Il declino della partecipazione al voto. Compagno al duol…(non) scema la pena

Written by Domenico Fruncillo Tuesday, 23 May 2023 11:20 Print
Il declino della partecipazione al voto. Compagno al duol…(non) scema la pena ©iStockphoto/francescoch

 

Da anni in Italia si registrano crescenti tassi di astensionismo. Al punto che alla vigilia di ogni tornata elettorale si può prevedere, con un elevato grado di fiducia, un ulteriore calo del tasso di affluenza alle urne. Eppure puntualmente, alla chiusura dei seggi, le forze politiche e gli organi di informazione si mostrano sorpresi della crescita dell’astensionismo ed esprimono preoccupazione per il distacco e il disinteresse dei cittadini rispetto alla procedura di selezione dei decisori. La sensazione è che le dichiarazioni di forze politiche e organi di informazione assecondino un canone politicamente corretto, ma non corrispondano ad una preoccupazione davvero urgente. L’attenzione già nell’immediatezza dell’esito elettorale si sposta esclusivamente sui risultati di quella determinata competizione, sulle ragioni che li hanno determinati. Il livello di astensionismo viene evocato come fattore che ha definito il vantaggio competitivo per un candidato, per un partito, per uno schieramento.
In Italia, da almeno un decennio, i tassi di affluenza si collocano, in un numero crescente di occasioni, al di sotto della soglia del 50%. Sebbene il livello di partecipazione al voto non possa essere interpretato come una espressione del grado di legittimazione degli eletti e, più in generale, come misura dell’adesione ai principi della democrazia, l’aumento dell’astensionismo in un arco temporale ormai relativamente lungo può e deve indurre a riflettere sui cambiamenti della democrazia.1 In altre parole, il progressivo calo della partecipazione al voto dovrebbe sollecitare una reale attenzione rispetto al destino delle elezioni, alla loro funzione e, di conseguenza, alla trasformazione della democrazia o, più precisamente, della forma che abbiamo vissuto e sperimentato in questa parte del mondo.2
È urgente, ormai, sviluppare una riflessione sulle ragioni e le cause profonde del declino del turnout, nonché sulle conseguenze e le implicazioni che esso comporta con riferimento ai meccanismi di formazione della decisione politica o, più precisamente, alle dinamiche di influenza politica e alle modalità di partecipazione e inclusione dei diversi gruppi sociali, in particolare di quelli svantaggiati. Non sono mancate in passato ricerche e analisi approfondite. Studiosi di grande spessore già da alcuni decenni avevano ipotizzato l’evoluzione del fenomeno che si è manifestata in questi anni. E tuttavia adesso non si tratta semplicemente di aggiornare quelle ricerche ampliandone la base empirica ossia raccogliendo dati per un periodo più esteso. È opportuno sviluppare schemi esplicativi che consentano di interpretare i nuovi significati dell’astensionismo.
Per sviluppare una riflessione che ha questi obiettivi, il campo di osservazione deve essere esteso e includere altri paesi e segnatamente quelli che aderiscono all’Unione europea. Ovviamente ciascuno di essi presenta architetture istituzionali differenti, sistemi partitici che negli ultimi anni anziché convergere si sono ulteriormente diversificati, modelli di competizione elettorale non paragonabili, classi dirigenti e performances istituzionali di diversa qualità. Tuttavia, essi hanno in comune, di massima, due cambiamenti che potrebbero avere a che fare con la crisi del turnout. Il primo cambiamento riguarda i cittadini e in particolare la loro cultura politica. Seppure in misura diversa, la cosiddetta “mobilitazione cognitiva” ha interessato un numero crescente di cittadini, i quali sono più interessati alla politica, più consapevoli delle loro prerogative e anche più esigenti verso le istituzioni e i soggetti della “tradizionale” rappresentanza. Questi cittadini sono sempre più attratti da altre modalità di partecipazione e hanno imparato come influenzare la decisione politica anche rinunciando a partecipare alle elezioni. Sotto il profilo puramente espressivo, la partecipazione alle elezioni appare, agli occhi di questi cittadini, meno gratificante. Si potrebbe dire che essi vogliono contare esprimendosi a viso aperto e non solo essere contati nel segreto delle urne.
Il secondo tratto che accomuna i paesi che aderiscono all’Unione europea riguarda il trasferimento di poteri decisionali reali dai governi nazionali alla governance europea che negli ultimi anni è stata il bersaglio polemico privilegiato di leaders e partiti populisti. È innegabile che, soprattutto dopo l’introduzione della moneta unica e dei trattati che l’hanno accompagnata, i gradi di libertà dei governi nazionali nella implementazione delle politiche economiche si sono ridotti. Cosicché anche la partecipazione alle elezioni nazionali agli occhi dei cittadini sembra meno importante ai fini della definizione delle decisioni politiche rilevanti.
L'osservazione del turnout nei paesi europei permette di valutare se la crisi della partecipazione al voto è un fenomeno che riguarda specificamente il nostro paese. In tale ottica, ossia per costituire un termine di paragone, è utile richiamare qualche dato circa i livelli di partecipazione in Italia.3 Come è noto, la partecipazione al voto è stata costantemente elevata dal secondo dopoguerra alla metà degli anni Settanta. La media dei tassi di partecipazione alle elezioni dal 1948 al 1976 è pari al 93,2%. Dal 1948 al 1976 i tassi di affluenza aumentano di 1,2 punti. La media dei tassi di affluenza relativa alle elezioni celebrate dal 1979 al 1992 scende all’88,9% e la partecipazione al voto tra il 1976 e il 1992 cala di 6 punti. Ma è soprattutto nel corso della cosiddetta Seconda Repubblica che si rileva il calo più consistente. Tra il 1994 e il 2001 la media di partecipazione al voto scende a 83,5% e crolla a 75,3% con riferimento alle elezioni celebrate dal 2006 al 2022. In questo periodo, ossia dal 2001 al 2022, l’affluenza alle urne cala di 11,8 punti percentuali. Questa periodizzazione, molto utilizzata negli studi sull’astensionismo nel nostro paese, è utile anche ai fini del confronto con gli altri paesi europei. Il 1979 è l’anno in cui si registra l’inizio del declino del turnout in Italia e anche della prima elezione del Parlamento europeo. Il 2001 è l’anno di avvio del crollo della partecipazione al voto in Italia e anche quello che segna l’addio alle monete nazionali in molti paesi dell’Unione.

 

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Ebbene, nel periodo che precede il 1979, ossia considerando le elezioni celebrate fino al 1978, la media di affluenza alle urne negli altri paesi in cui in quel periodo si tenevano le elezioni è pari a 85,2. Tale media scende a 84 se si considerano solo i paesi cosiddetti fondatori. 4 In Italia era pari al 93,2%. Nel periodo compreso tra il 1979 e il 2001 la media di affluenza alle urne nei paesi europei era pari a 78,7,5 in Italia era 86,6%. Infine, nel periodo più recente ossia dal 2002 ad oggi, la media di tassi di partecipazione al voto nei paesi che aderiscono all’Unione europea, incluso il Regno Unito, è pari a 67,2.6 In Italia è 75,3.
In base a questi dati possiamo affermare che la partecipazione al voto in Italia resta al di sopra di quella registrata in media negli altri paesi dell’Unione europea pur essendo calata in circa venti anni di 11,8 punti. Tuttavia, ciò che, ai fini del nostro ragionamento, sembra rilevante è che complessivamente il calo di punti percentuali tra le medie calcolate rispetto ai tre diversi periodi è approssimativamente della stessa misura.
Infatti, la differenza tra la media calcolata nell’ultimo ventennio rispetto al primo periodo (1944-78) per l’Italia è di 17,9 punti percentuali e per gli altri paesi dell’Unione europea è di 18 punti. Quindi si osserva un trend analogo in Italia e in senso più ampio in Europa, almeno per la sua misura generale. Ovviamente l’analisi andrebbe approfondita, considerando anche le elezioni del Parlamento europeo e aggregando i paesi in base all’epoca della loro adesione dall’Unione, alla loro collocazione geopolitica.
Non può essere escluso peraltro che la stessa misura del calo della partecipazione possa essere l’esito di pratiche istituzionali più o meno virtuose, di tradizioni subculturali su base territoriale, di iniziative di soggetti politici più o meno efficaci, degli atteggiamenti e della cultura politica dei cittadini appartenenti a diverse coorti di età, dell’utilizzo e della effettiva disponibilità di pratiche partecipative aperte all’innovazione, di maggiori livelli di benessere sociale. In questo numero della rivista sono presenti su questi temi riflessioni molto impegnate e stimolanti. In generale, questo riscontro incentiva una ricerca che, a partire dalla crisi della partecipazione elettorale, rifletta sulle trasformazioni della democrazia. Non c’è dubbio che le democrazie si stanno adattando ai cosiddetti cambiamenti ambientali nella sfera economica e sociale. Ma le scelte che possono essere messe in campo nella sfera politica anche per rispondere a shock traumatici possono esercitare un ruolo nell’approfondimento di dinamiche che depotenziano le promesse egualitarie della democrazia. La partecipazione al voto è ancora la modalità di partecipazione più diffusa, ma pare aver esaurito il suo ruolo di strumento per la realizzazione della promessa egualitaria dal momento che l’astensionismo sembra concentrarsi soprattutto tra i ceti sociali più svantaggiati e che questi stessi gruppi non dispongono di sostituti funzionali che consentano loro di riaffermare l’appartenenza ad una comunità politica, di ribadire solidarietà sociali, di influenzare la decisione politica in senso più favorevole ai loro bisogni e alle loro istanze.7
In generale sono potenzialmente disponibili altre modalità di partecipazione politica gratificanti e incisive. E tuttavia la Rete con le sue promesse di apertura e orizzontalità è esposta ai rischi di esclusione e manipolazione. Le forme di deliberazione e discussione pubblica sono altrettanto promettenti. Ma queste, come altre opportunità, richiedono dinamiche di apertura reale delle istituzioni formali e di attivazione autonoma dei cittadini. Esse si realizzeranno a misura che si sviluppino nuovi processi di formazione e di educazione dei cittadini, soprattutto di quelli più deprivati di risorse economiche e culturali. È questa la sfida soprattutto per soggetti politici impegnati per l’emancipazione e la liberazione dei cittadini collocati in posizione di svantaggio sociale e politico.


[1] Tra i contributi più significativi mi limito a segnalare C. Crouch, Combattere la postdemocrazia, Laterza. Roma-Bari 2020; P. Rosanvallon, Controdemocrazia. La politica nell'era della sfiducia, Castelvecchi, Roma 2012.

[2] Mi sia permesso di rinviare a questo proposito a D. Fruncillo, Verso la politica postelettorale, Rubbettino, Soveria Mannelli 2020.

[3] Per un approfondimento si rinvia a D. Fruncillo, Urna del silenzio, Ediesse, Roma, 2004; D. Tuorto, Apatia o protesta? L’astensionismo elettorale in Italia, il Mulino, Bologna 2006.

[4] I dati qui riportati sono tratti dai database pubblicati da The International Institute for Democracy and Electoral Assistance (International IDEA). Ovviamente i dati sono riferiti solo ai paesi in cui si svolgevano elezioni libere. Questa media sarebbe pari al 79% se calcolassimo l’affluenza alle urne tenendo conto della popolazione in età di voto.

[5] Questa media sarebbe pari al 75,4% se calcolassimo l’affluenza alle urne tenendo conto della popolazione in età di voto.

[6] Questa media sarebbe pari al 64,4% se calcolassimo l’affluenza alle urne tenendo conto della popolazione in età di voto.

[7] A. Lijphart, Unequal Participation: Democracy’s Unresolved Dilemma, in “American Political Science Review”, 1/1997, pp. 1-14; D. Tuorto, Underprivileged Voters and Electoral Exclusion, Palgrave, Londra 2022.