La scuola che vogliamo

Di Francesco Sinopoli Giovedì 24 Settembre 2020 15:38 Stampa
La scuola che vogliamo ©iStockphoto.com/PeopleImages

Della scuola, dei suoi problemi attuali e futuri e di come essa dovrà impegnare il dibattito pubblico non solo oggi ma nei prossimi anni parlano diffusamente in questa sede Giuseppe Bagni ed Eraldo Affinati. Rinvio dunque ai loro preziosi contributi per il merito delle questioni che essi hanno sollevato, che condivido pienamente. Vorrei però affrontare qui un tema decisivo che pure è entrato nel dibattito pubblico in punta di piedi, e poi è stato immediatamente rimosso, per i problemi che esso crea: il conflitto tra diritti costituzionalmente sanciti, del diritto alla salute e del diritto allo studio, apertosi proprio a causa della diffusione dell’epidemia e risolto, sia dal governo che dal Parlamento, in modi che lasciano assai perplessi per effetto di una distorsione della logica emergenziale.

 


Della scuola, dei suoi problemi attuali e futuri e di come essa dovrà impegnare il dibattito pubblico non solo oggi ma nei prossimi anni parlano diffusamente in questa sede Giuseppe Bagni ed Eraldo Af­finati. Rinvio dunque ai loro preziosi contributi per il merito delle questioni che essi hanno sollevato, che condivido pienamente. Vorrei però affrontare qui un tema decisivo che pure è entrato nel dibattito pubblico in punta di piedi, e poi è stato immediatamente rimosso, per i problemi che esso crea: il conflitto tra diritti costituzionalmente sanciti, del diritto alla salute e del diritto allo studio, apertosi proprio a causa della diffusione dell’epidemia e risolto, sia dal governo che dal Parlamento, in modi che lasciano assai perplessi per effetto di una distorsione della logica emergenziale.

Una storia iniziata fin dalla prima diffusione dell’epidemia nel feb­braio scorso e proseguita nei mesi successivi senza soluzione di con­tinuità: la gravità del contagio, il numero dei decessi, il collasso della sanità pubblica, il dolore e la sofferenza di decine di migliaia di fa­miglie, il blocco quasi totale delle attività produttive e commerciali: è da questo punto che occorre partire per capire cosa è successo in Italia e nel mondo, cosa sta ancora succedendo e cosa accadrà nei mesi prossimi. Troppi i diritti costituzionali inalienabili che sono sta­ti messi tra parentesi per rispettare la logica emergenziale alla quale l’epidemia ci costringeva: è stato messo tra parentesi quel diritto alla salute degli ammalati con patologie diverse dal Covid; è stato messo tra parentesi il diritto allo studio di almeno due milioni tra alunni e studenti per ragioni economiche o soltanto tecniche (assenza di connessione internet) quando si è cercato di porre un rimedio con le lezioni da casa; è stato messo tra parentesi il diritto alla libertà di movimento quando è scattato il lungo periodo di lockdown (reso ese­cutivo con i dpcm); ed è stato messo tra parentesi il diritto alla poli­tica, all’informazione politica, alla libera associazione (abbiamo tutti capito che le riunioni a distanza limitano la partecipazione attiva) e in qualche caso e modo perfino alla libertà sindacale (l’attacco degli industriali del Nord ai protocolli di sicurezza e la furba gestione della Cassa integrazione). Almeno in Italia, l’opinione pubblica è stata let­teralmente annichilita dal virus e dalle scelte politiche e di governo per contrastarlo, nonostante l’impiego di più task force di persona­lità del mondo scientifico e tecnico. Quando si scriverà la storia di questa metà del 2020 si scoprirà che in nome dello stato d’emergenza un certo establishment ha travolto conquiste e valori costituzionali, con effetti che ancora paghiamo pesantemente. Penso solo al valore della solidarietà e dell’ospitalità, naufragato nel Mediterraneo e nei porti chiusi (anche col governo attuale). Penso al valore del rispetto tra le persone, messo a dura prova dall’esercizio ebete dell’odio collet­tivo, e non solo in rete. E penso infine a tutte quelle tutele nei luoghi di lavoro che sono saltate per effetto della crisi economica e dell’e­pidemia. Così, un numero elevato di diritti conquistati con la lotta operaia e sindacale è stato messo tra parentesi, in nome del diritto alla salute collettiva. Non interessa giudicare ora se ciò è stato giusto o sbagliato. Importa comprenderne le implicazioni politiche, sociali, culturali, educative. Perché la razionalità politica e la sua legittima­zione in virtù dello stato d’emergenza hanno stabilito le priorità tra diritti inalienabili utilizzandole per scopi talvolta non proprio liberali e democratici. Leggo così la scellerata caparbietà con la quale sono state effettuate le scelte politiche degli ultimi mesi.

Ne sottolineo una, la più importante e deleteria di tutte: la Costitu­zione materiale ha superato di colpo la Costituzione formale, met­tendo a segno una serie di “riforme” silenziose, e appunto “infor­mali”, che hanno cambiato il volto stesso della nostra democrazia parlamentare. Così i presidenti delle Regioni sono diventati governa­tori, come se il nostro fosse diventato improvvisamente uno Stato fe­derale, sul modello tedesco o americano, con l’attribuzione di poteri decisivi e di veto a una Conferenza delle Regioni inesistente sul piano delle regole costituzionali. La spinta è dettata da un malinteso senso delle autonomie regionali, come se esse potessero aprire o chiudere i propri “confini”, i porti, le scuole, le università, gli ospedali, dal momento che quei presidenti sono eletti direttamente dal popolo. La trasformazione materiale delle Regioni in veri e propri principati è una gravissima ferita alle norme costituzionali dello Stato repubbli­cano la cui democrazia si fonda sul Parlamento, non certo sui Con­ sigli regionali. La tacita adesione a questo stravolgimento concreto della Carta ha poi determinato una moltiplicazione dei poteri dell’e­secutivo a danno del Parlamento, come semplice fabbrica di voti di fiducia e non più come possibile contro bilanciamento dei poteri. Il cadavere dello stato d’emergenza è il Parlamento, del quale ora si vuole anche tagliare il numero dei componenti, come se il suo problema fosse quello di una presunta “mancanza di efficienza” e un presunto costo esorbitante e non piuttosto l’assassinio perpetrato da esecutivi nazionale e regionali. L’annichilimento progressivo del Parlamento è l’annichilimento della Costituzione e delle sue norme istituzionali, con un effetto devastante sulla democrazia, sulla parte­cipazione, sulle libertà democratiche.

È in questo contesto politico-istituzionale di profondi e ambigui cambiamenti che va letto il dibattito sull’istruzione pubblica nel no­stro paese. Per evitare il rischio di guardare il dito e di dimenticare la luna. E si spiegano anche i conflitti generati dalla contrapposizione tra diritti inalienabili, individuali e collettivi, come appunto il diritto alla tutela della salute e il diritto all’istruzione. Nell’intervento allo EuroScience Open Forum 2020 di Trieste dello scorso 4 settembre, il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco fornisce un’analisi incisiva della relazione tra i processi di sviluppo socioeconomico e il ruolo della conoscenza, con una serie di provocazioni che sfidano la nostra riflessione, al di là e oltre le pur difficili condizioni poste dalla drammatica contingenza da Covid-19. Cito qui uno dei pas­saggi centrali nel discorso di Visco che riapre al dibattito pubbli­co un’analisi sotterrata in questi lunghi mesi nei quali la questione dell’istruzione è stata ridotta al numero dei banchi e degli studenti in una classe e all’adozione più o meno larga delle lezioni a distanza. «La bassa spesa in ricerca è accompagnata da investimenti insuffi­cienti nell’istruzione» afferma Visco. «Per quanto riguarda la dimen­sione quantitativa, i dati mostrano che gli italiani non frequentano la scuola abbastanza a lungo. La dimensione qualitativa del proble­ma educativo investe il fatto che gli studenti italiani sembrano non imparare abbastanza». Difficile essere più chiari ed efficaci di così. Allo stesso tempo il governatore evidenzia uno dei problemi storici del sistema produttivo italiano e cioè il suo essere strutturalmente e morfologicamente incapace di condizionare positivamente il sistema di istruzione. Cito testualmente: «Anche le imprese private hanno un ruolo chiave da svolgere. La loro reazione all’enorme trasformazione indotta dal progresso tecnologico e dalla globalizzazione durante gli anni Novanta si è riflessa in una richiesta di costi del lavoro inferiori, invece che in investimenti più elevati e adeguati in nuove tecnologie. Ciò avrebbe stimolato la domanda di manodopera altamente quali­ficata, innescando forse un circolo virtuoso di domanda e offerta di istruzione superiore». Innovazione e formazione «sono plasmate dalla struttura del sistema pro­duttivo estremamente frammentato in Italia».

Questa affermazione è di enorme importanza non perché ci dica cose nuove ma perché vie­ne dal governatore della Banca d’Italia proprio mentre ha inizio la discussione sulle risorse del Recovery Plan e mentre si affastellano progetti da parte dei diversi ministeri, di cui stentiamo per ora a vedere un disegno unitario e coerente. Visco indica una strada chiara su cui noi insistiamo da tempo: istru­zione e ricerca sono le uniche chiavi per ricostruire il nostro sistema produttivo e non possono rispondere alle domande immediate che esso pone essenzialmente in una visione di corto respiro. Esse devono plasmare il sistema produttivo e per farlo hanno bisogno di una stra­tegia di lungo periodo che solo lo Stato può determinare, partendo da un incremento sostanziale degli investimenti diretti in questi set­tori. L’opposto delle richieste che ascoltiamo da una parte del sistema delle imprese e ora dalla leadership di Confindustria: dateci incentivi per abbattere il costo del lavoro e del resto ci occupiamo noi. Una via miope e già verificata nel suo fallimento in stagioni anche più semplici di quella attuale. Il mercato non riforma sé stesso senza un orientamento forte dello Stato, il quale, oggi più che mai, deve avere al centro non solo la crescita in quanto tale ma la sua qualità, i suoi contenuti, la sua effettiva e reale sostenibilità. Non è tempo di corre­zioni a margine ma di una inversione radicale di rotta. Se dobbiamo fare un bilancio rispetto a ciò che è avvenuto nella pandemia non possiamo però essere tranquilli rispetto alle scelte che il governatore Visco evoca. Soprattutto se le priorità reali del governo sono quelle degli ultimi mesi.

Difatti, dopo l’emanazione del “decreto rilancio” e dopo lo scosta­mento di bilancio, è evidente che le risorse “nazionali” per affrontare lo shock da Coronavirus sono di fatto terminate. Per i settori della conoscenza e per la scuola, non solo le risorse dedicate sono insuf­ficienti, ma non è previsto alcun piano organico per la ripresa. Noi abbiamo iniziato a declinare alcune richieste chiare già negli Stati generali a Palazzo Chigi: rendere obbligatoria la scuola dell’infanzia investendo molte risorse soprattutto nel Mezzogiorno, decisamente penalizzato dall’assenza di queste infrastrutture decisive e necessarie per le nuove generazioni. Portare l’obbligo scolastico a 18 anni e co­struire un solido sistema di istruzione degli adulti che ruoti intorno alla struttura pubblica dei Centri provinciali per l’istruzione degli adulti (CPIA). Una visione del sistema di istruzione, universitaria e della ricerca pubblica alternativa a quella degli ultimi trent’anni, che rimetta al centro l’idea di una infrastruttura nazionale radicata e diffusa nelle aree più fragili del paese, quindi opposta alla logica delle eccellenze e dell’autonomia competitiva. Servono un progetto e una visione che rilancino innanzitutto i nostri “sud” e le aree interne e affrontino le vere grandi emergenze del nostro tempo, a partire da quella ambientale e da quella demografica, sempre più aggravate, come dimostrano i dati Svimez. In sostanza aumentare i livelli com­plessivi di istruzione e ricerca nel nostro paese come antidoto a un declino che è iniziato prima di questa crisi ma anche di quella del 2008. Non è impresa da poco, ma se non la si percorre ora, difficil­mente potrà essere realizzata in tempi di penuria di risorse. E potreb­be essere una delle risposte possibili all’interrogativo di Ignazio Visco sul perché gli italiani frequentano la scuola troppo poco e perché in Italia gli studenti non imparano abbastanza.

Il problema non è dunque solo la quantità di risorse che si riuscirà a intercettare quanto la capacità di coniugare gli investimenti con programmi di riforma, sviluppo e di spesa credibili, per l’istruzione e per l’intero settore della conoscenza. Ma ci permettiamo di andare anche oltre le condivisibili suggestioni di Visco. Ciò che nel discorso appare sotto traccia ci rinvia alle domande fondamentali: ma perché la scuola? Perché l’università? Perché impariamo? Interrogativi bana­li? C’è una dimensione economica che non possiamo mai scindere da quella etica, civica, filosofica. Eppure, è proprio la risposta a questi interrogativi “banali” che determina la posta in gioco dell’istruzione dei prossimi decenni, e la sfida per le nuove generazioni, che il siste­ma industriale vorrebbe conformare alla propria ideologia. Ripartia­mo, nel tempo della crisi, dai “fondamentali”, dal senso, tornando all’origine. Apprendere è un processo naturale per i bambini, che lo fanno con una velocità strabiliante. Si pensi solo al linguaggio. Nei primi 24 mesi di vita essi passano dai suoni indistinti della voce alla capacità di parlare e di esprimere concetti. Si tratta di un processo incredibile, che nessuno finora ha saputo interpretare. C’è e basta. Apprendere un linguaggio è operazione assai complessa, eppure i bambini esprimono una capacità naturale che sfocia nella curiosità intellettuale, nei perché ripetuti a iosa, nelle domande poste a coloro che stanno loro vicino. Come avviene questo processo? Mediante una relazione, affettiva, conoscitiva, emotiva, perfino fisica. A questa relazione diamo il nome di educazione, che non è affatto un insieme di norme e regole (quelle vengono più avanti nella vita), ma il me­todo con il quale si concretizza la fase dell’apprendimento. Da quel momento si viene introdotti nella scolarizzazione. Cos’è la scolariz­zazione? È quel segmento del progresso umano per cui una comunità di persone impara, insieme, e l’una dall’altra, un processo di socia­lizzazione. Le scuole contemporanee sono ancora questo? Sì, perché gran parte di ciò che s’impara a scuola è sempre frutto di una relazio­ne. S’impara con gli altri e dagli altri. L’apprendimento è dunque un processo sociale, promosso dalla educazione e dalla scolarizzazione, e favorisce le fasi della maturazione individuale. Se s’impara per la vita, come pensavano i latini, lo si fa perché si vive insieme agli altri, in una dimensione originariamente intersoggettiva e relazionale.

All’inizio della pandemia, con il lockdown, il conflitto era stato me­diato dalla cosiddetta “didattica a distanza”, i cui effetti, nefasti, si sono concretizzati, nel mondo, non solo in Italia, sia sul piano di una rivoluzione economica e sociale sia sul piano del conflitto tra poteri. Ovunque, l’istruzione pubblica ha generato profitti da capogiro per le piattaforme internet over the top, del valore di circa mille miliardi di dollari in un solo trimestre. D’altro canto Thomas Piketty lo ave­va ampiamente previsto prima ancora che la pandemia scoppiasse: il capitalismo è innanzitutto e per lo più ideologia e legittimazione ideologica del profitto. E l’istruzione pubblica diventa suo malgrado elemento indispensabile di cui il capitale si serve per generare profitti e superare le crisi cicliche. Ecco perché il sistema industriale vec­chio e nuovo vuole mettere direttamente, e in maniera egemonica, le mani sul sistema pubblico dell’istruzione, e non solo per accapar rarsi i talenti e le menti migliori, ma per imprimere la direzione di marcia verso la quale orientarne gli sviluppi. Prima della pandemia ha cercato di farlo spingendo inutilmente sull’acceleratore costitu­zionale delle autonomie regionali e delle gabbie salariali. Ora, a pandemia in corso, spinge verso l’ideologia meritocratica strumentale alle neces­sità attuali e future del sistema imprenditoriale (Ernesto Galli della Loggia e Andrea Gavosto ne sono gli interpreti più fedeli), delegittimando il sindacato, la sua funzione di tutela dei lavorato­ri e mettendo in dubbio la sua capacità di rap­presentare gli interessi generali del paese. E così facendo il sistema imprenditoriale mette in di­scussione il senso stesso dell’istruzione, qua talis, non solo pubblica. Come disse Edgar Morin, il sistema capitalistico non vuole un sapere univer­sale e critico, non vuole una conoscenza generale della complessità, vuole che si sappia solo ciò che a esso è strumentale, nell’ambito di un sapere iper specialistico, perché così pensa di poter superare la caduta tendenziale del saggio di profitto e utilizzare la scienza e la conoscenza a sua discrezione (investimenti, finanziamenti, adozione di personale ecc).

Con molto acume, come sempre, è il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, a farsi carico di trovare le parole più giuste per ri­mettere la discussione nella giusta direzione, quella del ruolo dell’Eu­ropa e della sua costituzionalizzazione, passaggio ormai decisivo per garantire un futuro alle prossime generazioni. In un video-intervento al Forum Ambrosetti, Mattarella non ha avuto dubbi, a proposito dell’utilizzo dei fondi europei e del nuovo vistoso debito pubblico: «Conseguire gli obiettivi che ci siamo prefissi equivale a realizzare buona parte di quei progressi sulla via della sempre maggiore integra­zione, per un’UE sempre più efficace nella sua azione. Potremo così superare quella pagina infausta costituita dalla rinuncia del progetto definito di Costituzione europea e di ripiegamento sul Trattato di Lisbona, aprendo con coraggio la strada a quella revisione dei trattati che da troppo tempo rappresenta un vero tabù per molte cancellerie europee». La crisi legata al Coronavirus ci ha insegnato che «i pericoli e i problemi sono transnazionali» e che l’unico modo per affrontarli in modo efficace è «una collaborazione multilaterale senza riserve, come ad esempio avviene per i vaccini» ha proseguito. L’ultimo mes­saggio, il presidente della Repubblica l’ha voluto dedicare ai giovani, spiegando che «la crisi obbliga a livello nazionale e comunitario a fare ricorso massicciamente al debito. Un debito che inciderà su co­loro che ci seguiranno nel tempo. Non dobbiamo compromettere con scelte errate la speranza di accesso a condizioni sociali ed eco­nomiche, se non migliori quantomeno pari a quelle di cui abbiamo usufruito, di chi verrà dopo di noi. Le prossime generazioni guar­deranno come sono state amministrate le risorse e si chiederanno perché le generazioni che hanno avuto un lungo periodo favorevole, non siano riuscite a realizzare infrastrutture essenziali per la crescita e riforme necessarie all’efficienza del sistema sociale ed economico, accrescendo solo la massa del debito» ha concluso. Parole dure come pietre, ma che riconducono, finalmente, alla verità il dibattito pub­blico. Ecco perché quelle risorse devono essere destinate al futuro delle prossime generazioni, a partire da scuola, università e ricerca. Anche e soprattutto nel tentativo di dare soluzione concreta a quella che il sociologo Ulrich Beck aveva definito “società del rischio”.

L’indeterminatezza assoluta del rischio ha di fatto trasformato l’esi­stenza in un’avventura dall’esito imprevedibile, sostiene Beck, in cui opportunità e pericolo si danno vicendevolmente il cambio nel cal­colo delle probabilità. Una condizione che si afferma con l’avvento delle società industriali e nazionali del XIX secolo, ma che emerge in forma nuova nella seconda metà del secolo XX in seguito alle esperienze delle crisi ecologiche e allo smantellamento delle sicurezze dello Stato sociale. E che prefigura l’incertezza assoluta di un futuro su cui incombe non solo l’ombra spettrale di un inarrestabile impo­verimento economico; ma anche il dominio della tecnologia tan­to sul sistema capitalistico quanto sulle istituzioni politiche. Come giustamente aveva previsto il filosofo Emanuele Severino. Ora, che ne è del sapere in questa nuova Europa sognata da Mattarella, Beck, perfino da Severino e da qualche altro grande filosofo, come Edgar Morin o Carlo Sini? Ed è qui che si apre la frontiera del dibattito sul senso della formazione universitaria e permanente. L’epidemia da Covid-19 dovrebbe costringere le università, sul piano etico e sociale, a rovesciare la logica che ha portato alla separazione tra didattica e ricerca negli atenei, tra docenti e ricercatori. Tuttavia, le risposte del governo sono state tali da allargare il gap tra “docenti” e “ricercatori”. Avvertiamo dunque l’urgenza di una risposta accademica forte nella ricerca di nuove direzioni verso un maggior interesse delle università alla cura del pianeta e del futuro.

La capacità di “prendersi cura” del pianeta e della vita futura non è che “la cura del possibile”, che alimenta il coraggio e impone una visione condivisa dello stare al mondo assieme, tra i problemi da risolvere assieme. La conoscenza della complessità è dunque fatto­re decisivo nella trasformazione di senso dell’istruzione universita­ria, e non solo. È per questo che gli accademici hanno bisogno di apprendere-e-insegnare con gli altri, in quei mondi-della-vita. La possiamo chiamare “prassi pedagogica democratica”, intrisa di dia­logo e partecipazione, alla ricerca della verità e della soluzione per l’umanità intera. Se qualcosa abbiamo appreso dalla pandemia è che, come sostiene spesso papa Francesco, «nessuno può salvarsi da solo», e in questo senso il ruolo della scienza, della ricerca, della formazione universitaria non può che essere sottoposto a un cambio decisivo di paradigma: conta solo ciò che vale per l’umanità. Questo paradig­ma, più volte auspicato da Edmund Husserl quando avvertiva che le scienze europee sono state aggredite da una crisi di senso, è utile sia nel lavoro educativo quotidiano nelle scuole e nelle comunità edu­cative, sia nei mondi-della-vita che quotidianamente definiscono il carattere collettivo e intersoggettivo degli atenei.

Ma questo cambio di paradigma si caratterizza anche come trasfor­mazione epistemologica, poiché finalmente inquadra la direzione e il senso che la scienza, la ricerca scientifica, deve assumere quando è sottoposta a una fase crescente di crisi. Cambiare la scuola si deve, come propongono Giuseppe Bagni ed Eraldo Affinati nei loro con­tributi. Cambiare la scienza e la formazione universitaria si può, per­ché ne va del valore della vita stessa sul pianeta.