La restaurazione militare in Egitto tra dinamiche religiose e islamismo

Di Massimo Campanini Mercoledì 18 Marzo 2020 12:27 Stampa

Il 3 luglio 2013 al Cairo un colpo di Stato militare guidato dal generale ‘Abd al-Fattah al-Sisi poneva fine alla “primavera” egiziana defenestrando il presidente civile legittimamente eletto, il fratello musulmano Muhammad Mursi. La repressione di cui fu vittima la Fratellanza Musulmana fu durissima: a prescindere dalla cronaca dei quotidiani, comunicazioni personali con testimoni degli scontri avvenuti attorno alla moschea di Rabia al-Adhawiyya riferiscono della violenza inusitata dispiegata dall’esercito in quei giorni. I Fratelli erano stati protagonisti del tentativo di transizione dal regime di Husni Mubarak a una prospettiva politica più aperta, ma hanno evidenziato mancanze che ne hanno compromesso l’efficacia dell’azione politica: incertezza nei princìpi teorici (lo slogan “al-Islam huwa al-hall”, l’Islam è la soluzione, bandiera dell’islamismo politico “frerista”, si è rivelato desolatamente vuoto di contenuti); incapacità di coagulare le forze non islamiste attorno a un progetto politico, soprattutto di riforma costituzionale, condiviso; incapacità di proporsi, gramscianamente, come forza egemonica di direzione intellettuale, morale e politica della società; incapacità di affrontare i nodi di un’economia in crisi profonda. In seguito, la Fratellanza Musulmana è divenuta un comodo capro espiatorio su cui scaricare le responsabilità di tutti gli atti di “terrorismo” – termine quanto mai ambiguo e interpretabile in molti modi diversi che potrebbero comprendere anche manifestazioni sindacali o proteste sociali – accaduti nel paese.

Dal luglio 2013, la Fratellanza Musulmana ha cessato di essere un soggetto politico, e non è dato sapere, al di là della retorica propagandista della sicurezza, quanto davvero sia in grado di, e operativamente si stia, ri-organizzando in clandestinità. Gli ex membri fuggiti all’estero, alcuni anche in Italia, comprensibilmente si nascondono. Il fatto che in Egitto i partiti di orientamento religioso siano fuorilegge, li costringe inevitabilmente alla clandestinità, in realtà accrescendo, non diminuendo, il loro eventuale potenziale eversivo. Un mantello sotto cui i Fratelli Musulmani potrebbero celarsi è quello del sufismo, il misticismo così diffuso a livello popolare: una mimetizzazione in abiti sufi potrebbe favorire una riorganizzazione, anche perché le confraternite mistiche spesso si sottraggono alla vigilanza ministeriale (in Egitto opera un ministero per gli affari religiosi che sovrintende alle moschee e alle associazioni pie).

In tale contesto pregresso, è opportuno considerare brevemente tre aspetti: i caratteri della restaurazione militare; i rapporti del nuovo sistema di potere con l’establishment islamico ufficiale, rappresentato soprattutto dall’Azhar; il ruolo dei copti.

Il sistema militare instaurato sotto l’egida di al-Sisi presenta alcune peculiarità interessanti. Innanzitutto, si tratta di una revisione di rotta rispetto ai trent’anni di “regno” (1981-2011) di Husni Mubarak. Sotto Mubarak si era verificata una sensibile diminuzione del ruolo politico dell’esercito, anche se non del suo ruolo economico e del suo prestigio. Soprattutto negli ultimi anni del deposto presidente l’identificazione del regime con lo Stato era avvenuta attraverso la mediazione di un partito, il Partito Nazionale Democratico, e non dell’esercito, come era accaduto con Nasser (1954-70) ma anche con Sadat (1970-81). La divaricazione era stata un elemento di forte preoccupazione per i vertici militari che perciò avevano approfittato delle convulsioni della rivolta della primavera del 2011 per appoggiare, anzi favorire, il licenziamento di Mubarak, e per riprendere, dietro le quinte del sostegno ai moti popolari, il controllo della situazione.

Credo opportuno chiarire questo passaggio. I militari hanno colto l’occasione della rivolta per confermare e tornare a rafforzare il loro ruolo esclusivo nella gestione dello Stato. I militari avevano accompagnato passo dopo passo, con discrezione e abilità, l’evoluzione della “primavera” egiziana fin da quel febbraio 2011 che aveva visto il crollo di Mubarak e del suo apparato marcio di clientele, connivenze, corruttele e pseudo-democrazia repressiva. L’hanno accompagnata sia atteggiandosi a difensori della volontà popolare (chi non ricorda i carri armati coperti di ghirlande di fiori nella mitica piazza Tahrir?), sia consentendo in un primo momento ai Fratelli Musulmani di vincere le elezioni parlamentari e poi presidenziali. Quando però i Fratelli hanno preteso di impossessarsi sul serio della “rivoluzione”, l’esercito ha deciso che il tempo degli indugi era passato, e il golpe del 3 luglio 2013 ha raddrizzato, per così dire, la situazione.

Il ritorno alla normale anormalità dell’autocrazia militare non ha provocato veri scossoni. Il popolo egiziano è sempre stato per natura conciliante e tendenzialmente passivo. Superata la crisi del 2013 e consolidatosi il regime, è difficile dire, dall’esterno, quanto l’ingranaggio istituzionale funzioni coordinando esercito, polizia, ministeri e, soprattutto, magistratura. In tutta apparenza funziona. Il problema non sembra tanto quello della separazione dei poteri – esecutivo, legislativo e giudiziario – che nell’Egitto indipendente non hanno mai goduto davvero di reale autonomia reciproca. In Egitto, il dominio dell’esecutivo, dal 1922 a oggi, è sempre rimasto incontrastato, con una magistratura spesso acquiescente e un parlamentarismo di mera facciata. Il problema è piuttosto quello di mantenere oliato l’ingranaggio in un equilibrio precario che non può sottovalutare le sacche di protesta e di resistenza. Negli ultimi tempi si sono ravvivate le inquietudini e si è avuta qualche manifestazione di piazza, ma appare prematuro parlare, come pure è stato fatto, di “seconda rivoluzione” in itinere. Del resto, l’Egitto conosce letteralmente da millenni un apparato statale coeso e integrato, prodotto di una forte identità nazionale.

Al-Sisi è un pragmatico, non un teorico; ma appunto per ciò non è assolutamente casuale che abbia sempre rivendicato di ispirarsi a Nasser, cioè a un modello nazionalista in cui l’esercito rappresentava e ambisce a rappresentare l’autocoscienza delle masse e del paese. Inoltre al-Sisi, questa volta sulle orme di Sadat, si è presentato fin dagli inizi nella veste di “presidente credente”, professando però di mantenersi lontano da ogni radicalismo islamista. Ciò si è tradotto nella repressione durissima della Fratellanza Musulmana e nell’emarginazione dei partiti religiosi, in fondo riproducendo, sebbene non conclamato, il modello autoritario e intollerante verso il presunto estremismo dei movimenti di Islam politico applicato da Nasser e dallo stesso Sadat.

Questi rilievi preludono al riproporsi di un paradigma che si è tante volte evidenziato nella storia egiziana contemporanea: il convergere degli interessi del potere politico e dell’autorità religiosa. Il potere politico e l’autorità religiosa, presidenza della Repubblica e al-Azhar trarrebbero, traggono giovamento da un do ut des giovevole a entrambi. Si tratta di una strategia applicata con grande successo da Nasser, sebbene fallita sotto Sadat a causa delle paranoie e rigidità di quest’ultimo. Nasser aveva stretto e mantenuto ottimi rapporti collaborativi sia coi rettori dell’Azhar sia col papa copto. Sadat si era inimicato entrambi, soprattutto il papa Shenuda III che lo aveva più volte aspramente stigmatizzato.

L’Azhar è un’istituzione molto olistica; ormai aperta alla società e al cambiamento e all’aggiornamento dei curricula, ma comunque graniticamente salda a protezione di se stessa e della propria autorità. D’altro canto, la posizione di al-Sisi è probabilmente meno solida di quanto appaia a prima vista (e ciò spiegherebbe le durezze del suo governo). I tempi odierni non sono quelli di Nasser, che poteva far leva su due potenti ideologie mobilitanti non religiose quali il socialismo e il nazionalismo arabo, oltre all’Islam ovviamente. La paura del terrorismo (una minaccia di fatto latente nell’Egitto di oggi) e la necessità di combatterlo sono un collante debole per una società in crisi. L’Egitto, inoltre, dopo la pace separata con Israele (1979) e in seguito a una politica regionale per decenni appiattita (sia con Sadat sia soprattutto con Mubarak) su quella statunitense, non è più il leader del mondo arabo e il faro del progressismo à la Nasser. Potenzialmente al-Sisi ha molto più bisogno dell’Azhar di quanto ne avesse Nasser. L’Azhar dal canto suo ha preso posizione contro il jihadismo in nome di un Islam “del giusto mezzo”, e questo fornisce un terreno comune tra l’establishment religioso e l’élite politica attuale.

Per dare un’idea della dialettica potenziale tra al-Azhar e al-Sisi basterà ricordare un episodio emblematico. Tra il dicembre 2014 e il gennaio 2015 si era accesa un’aspra diatriba. In un discorso in occasione dei festeggiamenti per la nascita del profeta, al-Sisi aveva sostenuto la necessità di una rivoluzione religiosa (cioè di un Islam correttamente inteso secondo il suo punto di vista) contro l’estremismo e aveva accusato, nemmeno troppo copertamente, l’Azhar di indulgere più alla retorica paternalistica che all’autentica azione riformatrice. Gli ha ribattuto prontamente Ahmad Karima, professore di giurisprudenza comparativa, affermando che i testi della shari’a sono intoccabili mentre le opinioni umane sono variabili, e che comunque solo i veri esperti, come gli sceicchi dell’Azhar, hanno la competenza per esprimersi su questioni religiose. Karima, cioè, ribadiva non solo l’indipendenza ma anche la superiorità dell’Azhar sul governo. Schermaglie dialettiche, evidentemente, ma, come detto, al-Sisi e l’Azhar hanno bisogno l’uno dell’altra. Tant’è vero che, alla presa di potere di al-Sisi, l’Azhar ha epurato i professori dell’era Mursi, tornando a un sistema di nomine in cui lo Stato svolge un ruolo determinante – sopportando, in altre parole, una sorta di supervisione, se non di aperta ingerenza, della politica sull’istituzione religiosa. Inoltre, ha pubblicamente appoggiato la repressione contro la Fratellanza Musulmana e i suoi militanti. Il rettore al-Tayyib è stato uno dei pochi personaggi pubblici che hanno affiancato i militari in occasione dell’intervento contro Mursi del luglio 2013. L’università ha coerentemente emanato nuove norme secondo le quali qualsiasi studente o docente che inciti, sostenga o si unisca a proteste che interrompano l’apprendimento o promuovano agitazioni sarà espulso.

I religiosi stanno anche cercando di modernizzare i metodi di comunicazione attraverso l’uso dei social network. L’Azhar ha tra le altre cose attivato, già dal 2015, un canale YouTube per contrastare la propaganda islamista e/o jihadista, e ha ampiamente utilizzato i media per stigmatizzare il sedicente Stato islamico dell’ISIS. Tutto ciò naturalmente ha ottenuto risonanza non solo in Egitto, ma in tutto il mondo islamico dove il prestigio dell’Azhar rimane assai alto. Ma è anche musica per le orecchie di al-Sisi e dei suoi sostenitori che vi trovano una sponda contro il “terrorismo”.

Quanto ai copti, una minoranza consistente in Egitto (tra il 10 e il 15% della popolazione, ma non ci sono dati sicuri), essi hanno certamente subito le aggressioni jihadiste e gli attentati alle chiese, ma la realtà è più complessa. Ai suoi tempi, Shenuda III aveva tuonato in modo divisivo e inteso a sollecitare lo scontro confessionale contro le presunte discriminazioni cui sarebbero stati sottoposti i cristiani. Ovviamente, le politiche di islamizzazione più o meno forzata di Mursi non potevano essere gradite ai copti. Tuttavia, essi sono stati tra i corresponsabili del ritorno all’autoritarismo e al controllo militar-poliziesco del paese: hanno firmato una cambiale in bianco ai militari e ad al-Sisi pur di fermare a ogni costo gli islamisti. Il papa tuttora regnante, Tawadros II, ha intessuto e intrattiene ottimi rapporti con al-Sisi, il quale ha bisogno del sostegno della Chiesa copta come di quello dell’Azhar. In una recentissima intervista rilasciata a “la Lettura” del “Corriere della Sera” del 1° marzo 2020, Tawadros ha elogiato il colpo di Stato militare e, implicitamente, le politiche conseguenti, lieto del fatto che in questo modo i cristiani saranno più protetti. Nel gennaio 2019 la più grande cattedrale nel mondo arabo è stata inaugurata al Cairo, esplicitamente a ricompensa delle minacce e degli attentati subiti dai cristiani a opera dei jihadisti. Di contrappeso, nel gennaio 2020, al- Sisi ha patrocinato una conferenza di studi religiosi all’Azhar destinata a ridefinire come l’Islam debba rapportarsi al mondo moderno.

Insomma, le presenti dinamiche religiose ufficiali in Egitto non minacciano in alcun modo la restaurazione militare, anzi al limite la favoriscono. Ciò non toglie che anche tra gli ulema possano serpeggiare, talora a mezza bocca, insoddisfazioni e critiche. Una cosa sono le tribune pubbliche, su cui le autorità esercitano uno stretto controllo, altra cosa gli spazi che i predicatori possono riservarsi nelle moschee di quartiere. Analoghe sono le opportunità di cui potrebbero godere, in certi casi col beneplacito del governo, in altre in opposizione al governo, i salafiti, gli ultraconservatori che stanno cercando di occupare gli interstizi sociali, etici e religiosi lasciati liberi dai Fratelli Musulmani. I salafiti, come i mistici sufi, rappresentano un islamismo non ufficiale, in grado perciò di schierarsi pro o contro le scelte politiche governative a seconda delle necessità tattiche del momento. Salafiti e sufi potrebbero tanto costituire un elemento di disturbo della restaurazione militare, quanto, viceversa, un elemento di supporto: lo scenario è apertissimo.