Una analisi della sconfitta del Labour

Di Domenico Cerabona Giovedì 24 Settembre 2020 17:04 Stampa
Una analisi della sconfitta del Labour ©iStockphoto.com/PeopleImages


Nel mese di giugno l’associazione Labour Together ha pubblicato il suo tanto atteso rapporto sulle elezioni politiche britanniche del 2019. L’associazione nasce con l’intento di essere un ambiente “neu­trale” tra le tante (e l’un contro l’altra armate) correnti del Labour, e all’indomani della storica sconfitta elettorale dello scorso anno ha messo insieme quindici tra parlamentari, ex parlamentari, associazio­ni, esperti, militanti e giornalisti per analizzare quello che era andato storto nella campagna elettorale conclusasi con il peggior risultato laburista dal 1935. Tra i membri della commissione spicca il nome di Ed Miliband, ex leader del Labour e ora ministro ombra per il Commercio.

Il rapporto è stato stilato grazie a un lavoro di raccolta dati lungo tre anni e si compone di sondaggi realizzati da Labour Together su quasi tutti i 650 collegi britannici, interviste a militanti, candidati e iscritti e una collaborazione con tutte le varie associazioni affiliate del Labour. Il rapporto si avvale inoltre di una analisi approfondita fatta grazie ai dati di YouGov, l’istituto di sondaggi che ha il modello mi­gliore per prevedere i risultati elettorali britannici, la cui proiezione nazionale è pressoché inutile visto che non c’è distribuzione propor­zionale nazionale del voto. YouGov, invece, è storicamente molto abile ad analizzare il voto distribuito secondo i singoli collegi e que­sto è estremamente utile per cercare di capire l’andamento elettorale. Infine, YouGov è quasi sempre molto precisa nel prevedere il risulta­to della corsa alla leadership laburista, ha cioè sviluppato un modello di analisi in grado di interpretare molto bene l’elettorato del Labour.

Il risultato di questa approfondita “analisi della sconfitta” sono oltre 150 pagine di dati su cosa è andato storto nel 2019 e cosa sarebbe ne­cessario fare per conquistare nuovamente Downing Street nel 2024.1 La prima parte del rapporto analizza nel dettaglio dimensioni, posizionamento geografico e ragioni del collasso laburista nei 59 seggi persi nel 2019 rispetto al 2017. E il risultato è molto interessante. In­fatti il Labour non ha perso solo seggi nei collegi “marginali”, e cioè in quei collegi che storicamente sono in bilico tra laburisti e conser­vatori, ma ha perso soprattutto collegi in zone che non avevano mai eletto un parlamentare conservatore. Il rapporto sottolinea come il passaggio di molti collegi rossi per tradizione ai Tories non sia stato frutto di una scelta improvvisa, ma di una lenta erosione del voto laburista avvenuta negli ultimi decenni, con un passaggio lento ma inesorabile del voto delle classi inferiori dal fronte laburista a quello dei conservatori. Questo fenomeno era già stato clamoroso nel 2017, con zone tradizionalmente laburiste che avevano visto una riduzione im­portante delle maggioranze per il Labour. Tale trend preoccupante, però, era stato “mascherato” dall’ottimo e inaspettato risultato ottenuto dai laburisti nel 2017. Ma il rapporto sottolinea come il declino laburista nelle Midlands, nel Nord-Est e nel Nord del Galles, tutte zone ex minerarie o postin­dustriali, inizia inesorabile a partire dalle elezioni del 2010.

Un trend negativo che, secondo il rapporto (ma secondo tutti i com­mentatori in generale), è dovuto a un cambiamento profondo dell’e­lettorato laburista che è sempre meno composto dalla tradizionale working class e dai ceti più “bassi” della società e sempre più costitui­to dalla classe media delle grandi città (Londra su tutte), dai giovani e, soprattutto, un elettorato istruito e cosmopolita (un trend comu­ne a quasi tutti i partiti di sinistra dell’Occidente, peraltro). Questo spiega il crollo elettorale del Labour nella Red Wall (la zona ex mi­neraria nel Nord-Est dell’Inghilterra, storicamente zona che eleggeva un nutrito drappello di parlamentari laburisti) e in generale in tutte le aree sopra elencate dove il Labour è crollato nel 2019: zone che si contraddistinguono per un’età media sempre più avanzata da cui i giovani scappano in cerca di lavoro e prospettive migliori creando le condizioni per una base demografica di elettori che, negli ultimi vent’anni, sono diventati i tipici elettori conservatori e cioè anziani che si informano quasi esclusivamente attraverso i media tradizio­nali, media quasi sempre nelle mani della grande finanza e, dunque, storicamente avversi al Labour e tra il 2017 e il 2019 particolarmente avversi a Jeremy Corbyn. Non è un caso infatti che queste stesse zone in cui il Labour è crollato nel 2019 siano quelle in cui la Brexit ha trionfato nel 2016 e il rapporto dimostra come già nel 2015 molti elettori laburisti avessero abbandonato il Labour per poi abbracciare la Brexit in occasione del referendum, a dimostrazione di un trend di lungo corso ignorato per troppo tempo da Londra.

La posizione laburista sulla Brexit è stata chiaramente una delle prin­cipali ragioni della sconfitta. L’indagine dimostra come il Labour abbia perso circa 1,7 milioni di voti di eletto­ri del leave e circa un milione di voti di elettori del remain. La posizione del Labour (trattare un nuovo accordo con l’Unione e poi sottoporlo a un voto referendario in cui una delle opzioni fos­se quella di rimanere nell’UE) non accontentava nessuna della due parti: chi aveva votato leave ha appoggiato la posizione conservatrice di portare a termine la Brexit una volta per tutte, mentre chi aveva votato remain voleva semplicemente annullare la Brexit. Il tentativo di mediazione laburista è fallito e ha causato un’emorragia di voti, a differenza di quanto accaduto nel 2017 in cui “l’ambiguità costruttiva” di Corbyn era stata un fattore decisivo nel drenare voti su ambo i lati della discussione.

Altro fattore decisivo per la sconfitta, secondo Labour Together, è stato la forte impopolarità di Jeremy Corbyn nell’elettorato: se du­rante la campagna elettorale del 2017, in cui il Labour partiva con venti punti di svantaggio e il suo leader aveva un bassissimo apprez­zamento, Corbyn era riuscito a invertire il trend ottenendo degli ot­timi risultati anche a livello di popolarità, il “miracolo” non è riuscito nel 2019. A partire dal luglio 2017, in seguito a lotte interne, scan­dali giornalistici più o meno inventati, una scissione interna e le po­lemiche sul suo presunto antisemitismo, l’apprezzamento di Corbyn è inesorabilmente crollato e, sebbene durante la campagna elettorale sia cresciuto significativamente, non è bastato per recuperare il gap nei confronti di Boris Johnson.

Discorso a parte merita la Scozia, dove non solo il Labour rimane una forza marginale come nel 2015 e nel 2017, ma dove per la pri­ma volta nella storia i conservatori eleggono più parlamentari del Labour. Questo trend è causato dalle posizioni del Labour su ben due elementi polarizzanti in Scozia: il referendum sull’indipendenza e quello sulla Brexit. Il Labour si è opposto, come i conservatori, all’indipendenza scozzese e non è visto – a differenza dell’SNP – ab­bastanza anti-Brexit. Con il risultato che l’elettorato indipendentista e anti-Brexit (che incidentalmente è composto da quelle fasce demo­grafiche e sociali che votano laburista) si è concentrato sul Partito na­zionalista scozzese, mentre quello antieuropeista e unionista si è spo­stato per la prima volta sul Partito conservatore. Anche questo è un trend di lungo periodo e che si era già evidenziato nel 2017, quando proprio grazie alle conquiste fatte in Scozia Theresa May era riuscita a salvare “la poltrona” da primo ministro mantenendo la maggioranza parlamentare in coalizione con gli unionisti nordirlandesi del DUP.

La seconda parte del rapporto ha analizzato la strategia elettorale del Labour, trovando molte pecche nell’organizzazione e nella pianifica­zione della campagna elettorale. Innanzitutto è mancata una corretta e approfondita analisi del voto del 2017 e ciò ha portato, secondo il rapporto, a una sbagliata strategia elettorale e in particolare a una sbagliata scelta degli obiettivi strategici. In sostanza il Labour non ha colto in pieno “l’ondata blu” che stava per arrivare nelle zone storica­mente rosse e invece di concentrarsi sul difendere i propri seggi “mar­ginali” ha deciso di investire risorse nell’attaccare collegi conservatori considerati contendibili ma che invece non lo sono stati affatto (uno su tutti quello di Uxbridge, il collegio di Boris Johnson alle porte di Londra, in cui il Labour ha investito moltissimo perché risulta­to contendibile nel 2017 ma dove invece ha subito una sconfitta molto significativa nel 2019). L’organizzazione nazionale è apparsa confusionaria e poco collegata con le sezioni locali del partito, questo anche e soprattutto, sottolinea il rapporto, perché i conflitti interni, durati per cinque anni, hanno creato sfiducia e sospetto all’inter­no del partito e hanno minato alla base la capacità di mobilitazione degli iscritti e dei militanti. Dal punto di vista comunicativo, poi, la campagna elettorale è stata vista come confusionaria, con troppi annunci quasi quotidiani e dunque troppe promesse considerate ir­realistiche nonostante tutte le proposte, prese singolarmente, fossero in realtà accolte positivamente dall’elettorato che però le considerava irrealizzabili dal Labour.
Questa situazione disastrosa in Scozia e nelle ex aree “rosse” deter­mina una crisi esistenziale e mette in discussione le prospettive del Labour di tornare al governo; perché anche se le grandi città hanno visto aumentare le maggioranze laburiste, con un sistema elettorale in cui non conta tanto quanti voti prendi ma dove li prendi (come dimostra l’SNP che, con meno di due milioni di voti, è il terzo par­tito di Westminster), la scomparsa di voto laburista in vaste aree del paese è una minaccia concreta per il futuro del Labour, che per ot­tenere la maggioranza di un solo seggio parlamentare nel 2024 do­vrebbe guadagnare più di 10 punti percentuali (cosa per la cronaca riuscita a Corbyn nel 2017) ma soprattutto dovrebbe guadagnare il 60% di seggi parlamentari in più: un’impresa mai riuscita nella storia parlamentare britannica.

Tuttavia, come fa notare il rapporto stesso, a partire dagli anni Ot­tanta il voto britannico è diventato più fluido, e l’appartenenza a un singolo partito è diventata sempre meno scontata. Non sarebbe quindi del tutto impossibile per il Labour riuscire a cambiare le pro­prie sorti. Il compito è però reso particolarmen­te difficile, ammette il rapporto, per la diversità dei seggi che vanno conquistati. Infatti il 63% di essi si trova nel Nord, nelle Midlands e nel Galles, in quelle zone di cui abbiamo già parlato che sono passate dal Labour ai Tories e che sono abitate dal proletariato e sottoproletariato rurale e da persone con lavori scarsamente professio­nalizzati e con un basso livello di istruzione. Un altro 24% dei seggi che andrebbero riconquistati sono invece nel Sud (in Gran Bretagna la zona più ricca del paese): alcuni collegi di Londra, piccole città attorno alla capitale e in generale zone abitate dalla classe media, con lavori altamente professionaliz­zati e con un elevato grado di istruzione. Infine, il Labour per vincere deve riconquistare almeno 15 seggi in Scozia a scapito dei nazionali­sti scozzesi. Tutto questo, ovviamente, senza perdere di vista il fatto che ben 58 seggi attualmente in mano ai laburisti sono al momento “marginali”, e cioè vinti con maggioranze risicate e sui quali sicura­mente il partito conservatore farà un lavoro mirato in questi anni, in particolare nelle zone “euroscettiche” sulle quali, infatti, lo stratega Dominic Cummings ha deciso di investire molto capitale politico ed economico a partire dalle primissime fasi del nuovo governo di Boris Johnson.

Come si può vedere, è un compito titanico quello che spetta al nuo­vo leader Keir Starmer, e la commissione di Labour Together ha alcu­ne proposte in merito, soprattutto in tema di nuovi metodi con cui svolgere la campagna elettorale e su come ricostruire una coalizione elettorale che riesca, attraverso proposte nette in tema di trasforma­zione della società, a unire elettori al momento polarizzati sul fronte della Brexit. Tuttavia l’obiettivo che pare fondamentale alla base di tutto questo è quello di ricostruire l’unità all’interno del Labour, un compito difficilissimo considerando i cinque terribili anni trascor­si tra lotte interne, tentativi di colpi di mano e persino ricorsi alla giustizia. Un compito che per il momento non sembra in grado di svolgere, nonostante le promesse, Keir Starmer che, specie negli ulti­mi mesi, si è mosso con estrema durezza nei confronti della sinistra interna, a partire dal clamoroso “licenziamento” dal governo ombra di Rebecca Long-Bailey, candidata della sinistra interna colpevole di aver condiviso una lunga intervista di una famosa attrice e attivista britannica che, in un passaggio del suo dialogo con la famosa e au­torevole testata online “The Indipendent”, accusava i servizi segreti israeliani di aver insegnato alla polizia americana l’uso della tecnica con la quale a Minneapolis è stato ucciso George Floyd. L’intervista addirittura conteneva un link a un rapporto di Amnesty Internatio­nal (poi smentito dal giornale ore dopo la pubblicazione) a conferma della tesi. Insomma, una leggerezza forse da parte della ex candidata della sinistra alla leadership, ma agli occhi di molti ex sostenitori di Corbyn la decisione di Starmer è apparsa eccessiva e strumentale ad allontanare da un ruolo chiave una figura prominente della minoran­za interna. Insomma il clima all’interno del Labour è tutto fuorché riappacificato, e Starmer dovrà impegnarsi molto per ritrovare l’unità di intenti necessaria a scalare la montagna che separa i laburisti dal ritorno al governo.


[1] Labour Together, Election Review 2019, disponibile su docs.labourtogether.uk/Labour%20Together%202019%20Election%20Review.pdf.