Se l’America torna a respirare

Di Ida Dominijanni Venerdì 27 Novembre 2020 12:54 Stampa

 

Per uno di quei giochi di prestigio che solo il sistema mediatico riesce a fare, la notizia della vittoria – difficile e tutt’altro che scontata – di Biden su Trump è diventata, nei media mainstream italiani, la noti­zia della non-sconfitta di Trump e della sua incombenza sul prossimo mandato presidenziale, predestinato in partenza all’immobilismo in un’America spaccata a metà come una mela. In sostanza, Biden ha vinto per modo di dire perché – sorpresa! – il populismo di Trump è vivo, vegeto e radicato, l’America “profonda” non gli ha affatto vol­tato le spalle e il nuovo tandem presidenziale altro non potrà fare che posizionarsi al centro, inanellare compromessi con il partito repub­blicano e liberarsi risolutamente dell’impiccio dell’ala sinistra della coalizione che lo ha portato alla Casa Bianca.

È l’ennesima puntata della serie “la sinistra può vincere e governare solo al centro” che in Italia va in onda a reti unificate da una tren­tina d’anni senza mai cambiare di una virgola la sceneggiatura, e lasciando volutamente fuori campo eventi, attori e circostanze che la metterebbero in questione. È così che le tesi politiche precostituite diventano ricette prescrittive: appoggiandosi ad alcuni dati di realtà, quelli ripetitivi e volti alla conservazione, e cancellandone altri, quel­li inediti e volti al cambiamento. Nella fattispecie sono certamente dati di realtà (non nuovi) che l’America sia spaccata in due (lo era già nel 2016), che il trumpismo sia ben radicato (strano che lo si scopra adesso), che Biden, già moderato di suo, dovrà governare con un Senato molto probabilmente in mano ai repubblicani e in gra­do di tenere sotto sequestro l’agenda politica (com’è già accaduto a Obama dopo i primi due anni di mandato). Ma negli ultimi anni, e nell’ultimo in particolare, negli Stati Uniti sono successe altre cose: è scoppiata una pandemia che come e più che in tutto il mondo sta mostrando le crepe del sistema e avrà conseguenze economiche e sociali immani, e si è costituito, dal basso, un popolo contrapposto al popolo mobilitato dall’alto di Trump, che porta a galla la nuova composizione demografica e sociale dell’America progressista e ha dato una spinta decisiva alla vittoria dei democratici. Sono dati di realtà anche questi, e prescinderne non aiuta a capire la piega degli eventi.

Facciamo un passo indietro, anzi due. Fino a pochissimi giorni pri­ma del voto, nei media italiani la tendenza prevalente era a “norma­lizzare” l’evento delle presidenziali. I sondaggi – smentiti nel 2016 e ri-smentiti quest’anno, ma la fede negli oracoli è dura a morire –

davano a Biden un vantaggio di circa dieci punti su Trump e tanto bastava a considerare la partita risolta in anticipo nella “fisiologica” alternanza dei sistemi bipolari. Eppure fonti autorevoli, sull’altra sponda dell’oceano, dicevano tutt’altro. Da settimane puntavano il dito sul worst scenario, lo scenario peggiore che si è poi puntualmente verificato: quello di una vittoria rossa di misura nel voto in presenza che sarebbe stata poi ribaltata dallo scrutinio del voto per posta, con conseguente contestazione del risultato da parte del presidente uscente, che contro la validità del voto postale si era già esercitato più volte e aveva anticipato le sue intenzioni eversive nel primo duello tele­visivo con Biden. Su giornali come “Guardian” e “New York Times”, non sui fogli dell’estremi­smo militante, parole come “colpo di Stato” e “guerra civile” erano state sdoganate da tempo; una settimana prima del voto, il “Guardian” aveva pubblicato un decalogo di pratiche di re­sistenza contro l’eventualità di un golpe.

Di normale dunque non c’era niente: la posta in gioco, chiarissima e annunciata, era l’intenzione di Trump di dele­gittimare il gioco democratico alla radice, nel rito basilare del voto e della sua trasparenza e attendibilità; una sorta di apoteosi del populi­smo e delle sue capacità demolitrici della democrazia costituzionale. Molti – l’ha scritto Judith Butler – sono andati a votare non tanto per Biden quanto «per la possibilità stessa di esercitare il diritto di voto», questa volta e la prossima. E come ben sappiamo, questa posta che riguarda i fondamentali della democrazia è ancora lì sul tavolo. Trump prima o poi uscirà dal suo fortino, la sua strategia giudiziaria di contestazione dei risultati, basata sul nulla, finirà con l’arenarsi e il tandem Biden-Harris entrerà nella Casa Bianca. Ma l’ex presidente continuerà a minare il credo e il credito democratico alimentando quella che Barack Obama nella sua autobiografia appena uscita, non­ché alcuni analisti acuti come David Roberts su “Vox” e Luca Celada in “Autunno americano”, definiscono «la crisi epistemologica» della democrazia americana: l’appannamento del confine fra vero e falso, fra realtà e reality, fra fatti e “fatti alternativi” su cui Trump ha co­struito tutta la sua performance politica, fino alla dissennata gestione negazionista della pandemia. Ma portata al livello della negazione del risultato elettorale, la crisi epistemologica rischia di trasformarsi in crisi costituzionale, e comunque nella delegittimazione programma­tica della presidenza Biden in metà dell’opinione pubblica americana.

Secondo passo indietro. La conferma del radicamento sociale del po­pulismo trumpiano – anzi la sua capacità di accrescere la propria base, come dimostra l’afflusso eccezionale di repubblicani al voto e l’incremento dei consensi in alcune fasce dell’elettorato – è inquie­tante, ma non è una sorpresa; e aumenta, non diminuisce, il valore della vittoria di Biden-Harris. A gennaio scorso, quando il Corona­virus non aveva ancora varcato i confini dell’Occidente, Trump era saldamente in sella, forte di un’economia che girava al massimo e di un tasso di disoccupazione prossimo allo zero, e il suo consenso era solido e compatto, a fronte di un partito democratico che si dibat­teva fra candidati alle primarie inconciliabili fra loro, Sanders (all’e­poca dato per favorito) contro Biden (all’epoca dato per spacciato) o Warren contro Buttigieg. Ma era evidente che il sistema si reggeva su contraddizioni alla lunga insostenibili: ricchezze accumulate da una parte e poveri vecchi e nuovi dall’altra, un mercato del lavoro saturo sì ma di precari ed essentials senza diritti, un melting pot compromes­so dalle politiche di confinamento dei migranti e dall’eterno ritor­no di un razzismo endemico. E quello slogan, Make America Great Again, come copertura del declino, demografico e di egemonia, dei “nativi” bianchi, e come sigla di un populismo che evocava l’unità del popolo mentre ne attizzava tutte le divisioni e i conflitti.

Imprevedibilmente, nei mesi successivi, questo cumulo di contrad­dizioni ha cominciato a sgretolarsi sotto l’effetto di due detonatori, la pandemia e l’assassinio di George Floyd, convergenti nel mettere a nudo la struttura classista e razzista del sistema: non a caso I Can’t Breathe, il grido di Floyd soffocato dal poliziotto, diventa nel giro di una notte lo slogan dell’America soffocata dal neoliberismo e dal razzismo. Per quanto possa infastidire chi, dalle nostre parti, ha rap­presentato Black Lives Matter come uno dei due “opposti estremi­smi” (l’altro essendo, in base a una improponibi­le simmetria, quello delle milizie suprematiste di Trump) che disturbavano l’ordinaria routine del bipartitismo americano, va riconosciuto a questo e agli altri movimenti nati e cresciuti negli ultimi anni di avere dato voce e spessore a una critica antisistema di segno opposto a quella populista, e di aver contribuito in modo decisivo ad ali­mentare il processo di ripoliticizzazione della so­cietà americana che si è riversato infine nella par­tecipazione straordinaria al voto del 3 novembre. Come va dato atto a Biden di avere intercettato questo processo di ripoliticizzazione riunifican­do sotto la sua “eleggibilità” un partito diviso, e siglando con Sanders e Ocasio-Cortez un pro­gramma riformista ben più deciso di quanto sa­rebbe stato nelle sue intenzioni originarie, che puntavano solo sul ritorno a una “normalità” impossibile dopo il terremoto trumpiano.

Malgrado i numeri della contabilità istituzionale spingano verso il moderatismo centrista, con quei seggi persi dai democratici alla Ca­mera e il pareggio al Senato appeso ai due ballottaggi della Georgia, la logica politica spingerebbe invece per un consolidamento della co­alizione che ha portato il tandem Biden-Harris alla Casa Bianca. Non è questione di contabilità, infatti, ma di rappresentatività e di forme della politica. Come ha detto la stessa Kamala Harris sul palco della festa di Wilmington, quei 75 milioni di voti, il massimo mai incassato da un candidato alla presidenza, non sarebbero stati possibili senza la mobilitazione sociale che ha preceduto il 3 novembre e che ha contras­segnato le vittorie più significative a livello statale: la riconquista del voto operaio bianco della Rust Belt; la conquista di uno Stato storica­mente segregazionista come la Georgia, dove il modello organizzativo costruito da Stacey Abrams e altre attiviste ha ottenuto il record della partecipazione al voto soprattutto fra gli afroamericani; la conquista dell’Arizona, con l’apporto determinante del voto giovanile ispanico; lo sfondamento fra i lavoratori sindacalizzati ispanici e afroamericani di Las Vegas. E va da sé che Kamala Harris non sarebbe salita su quel palco, né i democratici avrebbero sfondato nell’elettorato femminile soprattutto nero e ispanico, senza la lunga scia di movimenti femmi­nisti che dalle Women’s March del 2016 al Metoo, alle campagne di sostegno delle candidate del midterm ha punteggiato come una spina nel fianco il mandato di Trump. Le analisi del voto mostrano peraltro che se avessero votato solo le donne la cartina degli Stati Uniti sareb­be molto più blu, e se avessero votato solo gli uomini sarebbe molto più rossa: una conferma che il populismo pesca nell’identificazione maschile (bianca e nera) con il machismo al potere. Ma anche un se­gnale di come le linee di aggregazione delle soggettività politiche non coincidano più con le definizioni identitarie delle minoranze etniche su cui tradizionalmente si sono basate le coalizioni democratiche, e vadano rintracciate piuttosto in quella intersezione fra classe, etnia e genere su cui ruota giustamente la galassia dei nuovi movimenti.

Giusto mentre sto chiudendo questo pezzo arriva la notizia che la Commissione elettorale della contea di Detroit, in forza dei suoi com­ponenti repubblicani, non certifica il risultato elettorale favorevole a Biden. Nella transizione che Trump non concede al nuovo presidente ci sarà ancora da ballare. La pandemia intanto continua a mietere vit­time negli Stati Uniti come e più che in Europa e la crisi economica incalza. Niente lascia prevedere un tranquillo ritorno a una moderata normalità. Dopo il populismo – questo in Italia dovremmo averlo imparato – non c’è un ritorno a prima: o c’è un salto di qualità del discorso politico alternativo o c’è una deriva verso il peggio di prima. E ci sono crisi di una tale radicalità da richiedere svolte radicali al di là delle intenzioni dei giocatori politici in campo. Come ha scritto prima del voto George Parker su “The Atlantic”, la crisi del sistema ameri­cano è tale da poter spingere perfino un moderato come Biden a farsi portatore, o traghettatore, di qualcosa che assomigli a un nuovo New Deal. Né più né meno di quanto servirebbe per far rimbalzare anche nell’estenuata sinistra europea l’avvio di un nuovo ciclo riformista. Di là e di qua dall’oceano si tratta solo di tornare a respirare.