Xi Jinping, la Cina in una sola persona

Written by Romeo Orlandi Wednesday, 20 May 2020 12:28 Print
 

Nell’ottobre del 2017 una famosa copertina de “The Economist” pubblicava un ritratto di Xi Jinping con la didascalia “The most powerful man in the world”. Rifletteva una percezione diffusa in Occidente, dilaniato dagli ondeggiamenti di Trump e dalla divisione europea. Xi sembrava veramente l’uomo più potente al mondo. Il titolo si è rivelato tuttavia iettatorio perché da allora la Cina ha inanellato una serie di infortuni gravi, pesanti, imprevisti. La Casa Bianca ha avviato una guerra commerciale ancora in corso. L’astronomico deficit commerciale statunitense doveva essere tamponato con l’imposizione di dazi, nella presunzione di penalizzare la più grande potenza esportatrice. Il disavanzo è ancora gigantesco, né si prevede possa ridursi per ragioni soltanto economiche. Un’altra “fabbrica del mondo” non si inventa e l’idea di un generale decoupling – cioè il disallineamento delle economie – per ora rimane confinato alle aspirazioni dello Studio ovale. I dazi hanno tuttavia contribuito a ridurre la crescita cinese, già asfittica per altri motivi. L’aumento del PIL si è assestato intono al 6% (ovviamente prima del Coronavirus), il valore più basso degli ultimi trent’anni. Il terzo colpo alla Cina è venuto dalla protesta di Hong Kong: interminabile, violenta, irrisolvibile; un colpo terribile alla riconquista di Taiwan con mezzi pacifici. Da ultimo è intervenuta la pandemia, il virus cinese, il mercato di Wuhan, il paese dei pipistrelli e degli untori. La raffica di eventi avrebbe demolito qualsiasi paese, mettendone in discussione la leadership.

Invece, alla fine di aprile 2020, sempre “The Economist” poneva una domanda a caratteri cubitali: “Is China winning? The geopolitical consequences of Covid-19”. Gli articoli interni alleggerivano il peso del punto interrogativo, interpretando altresì un sentimento diffuso, misto di analisi e rassegnazione: la Cina sta effettivamente imponendosi nello scacchiere mondiale che prenderà forma dopo la pandemia. Sembra poterlo fare per una serie di motivi, una rete complessa e articolata di ragioni. Il suo ruolo nell’economia globale è insostituibile, basti pensare alla crisi di offerta quando le sue fabbriche hanno smesso di produrre. Lo è anche nella successiva crisi di domanda, quando il virus si è spostato nelle economie più avanzate. La sua economia crescerà ancora nel 2020, seppure a livelli ridottissimi, di fronte alle cifre drammatiche degli altri paesi. L’economia appare di nuovo avviata, la titanica fabbrica di merci pronta al servizio delle catene globali del valore. A meno di clamorosi ritorni, la pandemia sembra contenuta, seppure con prezzi ancora non chiariti. La narrazione si impernia infine su un paese forte, determinato, disciplinato, più forte delle avversità. Di fronte allo smarrimento occidentale, più di una voce si è levata a sottolineare l’inadeguatezza della democrazia nel risolvere tragedie di dimensioni bibliche.

La reductio ad unum di tante motivazioni risiede a Zhong Nanhai, il complesso adiacente la Città proibita dove operano i componenti dell’Ufficio politico e il segretario del Partito comunista cinese. Xi Jinping incarna la Cina, la rappresenta, la dirige. Il suo volto è diventato sovrapponibile a quello del suo paese. La sua carriera si sgrana secondo il lessico della Terza Internazionale. Eletto come membro permanente del Politburo al XVII Congresso, viene eletto Segretario nell’assise successiva, nel 2012. Da allora, in un’inedita concentrazione di potere, è anche presidente della Repubblica, per ragioni protocollari, e presidente della potente Commissione militare. Confermato nel 2017, non ha posto limiti e si candida per altri mandati. Dopo Deng Xiaoping – che peraltro non aveva incarichi ufficiali – nessun uomo ha accumulato tanto potere. Xi ha inizialmente sconfitto o blandito i suoi oppositori e poi ha modellato il partito mantenendone un controllo ferreo. Appena eletto ha avviato tre rigide direttive. La prima è stata mettere in discussione il modello economico. Ha avuto il coraggio di cambiare il ruolo della Cina, non più opificio mondiale per le multinazionali e per i consumatori di tutto il mondo. Il paese doveva uscire dall’ossessione della crescita, diventando insensibile a nuovi record quantitativi. Una nazione moderna – diventata potente – ha il compito di affrancarsi da lavorazioni ad alta intensità di manodopera, dipendenti dal ciclo dell’economia mondiale. A costo di ridurre le percentuali di crescita, deve sofisticare il suo impianto produttivo, lanciandosi verso settori ad alto valore aggiunto. Questa operazione rinnega un passato glorioso, una culla di certezze, attacca le posizioni di rendita che si annidavano nel partito, nelle aziende di Stato, nel governo. Per reciderle, la lotta alla corruzione si è rivelata l’arma più efficace. Sono stati aperti i dossier più scottanti e pericolosi. Le resistenze – misurate in più di un milione di quadri, dirigenti, amministratori – sono state epurate, imprigionate, nei casi estremi indotte al suicidio. Xi ha poi avocato alla sua segreteria tutti gli aspetti della sicurezza del paese. I servizi e i corpi speciali riportano direttamente ai suoi uomini più fidati. L’esecutivo ne risulta depauperato, impegnato nella gestione politica e amministrativa, ma non responsabile di direttive strategiche e cogenti. Tutti questi obiettivi sono stati sostanzialmente raggiunti. L’opacità dei meccanismi cinesi non consente facili previsioni, ma tutto lascia ritenere che il timone rimarrà ancora saldamente in mano a Xi. Un uomo solo è dunque al comando della Cina: potente, temuto, autorevole, autoritario. La sua affermazione deriva dalla biografia, dalla sua analisi, dalle necessità della Cina. Questi fattori sono legati tra loro in una osmosi inestricabile, causa ed effetto, origine e visione.

Xi Jinping è nato a Pechino nel giugno del 1953. Suo padre è Xi Zhongxun, uno dei padri della Repubblica Popolare Cinese. Il suo pedigree è inappuntabile, sempre fedele alla linea del PCC, del quale diventa anche responsabile della propaganda. Cadde in disgrazia durante la Rivoluzione culturale, quando le sue posizioni sensibili allo sviluppo economico confliggevano con un fanatismo politico che non lasciava spazio a tentazioni individualiste. Venne rimosso, umiliato pubblicamente, trasferito a incarichi modesti prima di una tardiva riabilitazione. Seguì la sorte di tanti suoi compagni anziani e valorosi. Suo figlio ne venne coinvolto, in uno dei periodi, a cavallo degli anni Sessanta e Settanta, più oscuri della sua biografia. Le cronache lo ricordano impregnato di furore rivoluzionario, nella zona grigia tra la fedeltà familiare e l’entusiasmo giovanile. Visse in una caverna, scappò di casa, visse di stenti in città. Soltanto dopo molti tentativi fu ammesso nei ranghi del partito. Riuscì a laurearsi in ingegneria, un viatico alla carriera politica nella quale entrò dalla porta principale. Lo aiutò certamente il prestigio del padre, come tutti i princeling, i principi ereditari che discendono da lignaggi famosi. Tuttavia, la spinta più grande venne dalle sue qualità: acume, intelligenza politica, freddezza, ambizione. Prese una seconda laurea in ideologia e iniziò il cursus honorum di dirigente di partito, con incarichi territoriali sempre più importanti, ai quali rispose con risultati eccellenti. Non ha mai cambiato la doppia deferenza per Mao e Deng. Al primo deve il riscatto del paese dopo il secolo delle umiliazioni, al secondo il consolidamento, i successi del pragmatismo, la forza del paese che ha ereditato. Pienamente convinto della svolta economica ormai quarantennale, ha inteso gestirla fino al pieno controllo. Sa bene che un’apertura eccessiva sarebbe esiziale, ma anche un ritorno all’autarchia provocherebbe retrocessioni inammissibili. Deve calibrare un’esposizione diversa, in un quadro di rinnovate tensioni. Ritiene che il binomio crescita-stabilità risulti inscindibile, ma la seconda sia più preziosa. Si illude chi pensa che la Cina possa avventurarsi verso riforme istituzionali, per raggiungere altri sistemi politici. Il ruolo del partito è irrinunciabile, la sua disciplina fuori discussione, le contaminazioni pericolose. Xi è l’uomo più adatto per perseguire questa politica. La situazione internazionale è sempre più tesa e Pechino ha bisogno di una figura forte per fronteggiarla. Bisogna mobilitare il nazionalismo, ancora di più, anche a costo di farlo debordare. La sua declinazione è plateale nei social media, nelle televisioni, nel culto della personalità, nella narrazione del Coronavirus.

Il suo sogno cinese del ringiovanimento della nazione ha due scadenze fissate. Il prossimo anno, nel centenario della fondazione del PCC, la Cina deve affermarsi come una nazione di media prosperità, forte e rispettata. Nel 2049, cento anni dopo la sua proclamazione, la RPC intende diventare una potenza mondiale, temuta e inattaccabile. Deve cioè ritrovare il suo posto nella storia. La politica estera è stata finora relativamente silente, strumentale alla silenziosa avanzata del paese. Le tensioni del paese sono state occultate in nome della pacifica convivenza. I rancori erano tuttavia sopiti, non scomparsi. Ora, la Cina intende riscuotere i dividendi politici dei successi economici. Lancia così delle iniziative inedite, lungimiranti, assertive, probabilmente destabilizzanti. La Belt and Road Initiative si pone nel solco più nobile della globalizzazione – il commercio estero come strumento di pace, la lotta al sottosviluppo è un intento comune – ma certamente è in grado di battezzare assetti imprevisti in tutti i paesi che attraverserà. Obiettivi più legati alla sicurezza attengono invece alle rivendicazioni del Mar Cinese Meridionale. Secondo Pechino, un immenso tratto di mare le appartiene storicamente e potrebbe spostare i confini di alcune migliaia di chilometri dalle sue coste. Gli interi equilibri geopolitici del Sud-Est asiatico ne verrebbero sconvolti, interessando tutti i paesi rivieraschi e la libertà di navigazione controllata dalla VII Flotta della US Navy. Le tensioni politiche sono inevitabili, quelle militari al momento soltanto prevedibili.

In questo quadro la Cina richiede una direzione con fondamenta ideologiche, capacità tattiche, visione strategica. Ha bisogno di unità, obbedienza, centralizzazione del comando. Xi Jinping sembra la soluzione migliore, approdo inevitabile per una rotta che lui ha contribuito a indicare. La sua fedeltà alla nazione cinese è granitica. I suoi biografi la ricordano in una dichiarazione del 2009, quando era ancora vicepresidente durante una missione in Messico: «Il più grande contributo della Cina all’umanità è evitare la carestia a 1,3 miliardi di persone (...). Ci sono alcuni stranieri annoiati, con gli stomaci pieni, che non trovano niente di meglio da fare che accusarci. Per prima cosa, la Cina non esporta la rivoluzione; inoltre, non diffonde fame e miseria; infine non interviene causandovi mal di testa. Cos’altro dobbiamo dire?». A distanza di dieci anni, Xi ha certamente compreso che il suo paese può creare emicranie diffuse anche semplicemente continuando a crescere. Non ha tuttavia cambiato idea: i disagi altrui continuano a rimanere un effetto collaterale. L’eredità di Deng Xiaoping gli ricorda che quando si aprono le finestre per cambiare aria, è inevitabile entrino i moscerini.