L’equivoco dell’unico modello possibile

Di Ida Dominijanni Martedì 03 Dicembre 2019 11:48 Stampa


Nel 1981 Norberto Bobbio scrisse per il mensile socialista “Mon­doperaio” un lungo articolo intitolato “Liberalismo vecchio e nuovo”, in seguito incluso nel volume “Il futuro della democra­zia”1 dove mi è capitato di recente di rileggerlo. A muovere quelle pagine era la curiosità per l’onda di rivalutazione della cultura liberale che in quei primi anni Ottanta percorreva l’editoria ita­liana, soprattutto a opera di autori di sinistra delusi dagli esiti politici della propria formazione marxista. Ma di quell’improvvisa rivalutazione Bobbio era tutt’altro che entusiasta. Salutava posi­tivamente la possibilità che la reciproca diffidenza fra la cultura liberale e quella marxista potesse dissolversi, e che la seconda si aprisse alla prima di fronte agli esiti del socialismo reale così come la prima si era aperta alla seconda di fronte agli esiti del fascismo; ma diffidava del contesto politico – la rivoluzione conservatrice guidata da Reagan e Thatcher – in cui la riscoperta dei liberali, e la scoperta dei “nuovi” liberali, stava prendendo forma.

Partendo dalla distinzione fra liberalismo politico e liberalismo eco­nomico (o liberismo), Bobbio sottolineava come fosse quest’ultimo ad aver preso il sopravvento sul primo, spostando di conseguenza l’obiettivo polemico del campo liberale nel suo insieme: sotto tiro non c’era più, già all’inizio degli anni Ottanta, lo Stato autoritario dei paesi socialisti dell’Est, bensì lo Stato interventista in economia, ovvero il welfare State delle democrazie occidentali a guida socialde­mocratica o laburista. Ma essendo il welfare State l’esito necessario e inevitabile delle democrazie di massa, la pretesa di abolirlo, o di ridurlo, significava di fatto – questo il punto cruciale dell’analisi – prendere di mira la democrazia stessa. «L’offensiva dei liberali è stata rivolta storicamente contro il socialismo; in questi ultimi anni è stata rivolta anche contro lo Stato-benessere, cioè contro la versione atte­nuata del socialismo; ora viene attaccata la democrazia, puramentee semplicemente. L’insidia è grave. Non è in gioco soltanto lo Stato-benessere, ovvero il grande compromesso storico fra il movimento operaio e il capitalismo maturo, ma la stessa democrazia, ovvero l’al­tro grande compromesso storico precedente fra il tradizionale privi­legio della proprietà e il mondo del lavoro organizzato, da cui nasce direttamente o indirettamente la democrazia moderna (attraverso il suffragio universale, la formazione dei partiti di massa ecc.)».

Il liberal-socialista Bobbio aveva dunque afferra­to lucidamente e molto per tempo due nodi che nella cultura della sinistra postcomunista reste­ranno invece opachi fino a oggi: primo, che li­beralismo politico e liberalismo economico sono diversi e possono convergere ma anche diverge­re nelle intenzioni e nei risultati; secondo, che il neoliberalismo, in cui il liberismo economico prevale sul liberalismo politico, è a sua volta diverso dal liberalismo classico e non solo non è di per sé coerente con la democrazia, ma punta precisamente a distruggerla; e che dunque «l’insidia è grave». Dico subito che nella successiva e permanente opacità della cultura della sinistra italiana ed europea su questi due nodi risiede a mio avviso la ragione principale dei suoi guai dell’ultimo trentennio, e del suo “errore diagnostico”, com’è stato definito autorevolmente (da Pierre Dardot e Christian Laval in “La nuova ragione del mondo”),2 nei confronti della natura e degli effetti dell’egemonia neoliberale dell’ultimo quarantennio. Ma ci arriverò attraverso una sosta sul 1989, e sul dibattito che si sviluppò allora nella sinistra italiana at­torno alla svolta del PCI.

Come il recente trentennale del crollo del muro di Berlino non ha mancato di ricordarci, quell’evento fu vissuto e diagnosticato allora come il trionfo definitivo e finale («fine della storia», scrisse Francis Fukuyama) della democrazia e del capitalismo sul socialismo: non solo sugli esiti totalitari dei regimi dell’Est, ma su qualunque tipo di ingerenza pubblica nell’economia, e su qualunque immaginazione politica di un’ipotesi alternativa al binomio democrazia-libero mer­cato. Senonché, come il trentennale ci ha ricordato invece troppo poco, a dispetto di Fukuyama la storia si è rimessa in movimento, smentendo o capovolgendo in larga parte le promesse e le premesse di quella diagnosi. Per stare all’Europa, e tralasciando qui il pezzo di discorso che riguarderebbe l’ordine mondiale globale nato sulle ceneri di quello bipolare, a distanza di trent’anni l’Europa nata sulle macerie del muro appare unificata più dalla crisi che dal trionfo della democrazia, del mercato e della “società aperta”: spaccata com’è dalla faglia Est-Ovest che passa fra le “democrature” di Visegrad e le de­mocrazie occidentali senza impedire il contagio reciproco di derive autoritarie, sovraniste e populiste; dalla faglia Nord-Sud esplosa dieci anni fa con la crisi del debito e lungi dall’essere sanata; dai nuovi muri di intolleranza e xenofobia che spuntano dappertutto e che parevano impensabili la notte della riunificazione del cielo sopra Berlino.

Un capovolgimento di questa portata della nar­rativa mainstream dell’‘89 ha ragioni comples­se, che vanno ricercate lungo tutto il processo della riunificazione europea, all’incrocio fra le ambiguità delle “rivoluzioni di velluto” dei paesi dell’Europa centro-orientale e le modalità della loro assimilazione al modello occidentale, una sorta di annessione insensibile alla loro storia: lo spiega egregiamente un recente libro di Jacques Rupnik,3 al quale per ragioni di spazio posso qui solo rin­viare. Quello che è certo è che se nella percezione dei paesi dell’Est il liberalismo, come ha scritto di recente il “Guardian”, si è sostituito al comunismo nel ruolo del “dio che ha fallito”, le responsabilità di questa sostituzione non stanno solo nell’adesione acritica di quei paesi alla democrazia occidentale e al Washington consensus: stanno anche e soprattutto nella contraddizione stridente fra il modello li­beral-liberista presentato dai paesi occidentali come l’unico orizzonte possibile e la loro pratica effettiva di una democrazia sempre più povera, ridotta a conta elettorale, sovrastata dalla tirannia dei mercati e dalla tecnocrazia di Bruxelles. E chiamano in causa, ovviamente, l’incapacità delle sinistre europee di svelare, monitorare, correggere questa contraddizione.

È inevitabile ripensare oggi, in questo quadro, alla storia della sini­stra italiana a partire dalla svolta del PCI, che dal crollo del muro di Berlino originò e che volle imprimere fin nel nome del partito, anzi dei partiti, che mise al mondo la conversione senza se e senza ma alla Weltanschauung democratica: conversione per un verso superflua e per l’altro eccessivamente genuflessa, essendo stato il PCI, per tutto il dopoguerra, un pilastro della democrazia italiana, che proprio per questo avrebbe dovuto essere consapevole dei limiti, oltre che dei meriti, del modello liberal-democratico. Il quale peraltro alla fine de­gli anni Ottanta si trovava già sotto il tiro dell’offensiva neoliberale, come dimostra l’articolo di Bobbio da cui sono partita.

Ma nessuno degli argomenti di Bobbio, che pure diventò un nome di riferimento nel pantheon della svolta, entrò nel lungo dibattito che la accompagnò. E che tacitò altresì come minoritarie e inin­fluenti le voci che invitavano a declinare la de­mocrazia come problema, piuttosto che come soluzione: da quelle di svariati intellettuali – per primo Mario Tronti, che aveva lanciato il suo programma di “critica della democrazia politica” già all’indomani del XVIII Congresso – a quelle provenienti da culture politiche – per primo il femminismo della differenza – già allenate alla denuncia dei limiti dell’universalismo democra­tico. Prevalse invece l’adesione automatica a una democrazia data per scontata, ridotta in buona sostanza al principio maggioritario e alla regola dell’alternanza sul piano politico-istituzionale, e naturaliter abbinata all’accettazione del verbo liberista sul piano economico. Con un effetto doppiamente paradossale: per un verso di arretramento rispetto alle correzioni impresse al modello liberal­democratico dal costituzionalismo del dopoguerra, per l’altro verso di accecamento nei confronti delle trasformazioni sostanziali che la democrazia andava subendo via via che, dall’inizio degli anni Ottan­ta in poi, da liberale diventava neoliberale.

Sta qui il nocciolo dell’“errore diagnostico” cui accennavo sopra, che consiste nel considerare il neoliberalismo come una riedizione del liberismo economico classico compatibile con il liberalismo politico, ovvero come una dottrina carica sì di effetti sul piano economico e sociale, ma senza conseguenze dirette sull’impianto politico-istitu­zionale liberal-democratico. Laddove il neoliberalismo è una forma di razionalità politica che piega e conforma al codice economico, alla legge della concorrenza e all’etica dell’autoimprenditorialità e dell’autovalorizzazione l’intero edificio democratico, dalla base an­tropologica al vertice istituzionale: sì che la democrazia liberale, i suoi soggetti e le sue forme tradizionali – l’individuo politicizzato, il démos forgiato dalla partecipazione e dai valori condivisi, i partiti come sede di organizzazione degli interessi e di pratica regolata del conflitto, la divisione dei poteri come garanzia dello Stato di diritto – ne escono modificati non contingentemente ma strutturalmente.

Le nuove destre populiste e sovraniste hanno colto perfettamente il punto e l’occasione, con la loro critica dell’individualismo, la loro reinvenzione del popolo sovrano, il loro esplicito disprezzo dello Sta­to di diritto: e viaggiano infatti spediti sulla strada della democrazia illiberale. È nel campo della sinistra che continua a mancare una proposta all’altezza dei tempi, che non può limitarsi all’illusione di tornare a separare quello che ormai separabile non è più, abbando­nando il liberismo economico per salvare il liberalismo politico. Se il neoliberalismo è stato l’ultima ideologia egemonica del Novecen­to, per uscire dalla sua crisi estenuante ci vuole una mossa contro-egemonica di pari potenza e di pari raggio, che sappia a sua volta ridisegnare il patto sociale dalla base antropologica al vertice istitu­zionale. Da questa invenzione dipende la possibilità di imprimere una direzione di sinistra alla rivolta anti-neoliberale che in Europa è sequestrata dalla destra sovran-populista, ma che in altre parti del mondo sembra poter prendere strade diverse. Trent’anni dopo l'89 si tratta di rovesciare lo slogan che lo siglò, “there is no alternative”, riaprendo l’immaginazione politica a un’alternativa possibile.

 


 

[1] N. Bobbio, Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino 2014.

[2] P. Dardot, C. Laval, La nuova ragione del mondo, DeriveApprodi, Roma 2019.

[3] J. Rupnik, Senza il Muro. Le due Europe dopo il crollo del comunismo, Donzelli, Roma 2019.