Democrazia (esportare la)

Written by Enzo Di Nuoscio Wednesday, 22 September 2021 16:00 Print
Democrazia (esportare la) Istockphoto/Rost-9D

 

Se la democrazia fosse inscritta nella linea evolutiva di ciascun popo­lo, allora basterebbe aspettare per vederla trionfare; se la sua afferma­zione fosse legata soltanto alla rimozione dei suoi nemici, allora sa­rebbe sufficiente mandare i marines per abbattere il regime di turno; se coincidesse con il “governo del popolo” scelto mediante elezioni, allora basterebbero i Caschi blu dell’ONU per avviare un regime democratico; se si riducesse soltanto a una questione di ingegneria istituzionale ed elettorale, allora sarebbe sufficiente inviare politologi e costituzionalisti.

Ma così non è. La democrazia è molto di più. È una pianta che poter crescere e resistere, anche ai più deboli venti di crisi economica e sociale, ha bisogno di radici profonde, ben ramificate nella storia di un intero popolo. E questo perché essa è un prodotto culturale, che si nutre di presupposti etici, sociali, economici e persino gnoseologici, di cui gli aspetti più “visibili”, come le dinamiche istituzionali ed elettorali, sono un mero riflesso.

La democrazia consiste essenzialmente in una “rivoluzione della cri­tica”, cioè nella rinuncia alla critica ad hominem in favore della critica ad rem. Una “rivoluzione” che sostituisce allo scontro tra le persone il confronto tra le idee, all’uso della forza il ricorso al dialogo, tra­sformando le istituzioni nel luogo in cui facciamo morire le idee al nostro posto. Un luogo in cui, attraverso i dissoi logoi, gli uomini cooperano per risolvere i problemi comuni, a cominciare dalla con­quista del potere e dalla ripartizione delle risorse.

Questo cambiamento epocale nella storia dell’umanità richiede che si abbandoni il mito della perfezione e si accetti il principio di perfetti­bilità, rinunciando alla nefasta pretesa di realizzare la società perfetta per cercare invece di migliorare, per tentativi ed errori, l’esistente. Come scriveva Eduard Bernstein, la democrazia consiste nell’“alta arte del compromesso”, che si può affermare soltanto in una “società aperta” che condivida la scelta della discussione critica come mezzoper conciliare i differenti interessi e punti di vista. Una società nella quale, ha sostenuto Karl Popper, ci sia posto per il maggior numero possibile di visioni del mondo (filosofiche, religiose, politiche) e che sia “chiusa” solo agli intolleranti, cioè a coloro che pretendono di far valere le proprie idee con la forza o comunque non rispettando le regole dello Stato di diritto. La democrazia esige, dunque, uno spazio pubblico in cui non ci siano dogmi o poteri (politici, religiosi, economici ecc.) sottratti alla critica. È incompatibile con “autorità supreme” che, come è accaduto con le teocrazie e i totalitarismi del XX secolo, sostituendosi al libero confronto fra le idee, pretendano di governare in base a “testi sacri” o “ideologie superiori”.

Ma affinchè una qualche forma di “società aperta” possa affermar­si è necessario che un gruppo sociale condivida un principio tan­to semplice quanto rivoluzionario nella storia umana: l’idea che la conoscenza umana è fallibile, l’etica è infondabile e la coscienza è inviolabile. E cioè che nessuno può ritenersi infallibile, che non c’è un individuo o un gruppo portatore privilegiato di valori assoluti e che pertanto vanno rispettate le scelte di coscienza dei singoli. E que­sto perché, scriveva Gaetano Salvemini, «chi è convinto di possedere il segreto infallibile per rendere felici gli uomini è sempre pronto ad ammazzarli. La intolleranza dittatoriale rampolla dalla fede nell’infallibilità, come la tolleranza e la libertà rampollano dall’u­miltà democratica».

La consapevolezza della fallibilità della cono­scenza, della relatività delle scelte etiche e la dife­sa della persona umana sono dunque i “principi primi” della democrazia, i suoi “geni invisibili” (che consentono di riconoscere la legittimità del potere e dello Stato di diritto), senza i quali si materializzano i “demoni visibili” dei suoi nemi­ci. Chi pensa di esportarla persino con gli eserciti dovrebbe sapere che senza una sufficiente “accumulazione originaria” di queste “risorse” diventa pura illusione il take-off di una democrazia. Se l’Occidente è stato la patria dello spirito democratico, se la sua identità consiste non nell’affermazione di una tradizione culturale o religiosa a scapi­to delle altre, ma nella convivenza e integrazione di una pluralità di tradizioni, è proprio perché la sua drammatica storia ha selezionatoquesti presupposti culturali. Dalla tradizione greca l’Occidente ha ereditato la concezione della razionalità come discussione critica e non come meccanica trasmissione di dogmi. Da quella cristiana ha invece ricevuto in eredità il rivoluzionario principio che Dio è l’u­nico assoluto e quindi il mondo storico è il regno della contingenza, nel quale non c’è posto per punti vista esclusivi, valori assoluti e per interpreti privilegiati – in nome di Dio o della ragione – della storia umana. Distaccando il mondano dal divino, desacralizzando e deas­solutizzando ciò che è umano, interponendo un’infinita distanza tra ogni uomo e Dio, il Cristianesimo combatte l’idea che la perfezione possa appartenere a questo mondo, trasformando così l’ordine mon­dano nel luogo della lotta contro il male e dunque della perfettibi­lità. L’Illuminismo, poi, ha spinto il Vecchio continente ad avere il coraggio della ragione, a combattere la superstizione, a considerare come prioritaria l’inesauribile ricerca della verità, a esercitare lo spi­rito critico, contribuendo a una secolarizzazione di cui la democrazia non può fare a meno. Atene, Gerusalemme e Parigi sono dunque i luoghi simbolo della ragione critica e della lunga via occidentale alla democrazia; una via segnata da immani tragedie, commesse anche in nome del Dio dei Cristiani.

Accanto a questi presupposti è bene ricordare altre condizioni decisi­ve per la transizione democratica, le quali possono essere in parte as­sicurate dalle stesse democrazie: a) una democrazia non può esistere senza una adeguata “alleanza” con l’economia di mercato. Le liberal­democrazie da un lato sono incompatibili con l’abolizione della pro­prietà privata e della concorrenza, dall’altro devono avere la forza di regolare il mercato, che altrimenti rischierebbe di travolgerle. Si tratta di una “alleanza” né naturale, né scontata, di cui però la democrazia non può fare a meno; b) per poter resistere, soprattutto nei momenti di crisi, la democrazia deve essere inclusiva verso i ceti meno ab­bienti e verso tutti quei gruppi sociali che, pur in una condizione di disagio (per ragioni economiche, religiose, etnico-linguistiche ecc.), devono riconoscere nelle regole democratiche il mezzo più adatto per migliorare la propria condizione. Proprio come è accaduto alle liberaldemocrazie nel secondo dopoguerra, che si sono consolidate grazie alla loro capacità di includere le classi popolari, affrontando la questione dei diritti sociali (lavoro, casa, sanità, istruzione, previ­denza, trasporti). Le democrazie non possono dunque fare meno diuna certa dose di welfare, che eviti eccessive diseguaglianze sociali e discriminazioni di ogni genere, le quali potrebbero indurre coloro che sono penalizzati a scambiare i difetti della democrazia con la pro­va del suo fallimento, spingendoli magari a cadere nella trappola del capro espiatorio e a incoronare l’immancabile imbonitore di turno; c) essendo, come diceva Giovanni Sartori, il “governo dell’opinione”, la democrazia può stare in piedi solo se l’homo democraticus possiede una sufficiente autonomia di giudizio, che presuppone un minimo di capacità filologica di comprensione delle dinamiche sociali e poli­tiche, del senso di un qualsiasi “testo” e di gestione delle informazio­ni. Questi sono i più potenti anticorpi contro i vecchi e nuovi nemici della libertà, che si generano solo con una adeguata istruzione e for­mazione culturale di massa. Anticorpi che devono essere ogni gior­no rigenerati anche nelle nostre liberaldemocrazie, affinchè possano affrontare con successo la sfida delle nuove tecnologie e delle nuove forme di comunicazione; d) le democrazie del XXI secolo devono avere un buona dose di capacità decisionale per governare società complesse, nelle quali la tecnologia e soprattutto la competizione globale potrebbero svuotare i meccanismi democratici. E poiché le democrazie contemporanee devono fare i conti con eventi mondiali (la competizione economica e tecnologica, la questione ambientale, le migrazioni, il terrorismo, il soft power di regimi non democratici), la loro sorte dipende in modo decisivo da un governo sovranazionale di questi fenomeni. Per questo non è azzardato dire che la sopravvivenza delle democrazie occi­dentali passa in modo decisivo dall’unità politica dell’Europa.

Da questo sommario profilo risulta lampante che la democrazia è l’esito di un lungo e com­plesso processo evolutivo e non è certo un edi­ficio che si possa costruire su qualsiasi terreno. Noi occidentali abbiamo impiegato lunghi secoli per lasciarci alle spalle una storia infinita di guer­re, stermini, pulizie etniche e religiose, che ha in­zuppato di sangue ogni metro quadro del Vecchio continente. Inol­tre, la democrazia è un fenomeno storico per sua natura imperfetto e, per giunta, sempre in crisi, poiché genera più aspettative di quelle che è in grado di appagare. E come tutti i fenomeni storici, non è mai una conquista irreversibile. La via della libertà, amava ripetere Luigi Einaudi, è piena di “andate e ritorni”. E questo lo sappiamo meglio di tutti proprio noi europei. Duemilaquattrocento anni dopo Socrate, ottocento anni dopo la Magna Charta e quasi cinquecento anni dopo l’Oratio de hominis dignitate di Pico della Mirandola, l’U­manesimo e il Rinascimento, in soli trent’anni (1914-45) abbiamo avuto circa 70 milioni di vittime; e solo ottant’anni fa, nel cuore dell’Europa cristiana, ci sono stati i campi di concentramento in cui europei sterminavano altri europei. Aveva ragione Popper: «Il prezzo della libertà è l’eterna vigilanza».

Alla domanda su cosa si possa fare per affermare la democrazia non si può che rispondere che non esistono scorciatoie, che è pia illusione pensare che la transizione democratica possa essere derubricata a una strategia (diplomatica e militare) di politica estera. Se, grazie alla sua storia, l’Occidente ha avuto un forte “vantaggio evolutivo” per ap­prodare alla democrazia, questo però non significa – come testimo­nia soprattutto il caso del Giappone – che il principio democratico non possa affermarsi altrove. Quella per la democrazia è una lunga “guerra di posizione”, il cui esito è tutt’altro che scontato, che può essere combattuta in ogni società, ma solo con le armi della cultu­ra, dell’istruzione e della politica, per vincere tradizioni e condizio­ni avverse e per affermare quei valori condivisi e quei presupposti (culturali, educativi, economici, sociali, istituzionali) che alimentano l’ordine democratico. Un simile processo può anche essere favorito dall’esterno, ma (come è accaduto con la nascita della Repubblica in Italia) potrà avere buon esito solo se queste condizioni emergono dall’interno di una società, magari grazie a un lungo lavoro di élite illuminate.