Era un altro mondo

Di Gianni Cuperlo Martedì 03 Dicembre 2019 12:00 Stampa


Penso che tutto sta a vedere dove ti capita di nascere. Dove e quando ovviamente. E pure in quale quartiere e condominio e famiglia, ma questo volendo, riguarda il dopo. Nel senso che se vieni al mondo a New York e hai vent’anni l’11 settembre 2001 ci sono buone proba­bilità che la tua vita da quel giorno in avanti non sia più la stessa. E non è solo il trauma di assistere in diretta al crollo di due torri che avevi sempre considerato eterne. È proprio che paura, sentimenti, la stretta allo stomaco di scoprire che tremila persone uguali a te ieri sera cenavano tranquille e oggi non ci sono più, ecco basta quello a darti il senso che nulla tornerà com’era. Vale per quella tragedia, ma lo stesso credo valga per ogni bolognese dopo il 2 agosto o per i milanesi che cinquant’anni fa, era il 12 dicembre 1969, si trovarono precipitati nell’incubo delle stragi. Insomma ci sono date che scandiscono un ca­lendario civile e possono mutare corso, destino, a una città, un paese, una generazione, o anche al mondo. Per dire, il 6 agosto del 1945 è una di quelle date, non sono poi un numero infinito, che ha cambiato indirizzo alla storia. E il 9 novembre dell’‘89 più o meno lo stesso.

Sulla scansione dell’evento, ora per ora e minuto su minuto, bancali e scaffali hanno scandagliato il possibile. D’altra parte è la legge degli anniversari, almeno quelli di peso. In quell’‘89 famoso, ad esempio, era fiorita una produzione intensiva di saggi sull’altro ‘89 celebre e celebrato, quello francese di due secoli prima. Al fondo erano en­trambe rivoluzioni seppure parecchio distanti, non solo sul calen­dario.

Allora, dicevo, conta dove e quando cresci, ti formi, prendi coscien­za delle cose. Nel mio piccolo una nota personale posso spenderla essendo nato l’anno in cui il “muro” più importante del Novecento era stato costruito. Poi, per gli accidenti della vita, mi è capitato di sposarmi e diventare padre a ridosso dell’anno fatidico in cui quel muro è crollato, ma fa differenza. Intendo che non è la stessa cosa se in gioventù senti attorno a te i valori di una civiltà liberale e demo­cratica farsi avanti con qualche baldanza, sino appunto a coronare il sogno del muro per eccellenza picconato da ragazzi entusiasti oppure se, come accade ai nostri figli, a scortarti nella vita adulta sono im­magini di fili spinati stesi, torrette per la vigilanza rialzate e qualche nuova muraglia ergersi a difesa di confini viola­ti. Può succedere tra Stati Uniti e Messico, dalle parti di Orbán e nulla impedisce di pensare che possa accadere più vicino a noi.

Comunque di quell’‘89 conservo i ricordi comu­ni a molti. La convinzione, per noi era la prima volta, di camminare svelti dentro il libro della Storia, con la maiuscola. Cioè eri cosciente di vivere in presa diretta accadimenti destinati da lì a breve a riempire pagine di manuali, animare scenari vicini per impatto e conseguenze alle grandi pagine documentate nella memoria di continenti e popoli.

Ma andiamo con ordine. In Italia il 1989 voleva dire cose diverse. Arnaldo Forlani era segretario della DC, Craxi guidava i socialisti e Occhetto il mio partito. A metà anno il governo guidato da De Mita passava al VI esecutivo Andreotti. Per quanto valga, al Festi­val di Sanremo trionfavano Anna Oxa e Fausto Leali, il campionato lo vinceva l’Inter mentre a Maradona sarebbe toccato l’anno dopo, Giuseppe Pontiggia si imponeva allo Strega e il Dalai Lama riceveva il Nobel.

Nel mondo, sia prima che dopo il 9 novembre, accadevano parec­chie cose. Il Giappone incoronava l’imperatore, a metà gennaio Pra­ga incarcerava Václav Havel dopo la commemorazione di Jan Palach, l’Iran di Khomeini condannava a morte Salman Rushdie, l’autore dei “Versetti satanici”. Il 1° aprile Solidarność veniva riconosciuta ufficialmente mentre il giorno dopo prendeva il via la protesta degli studenti a piazza Tienanmen. In agosto dentro una baracca di Villa Literno un commando razzista uccideva Jerry Essan Masslo, rifugia­to sudafricano senza diritti, l’Ungheria a settembre apriva il varco verso l’Austria, primo strappo alla dottrina sulla cortina di ferro, il 17 novembre iniziava in Cecoslovacchia la Rivoluzione di velluto, sotto Natale un plotone d’esecuzione fucilava CeauŞescu e all’antivigilia di capodanno Havel veniva proclamato presidente. Per corollario meri­ta dire che i Pink Floyd suonavano a Venezia su una chiatta in fronte a San Marco, ad ascoltarli erano in duecentomila.

Che Achille Occhetto fosse il segretario del PCI e che il PCI fosse il partito a cui ero iscritto l’ho già accennato. In verità avevo un inca­rico specifico, da poco meno di un anno dirigevo la Federazione dei giovani comunisti. L’acronimo FGCI aveva avuto una bella storia, seppure travagliata, durante gli anni e i decenni precedenti, ma non ha senso parlarne qui. Dunque, sulla carta di quell’organizzazione ero il segretario, avevo ventotto anni e venivo dalla provincia, quest’ultimo non sembri un dettaglio inutile perché, anche solo per ragioni psicologi­che, non lo fu affatto. Cioè se ti trovi immerso in una pagina di “storia in atto” e non ti sei ancora imbevuto troppo del tuo ego conta parecchio se alle spalle hai un passato paesano, perché senti maggiormente il peso di eventi schiaccianti e ri­spetto ai quali provi una sensazione sgradevole di inadeguatezza. Così fu nel mio caso. In parte, ma solo in parte, stemperato dalle occasioni offerte perché in quei mesi due o tre momenti difficili da rimuovere capitò di viverli pure a me.

A principio dell’estate – questo fu l’antefatto – partimmo in folta compagnia verso la meta più improbabile. Corea del Nord, aero­porto della capitale, Pyongyang. Vi si svolgeva l’ultima edizione del Festival mondiale della Gioventù democratica. Ci arrivammo in Aero­flot, via Mosca con scalo tecnico siberiano. Lì sfilammo in uno stadio gremito sotto lo sguardo del vecchio Kim Il Sung, entrati sulla pista esibimmo t-shirt e fascetta in fronte inneggianti a Tienanmen. Non posso descriverlo come un trionfo di pubblico e critica, comunque lo facemmo con qualche orgoglio. Nelle settimane successive ebbi modo di passare da Berlino, la settimana prima del crollo del Muro e da Praga dove, assieme a Giovanni Berlinguer, incontrammo Ale­xander DubČek nel giorno del suo ritorno trionfale dinanzi a una piazza esplosiva. È questo che intendo quando parlo di un senso di inadeguatezza. Era una successione di eventi e tappe e incontri che non avrei saputo elaborare in tempo reale, anzi mi avrebbe richiesto una fatica proiettata per un bel tratto negli anni successivi. Le imma­gini che si rincorrevano, i giovani arrampicati a picconare il muro, le piazze di gioia, i canti, la rabbia, quel flusso di una generazione che conquistava la sua, e al fondo nostra, libertà erano una potenza in sé. Davano la misura della enormità dei fatti che si consumavano di giorno in giorno sotto gli occhi. Le rivoluzioni del resto producono questi effetti, alterano la percezione e il giudizio sulle persone e la storia e questo accadde con una certa preci­sione anche in quello scorcio di stagione. A ini­zio dicembre, questo lo ricordo bene, Gorbaciov venne a Roma e andò in Vaticano dal papa che più aveva combattuto il comunismo. Il lungo corteo di macchine passando per corso Vittorio Emanuele, da piazza Argentina al lun­gotevere aveva visto due ali di folla, di romani, assiepati ai lati ad applaudire. Insomma, era davvero un altro mondo, in ogni senso.

Poi, il 12 novembre la vicenda prende la piega nota e che segnerà gli anni a seguire. Occhetto va a Bologna e a una platea neppure enorme di partigiani rivolge quelle poche parole che avrebbero modificato la politica, almeno la nostra. Di fronte a una storia che muta con la velocità impressa dalla caduta del muro tutto deve cambiare. «Anche il nome del partito?» qualcuno gli chiede, e il segretario conferma che tutto equivale a dir tutto. Compreso quel nome. Si fonda così un lessico, un vocabolario adeguato all’impresa. Parole scortate per mesi e anni, origine di fratture e lacerazioni come solo la passione è capace di produrre. Svolta, la Cosa e il Nome, il Sì e il No, Costituente, an­che il modo di parlare e scandire gli interventi era obbligato a mutare tono e volume e sostanza.

L’anno per me si concluse a Gerusalemme in una manifestazione, “Time for peace”, costruita attorno alla meta dei due popoli e due Stati. Lì, sullo schermo dell’albergo vedemmo le immagini dalla Ro­mania con un medico intento a misurare la pressione di chi pochi minuti dopo sarebbe stato giustiziato. Andammo alla messa di Na­tale celebrata da Desmond Tutu e rientrammo a Fiumicino i primi giorni dell’anno nuovo. Nuovo in tutti i sensi. Più o meno il ricordo è questo. Nulla di meritevole credo, ma almeno sincero.

Cosa rimane di tutto quello che avvenne, al netto si capisce di qualche fotografia conserva­ta, non c’erano smartphone enciclopedici come ora? Direi una consapevolezza banale, quella di aver vissuto a cavallo di quei mesi la parte più imprevedibile ed entusiasmante della nostra gio­vinezza. Ma soprattutto l’ultima. Perché ciascu­no elaborò la cosa a modo suo, ma fu quell’anno per molte ragioni a farci capire che si è giovani per un tempo che puoi dilatare un po’. Solo un po’ però, perché se lo allunghi troppo vuol dire che rinunci a vivere davvero.