Antonio Pennacchi è nato a Latina nel 1950. Operaio fino a cinquant’anni, ora considerato universalmente uno dei maggiori scrittori italiani, ha pubblicato numerosi romanzi tra cui “Fascio e martello. Viaggio per le città del Duce” (Laterza, 2008) e, per Mondadori, “Il fasciocomunista” (2003), “Mammut” (2011), “Canale Mussolini” (Parte prima, 2010, vincitore premio Strega, e Parte seconda, 2015), e i racconti di “Shaw 150. Storie di fabbrica e dintorni” (2006). Pubblichiamo qui il primo capitolo di “Il delitto di Agora” (Mondadori, 2018), un romanzo giallo inconsueto e imprevedibile, una vicenda originale, universale e paradigmatica insieme, un dramma esistenziale sulla spasmodica ricerca della Verità.
Io questo libro non lo volevo fare. Non avevo nessunissima intenzione di impicciarmi in questa storia. La prima volta che me lo hanno proposto – avevano appena arrestato Giacinto ed erano tutti supersicuri che fosse proprio lui il frocio assassino – ho detto: «No. Non mi interessa».
La storia non m’era piaciuta. Anzi. Mi aveva proprio disturbato. Meglio ancora: «sturbato», come dicono sui Lepini. Che non è più un semplice atteggiamento di distacco e disaffezione psicologica, ma è già uno stato fisico: con un senso di contrazione dello stomaco e poi di nausea. E che il fatto sia avvenuto a due passi da casa mia me l’ha aumentato. Fosse successo in Valpadana forse m’avrebbe interessato di più. A casa mia no. M’ha dato fastidio e basta. Anche perché la prima volta che l’ho sentito al telegiornale – e non mi ricordo più se è stato la notte stessa o il giorno dopo; il che non è, come si vedrà più avanti, un particolare del tutto ininfluente – ho pensato subito al padre: «E questo qui», mi sono detto, «si mette già in agitazione alle sette e mezzo di sera?»
Da ragazzi, il pomeriggio, a Latina non c’era niente da fare e così, ogni tanto, andavamo a Roma con l’autostop. Era il 1966 e Bruno Lauzi cantava: «con quella faccia un po’ così, / l’espressione un po’ così, / che abbiamo noi / quando andiamo a Genova». Io non so in che modo Bruno Lauzi e gli amici suoi andassero a Genova, se con la macchina, il treno o la motocicletta. Noi a Roma andavamo con l’autostop, ma ci andavamo esattamente con la stessa faccia ed espressione che avevano loro.
Da ragazzi, il pomeriggio, a Latina non c’era niente da fare e così, ogni tanto, andavamo a Roma con l’autostop. Era il 1966 e Bruno Lauzi cantava: «con quella faccia un po’ così, / l’espressione un po’ così, / che abbiamo noi / quando andiamo a Genova». Io non so in che modo Bruno Lauzi e gli amici suoi andassero a Genova, se con la macchina, il treno o la motocicletta. Noi a Roma andavamo con l’autostop, ma ci andavamo esattamente con la stessa faccia ed espressione che avevano loro.