi che si assottigliano e si innervosiscono sempre più; mentre l’obiettivo politico della Lega è fortemente modificato dal fallimento della proiezione nazionale di estrema destra voluta da Salvini e dal conseguente ritorno al perimetro geografico e sociale dell’antico insediamento lombardo-veneto.
Non è solo a causa del sistema elettorale proporzionale con cui si svolgeranno le prossime elezioni europee, né solo a causa dell’aspra concorrenza sulle presidenze delle Regioni per cui si voterà a giugno, che vi è tensione dentro la maggioranza di governo: tanto Tajani quanto Salvini combattono una battaglia difensiva, con punte offensive (il caso del Mes), contro una corazzata politica, FdI, che sta occupando molte posizioni di potere nel paese, e contro il “premierato forte” di Meloni, che di fatto è già all’opera. Eppure, della coalizione sono prigionieri, data l’impossibilità di far cadere il governo, impresa che sarebbe un sicuro suicidio elettorale per chi la ponesse in atto. Ma neppure questo disagio interno alla maggioranza è sfruttato dalle opposizioni.
Naturalmente vi sono notevoli differenze fra i due partiti di opposizione: il M5S è un movimento sostanzialmente unitario, la cui unica espressione politica, in questo momento, è data da Giuseppe Conte, che come forza populista vive degli errori altrui e delle contraddizioni del sistema, sperando – probabilmente a ragione – che i cittadini dimentichino gli errori suoi. In ogni caso, per quanto possa apparire incredibile, il M5S in questo momento è percepito come la forza politica più a sinistra fra quelle, di un certo peso, rappresentate in Parlamento: come la forza, cioè, che ha posizioni meno adagiate sul mainstream riguardo a importanti questioni di politica internazionale quali la guerra in Ucraina e in Palestina, e il rapporto con la Cina.
Il PD dovrebbe avere ben altre pretese che non limitarsi a sfruttare lo scontento popolare: dovrebbe avere un’idea di società e una capacità politica di realizzarla. Non per caso è l’unica forza politica italiana che porta ancora il nome di partito. Ma la sua funzione progettuale è largamente carente e inespressa. Ed è piuttosto sostituita da una reattività confusa e occasionale rispetto alla politica del governo, che, benché non sia certo un esempio di organicità, presenta non di meno una qualche coerenza. Il PD è in preda a quattro ordini di problemi che ne frenano la capacità politica. C’è prima di tutto una questione identitaria, ovvero la non risolta collocazione rispetto al paradigma economico, che è anche politico, del neoliberismo: che il PD a parole ha molto blandamente criticato, e neppure sempre, e che nei fatti ha accettato supinamente, candidandosi a esserne il garante e a gestirlo, e che anche oggi, quando quel paradigma è largamente in crisi, non è in grado di contestare credibilmente. E lo stesso dicasi per la costruzione europea che a quel paradigma, nella sua versione ordoliberista, è largamente ispirata, davanti alle cui contraddizioni e alle cui crisi il PD non prende efficacemente parola.
A questa prima questione identitaria si affianca una questione politica importante: la coesistenza fra ex democristiani ed ex comunisti è stata sviluppata in modo troppo pragmatico, e sono stati lasciati aperti grandi problemi a livello dei diritti fondamentali soggettivi di nuova generazione che sono, tra l’altro, il principale focus dell’agenda politica del PD. E ciò produce tensioni interne e problemi di capacità operativa, come dimostra il recente caso Bigon.
Ma entra in gioco anche una terza serie di questioni, cioè il rapporto fra centro e periferia. Una questione organizzativa che è anche politica. Il PD è infatti una federazione fra capicorrente dotati di significativo insediamento territoriale, mentre il centro, ovvero il segretario e il suo staff, è tendenzialmente costretto a tenere conto degli equilibri fra i principali interlocutori locali. Da questo punto di vista non solo il PD è un partito più simile alla DC che non al vecchio PCI, ma è anche un partito che ha il proprio residuo punto di forza negli amministratori, il che condiziona pesantemente la linea politica anche a livello nazionale. Lo si vede, ad esempio, sulla questione dell’abolizione del reato di abuso d’ufficio, propiziata dai sindaci d’area.
Infine c’è uno specifico problema legato all’attuale segretaria che, è bene ricordarlo, non è stata eletta dagli iscritti ma è risultata vincente alle primarie; una segretaria che non proviene dalla storia democristiana né dalla storia comunista, che si è iscritta all’ultimo momento al PD, che è stata eletta in vista di un cambiamento significativo di linea politica. I margini di manovra della segretaria sono piuttosto ristretti, il che la spinge a tentare di affermare la propria autorità personale cercando di spostare il partito a sinistra per dargli un profilo più definito, per recuperare il voto degli scontenti astensionisti e per trovare così una propria ulteriore legittimazione interna. Ecco quindi le esternazioni di Schlein sul superamento della legge Bossi-Fini, sulla ripresa dello ius soli, la critica della vendita, da parte dei paesi UE, di armi a Israele, le oscillazioni sull’Ucraina, la polemica con i cattolici sul fine vita. Posizioni che portano il PD vicino ai Cinquestelle, non si sa quanto credibilmente: in ogni caso, c’è il rischio che l’allargamento dell’area del consenso non avvenga e che il PD si limiti alla cannibalizzazione del M5S (il che naturalmente non aiuta a istituire positivi rapporti tra le due forze politiche), e che una parte dell’elettorato più moderato si rifugi in un voto centrista.
Proprio perché per Schlein le europee sono una sorta di nuova e forse definitiva primaria si pone con tanta enfasi la questione della sua candidatura nelle diverse circoscrizioni: l’iniziativa potrebbe essere un fattore identitario per il partito e il segno di una forte assertività della segretaria – che entrerebbe così in aperta concorrenza con Meloni –; naturalmente la candidatura implica anche il rischio di un rigetto da parte dell’elettorato della nuova linea politica, così apertamente esibita. Ed è proprio al rischio di un insuccesso derivante dalla trasformazione delle elezioni europee in un referendum sulla segretaria che si riferiscono i consigli alla prudenza, e alla responsabilità verso gli elettori, che da più parti, interne ed esterne al PD, sono rivolti a Schlein. Ma non è escluso che quei consigli derivino anche dalla percezione, all’opposto, di un rischio di troppo grande successo, che darebbe troppo potere alla segretaria e troppo ne toglierebbe ai capi locali.
Un bel groviglio di problemi, quindi. La cui rilevanza per gli italiani è però quanto meno dubbia, e che possono essere definiti politici solo se si tiene presente la massima di Hegel, secondo cui dal poco di cui ci si accontenta si capisce la grandezza di ciò che è andato perduto.