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Avanza la lotta delle donne in Iran. Convivere con il futuro. Italianieuropei 1/2023

Avanza la lotta delle donne in Iran Da quando, lo scorso settembre, Mahsa Amini, ventiduenne curda, è stata arrestata per il suo velo ritenuto mal posto ed è poi morta dopo tre giorni di violenze subite in una stazione della polizia morale, in Iran giovani e donne tengono vivo un movimento di protesta contro il regime che vede nella politicizzazione del corpo femminile il suo elemento distintivo più dirompente.

Convivere con il futuro La diffusione dell'intelligenza artificiale e delle sue molteplici applicazioni sta operando una nuova rivoluzione tecnologica di cui, ad oggi, riusciamo ad intravedere solo in parte opportunità e rischi. Come cambierà la nostra vita in un futuro che è già presente? Come intervenire per governare con la lucidità e la competenza necessarie trasformazioni così rapide e incisive?

 

Il corpo politico che muove l’Iran

“Donne senza uomini”, dell’artista e cineasta iraniana Shirin Neshat vinse il Leone d’argento alla Mostra di Venezia nel 2009, mentre a Teheran la Rivoluzione verde riempiva le strade e veniva repressa dai paramilitari a suon di manganelli, bastoni, pistole e spray al peperoncino. Il film racconta le storie intrecciate di quattro donne di diversa estrazione sociale durante un’altra rivoluzione, quella del 1953 a sostegno del governo di Mohammad Mossadeq e contro il colpo di Stato angloamericano che poi lo depose. La vita pubblica è in movimento e smuove le vite private: come dice una delle quattro protagoniste, «fra tutte quelle voci la volontà che muove tutto, che cambia tutto, si era impossessata di me». Afferrata dal cambiamento, ciascuna di loro si separerà dalla propria vita precedente per ritrovarsi con le altre a condividere una casa e un giardino, che è anche una metafora dell’Iran: «Ora il giardino ruota su sé stesso. Si sta sgretolando. Sembra ammalato, e non c’è più la strada del ritorno».

Donna, vita, libertà. Per non lasciare soli le donne e i giovani iraniani

In occasione del Capodanno 2023 molti degli auguri che ci siamo scambiati tra donne sono stati all’insegna della rivoluzione femminista in Iran, con un sentimento di immensa gratitudine per quelle giovani e quel coraggio estremo, che faceva sperare. La rivoluzione delle donne è «l’unica rivoluzione non fallita del Novecento». Ritornano alla mente le parole di Enrico Berlinguer che, riprendendo Hobsbawm, nei suoi ultimi anni aveva dimostrato lungimiranza comprendendo che se le donne sono libere c’è libertà per tutti. L’onda rivoluzionaria della libertà femminile, fin dal secolo scorso, come l’acqua, non ha mai trovato gabbie che potessero fermarla, e come un fiume carsico riaffiora oggi potentemente in Iran, in contrasto con la terrificante brutalità del regime degli ayatollah.

 

In questo numero

Avanza la lotta delle donne in Iran Da quando, lo scorso settembre, Mahsa Amini, ventiduenne curda, è stata arrestata per il suo velo ritenuto mal posto ed è poi morta dopo tre giorni di violenze subite in una stazione della polizia morale, in Iran giovani e donne tengono vivo un movimento di protesta contro il regime che vede nella politicizzazione del corpo femminile il suo elemento distintivo più dirompente.

Convivere con il futuro La diffusione dell'intelligenza artificiale e delle sue molteplici applicazioni sta operando una nuova rivoluzione tecnologica di cui, ad oggi, riusciamo ad intravedere solo in parte opportunità e rischi. Come cambierà la nostra vita in un futuro che è già presente? Come intervenire per governare con la lucidità e la competenza necessarie trasformazioni così rapide e incisive?

 

Quel che resta del giorno

La scena non può essere che l’annunciato, ma non meno sorprendente, ritorno al potere dei Taliban e quella della precipitosa e drammatica fuga occidentale dall’Afghanistan. Due decenni di conflitto, migliaia di vittime, masse di profughi, gigantesche risorse investite. Poi, quei turbanti nel palazzo presidenziale di Kabul. Come se il tempo fosse trascorso vanamente. In realtà le cose non sono così semplici, ma l’epilogo afghano produce, comunque, un effetto straniante. E suscita interrogativi che non si possono eludere.
Cosa rimane della lunga stagione iniziata con l’attacco di al Qaeda all’America, proseguita con le guerre di Bush jr. in Afghanistan e Iraq, la teorizzazione dell’esportazione della democrazia con ogni mezzo, la violenta deflagrazione siriana, l’illusoria stagione delle cosiddette “primavere arabe”, la proclamazione dello Stato islamico, la campagna terroristica in Occidente come articolazione del jihad globale, il riposizionamento dei regimi autocratici della Mezzaluna in funzione di antemurale islamista?

I movimenti islamisti tra crisi interne, pluralizzazione e tendenze post islamiste

A vent’anni dall’11 settembre 2001, dallo shock degli attacchi terroristici di matrice jihadista sul suolo americano, dall’avvio della guerra al “terrore”, dalle ultime in ordine di tempo esperienze americane di esportazione della democrazia con le armi in Afghanistan e Iraq, dall’avverarsi dello “scontro di civiltà” e dalle campagne di demonizzazione nei confronti dell’Islam ciò che sta accadendo in Afghanistan in questi mesi e settimane suona come il rintocco della campana che segna la fine di un’era. Un’era in cui gli Stati Uniti in particolare ma in generale tutto il mondo cosiddetto occidentale avevano cercato di mettere in atto quella che sembrava l’unica strategia possibile per difendersi dalla forza materiale e ideologica – penetrante, violenta e totalizzante – dell’estremismo di matrice islamista incarnato dai talebani e da al Qaeda prima e dalle varie manifestazioni dell’ISIS poi.

Il ritorno dei talebani a Kabul

Nel febbraio del 1989 gli ultimi soldati sovietici attraversarono l’Amu Darya, lasciandosi alle spalle un Afghanistan distrutto da dieci anni di guerra. Il ritiro, pur segnando una pesante sconfitta, era stato organizzato meticolosamente e avvenne in modo ordinato. È un ritiro molto diverso quello delle forze statunitensi e alleate al quale abbiamo assistito nei mesi scorsi, al termine di una guerra – la più lunga della storia americana – costata molte vite umane ed enormi risorse, e finita in una disfatta dell’Occidente tutto, e degli Stati Uniti in particolare che questa guerra l’hanno voluta e di cui hanno dettato tempistiche e strategie.

 

Siria e Iraq, tra fine del comunitarismo confessionale e nuove influenze

Sono passati vent’anni dagli attacchi dell’11 settembre, uno degli atti terroristici più significativi della storia moderna e probabilmente il singolo avvenimento che più ha inciso sulla storia del XXI secolo. All’alba del nuovo millennio, gli Stati Uniti potevano vantare lo status di unica superpotenza a livello mondiale, con una conseguente ineguagliabile portata a livello internazionale di hard e soft power. In questo frangente, gli attacchi compiuti da al Qaeda, oltre a influenzare in misura profonda le scelte statunitensi in ambito di politica estera e ridefinire gli interessi strategici di Washington, hanno idealmente segnato l’epilogo del momento unipolare a guida statunitense originato dalla fine della guerra fredda e posto le basi per un assetto internazionale che vede oggi la costante ascesa di un numero crescente di medie e grandi potenze.

Gli alleati scomodi: Egitto e Arabia Saudita nella prospettiva statunitense

Da tempo opinione pubblica, think tank e parte delle istituzioni statunitensi si interrogano su quali siano le basi fondamentali dei rapporti di cooperazione costruiti a tutti i livelli dagli Stati Uniti con le principali leadership mediorientali. Una riflessione resa ancor più impellente dall’insediamento di una nuova Amministrazione come quella Biden, poco incline agli autoritarismi e mostratasi più sensibile a una rinnovata attenzione verso principi etici e morali quali la difesa dei diritti umani e il sostegno alla democrazia. Al contempo, la stessa Amministrazione ha pubblicato lo scorso 3 marzo una “Interim National Security Strategic Guidance”1 in cui si sottolinea la necessità di rinvigorire e di modernizzare le alleanze e le partnership statunitensi in tutto il mondo, in particolar modo quelle in Medio Oriente.

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