L’inevitabile trasformazione del Movimento 5 Stelle

Di Mara Morini Martedì 14 Dicembre 2021 16:02 Stampa
©iStockphoto.com/gaby_campo ©iStockphoto.com/gaby_campo

L’esito delle ultime elezioni amministrative non è stato deludente solo per il centrodestra, ma ha costituito un serio campanello d’allar­me per il Movimento 5 Stelle (M5S), che ha dimezzato i propri voti rispetto alla precedente tornata elettorale.

Per comprendere le ragioni di questa débacle, è necessario ripercorre alcune tappe dell’evoluzione del M5S che evidenziano le difficoltà che, solitamente, i partiti populisti affrontano quando si trasformano da movimento di protesta in partito di governo. Questo passaggio comporta necessariamente una ridefinizione degli elementi fondativi del movimento e, soprattutto, l’adattamento alle procedure, alle mo­dalità, ai vincoli e alle funzioni di una democrazia rappresentativa.

Ma quali sono le caratteristiche del modello originario del M5S o, meglio ancora, del “partito di Grillo”? La novità rappresentata da questo movimento si basa essenzialmente sulla decisione di utilizzare tecnologie informatiche (web democracy) per favorire la partecipazio­ne dei cittadini. Nella letteratura politologica il Movimento 5 Stelle è stato definito un partito in franchising ovvero un’organizzazione che fornisce un simbolo e riferimenti ideologici, ha diramazioni ter­ritoriali con un certo margine di libertà nello svolgere le attività sul territorio, ma le decisioni sono prese dal vertice senza confronto e condivisione con la base.

Se da un lato, l’obiettivo del Movimento è stato l’introduzione di una maggiore inclusività dei cittadini nelle decisioni politiche (“ognuno vale uno”), dall’altro lato, la leadership dei “padri fondatori” – l’idea­tore Gianroberto Casaleggio e il comico Beppe Grillo (“il megafono” del M5S e proprietario del marchio) – si manifesta in forme di con­trollo dell’operato dei militanti, delle candidature e degli eletti. Non è un caso, infatti, che già a partire dalle elezioni locali del 2012 siano apparse le prime tensioni tra la leadership “onnipotente” nazionale e gli eletti a livello locale: una contraddizione che è alla base delle tensioni e dei problemi organizzativi che plasmeranno il percorso di consolidamento del partito anche negli anni successivi. Basti pensare alla “presa della Stalingrado d’Italia”, la città di Parma, dove il neoe­letto Federico Pizzarotti si scontra pubblicamente con Beppe Grillo che ritira la concessione del nome e del simbolo ed espelle il sindaco parmigiano dal Movimento nazionale.

Indubbiamente, lo statu nascenti del Movimento ha suscitato un gran­de entusiasmo nell’opinione pubblica, unito alla speranza di avviare una “nuova politica”, con lo scopo ambizioso di aprire una finestra di opportunità per tutti coloro che erano disillusi dai partiti italiani. Le aspettative di un depotenziamento della democrazia rappresenta­tiva a favore di una deliberativa erano promettenti, ma un eventuale fallimento di questa prospettiva avrebbe comportato una profonda delusione dei sostenitori. La scommessa era, quindi, rischiosa, ma improcrastinabile, e ha attirato l’attenzione dei gruppi dirigenti ben oltre il confine nazionale.

La proliferazione di gruppi di cittadini e cittadi­ne (Gli amici di Beppe) nelle varie città ha co­stituito il prodomo delle liste civiche comunali e avviato il percorso di “istituzionalizzazione” del partito nelle arene elettorali e istituzionali.

Il M5S si è anche contraddistinto per una “fles­sibilità ideologica” che rifiuta la classica distin­zione “destra e sinistra”, proclamandosi, nelle parole di Grillo, “al di sopra” di queste etichette e proponendosi alternativo ai partiti politici tra­dizionali, incapaci di comprendere e rappresen­tare le istanze di cambiamento provenienti dalla società. Il programma politico, che costituisce l’essenza stessa del Movimento, si è basato su cinque tematiche, capaci di mobilitare i cittadini, anche offline, nei territori: connettività, ambiente, acqua, sviluppo e trasporti.

Tuttavia, è nella profonda crisi economica e morale che il M5S tro­va terreno fertile per la retorica populista che individua nella classe politica corrotta e autoreferenziale il principale avversario politico. Il M5S diventa, così, il nuovo protagonista degli equilibri politici italiani. Alle elezioni politiche del 2013 il “partito di Grillo” si pre­senta “solo contro tutti”, dando vita a un assetto tripolare del sistema partitico italiano dopo anni di bipolarismo. E proprio il passaggio da movimento nella società a partito nelle istituzioni mette in luce le principali difficoltà nel suo percorso di consolidamento.

La prima criticità risiede nel rapporto che si delinea tra il vertice del partito e la classe parlamentare. In linea con quanto era già accaduto a livello locale, Grillo espelle i parlamentari che rifiutano di attenersi alle direttive nazionali e non accetta le autonome iniziative politiche e comunicative degli eletti.

La seconda riguarda la modalità di selezione dei candidati. Attra­verso la piattaforma Rousseau, accusata dai detrattori di non garan­tire la trasparenza del voto, le cosiddette “parlamentarie”, una sorta di primarie online, hanno consentito a molte persone prive di una precedente esperienza politico-amministrativa, di essere inserite, con pochissime centinaia e, talvolta, decine di voti, nella lista di partito alle elezioni politiche del 2013.

Il terzo problema è l’aspetto organizzativo del nuovo partito, che ha visto diversi tentativi di coordinamento collegiale, come il Team del futuro, per conciliare le attività dei Meet Up dei circa 8-9000 attivisti del Movimento con quelle degli eletti ai vari livelli.

Tuttavia, sono le mancate promesse agli elettori che hanno determi­nato il crollo dei consensi del M5S a partire dal 2018. Tra queste ri­cordiamo: nessuna coalizione con i partiti tradizionali, la peculiarità di essere un “non partito”, di aprire il Parlamento come “la scatola di un tonno”, le accuse al presidente della Repubblica, il potere esercita­to dal basso, la trasparenza decisionale, il limite del doppio mandato, la contrarietà all’immunità parlamentare, l’abolizione della povertà e altro ancora. Come aveva già anticipato il sindaco Pizzarotti nel 2012, l’entrata nelle istituzioni comporta una revisione dei compor­tamenti e delle decisioni di un movimento dal basso. Un concetto ripetuto anche dal presidente del consiglio Conte: “la coerenza sicu­ramente è un valore, ma quando governi devi valutare la complessità, bisogna avere anche il coraggio di cambiare le idee quando ti accor­gi che queste sono migliori di quelle che avevamo”. E le idee sono cambiate al punto tale da diventare attore centrale nella formazione di due governi di orientamenti politici contrapposti: dalla Lega di Salvini al Partito Democratico (quello di Bibbiano?) di Nicola Zin­garetti e, poi, di Enrico Letta.

La trasformazione del M5S si è tradotta nel tradimento dei suoi va­lori fondanti e nell’adattamento alla prassi istituzionale, a quel modo di fare politica della “casta” che tanto ha attaccato. L’utopia della democrazia diretta e delle decisioni del popolo si scontrano con la re­altà dell’arte del compromesso, abilmente esercitata in questi ultimi anni dall’ex “capo politico”, il ministro Luigi Di Maio.

Nel passaggio da un governo giallo-verde a uno giallo-rosso emerge una leadership tricipite del Movimento, caratterizzata da quella isti­tuzionale (Di Maio e Fico), governativa (Conte) e originaria (Grillo e Di Battista). Inoltre, la natura “cesaristica” dell’imprinting organiz­zativo del Movimento non solo ha azzerato la democraticità interna, ma è ancora presente e acuisce la conflittualità tra le diverse anime del partito. La strategia di Grillo (particolarmente silenzioso) potreb­be essere riassunta nel motto latino divide et impera che complica ulteriormente il difficile percorso intrapreso da Conte.

Giuseppe Conte è, infatti, il presidente di un partito in una profonda crisi identitaria e organizzativa, indebolito dalle sconfitte elettorali delle amministrative e da un gruppo parlamentare che vuole portare a termine la legislatura ed essere coinvolto nella selezione del candi­dato alla presidenza della Repubblica.

Conte ha uno stile di leadership pacato, moderato e riflessivo, ma è indebolito dal fatto di non essere parlamentare e la sua precedente esperienza come capo di governo non è sufficiente a gestire le diverse anime del partito, come il recente episodio sul fallimentare sostegno alla candidatura di Ettore Licheri a capogruppo al Senato e le vivaci reazio­ni degli eletti alla notizia dell’adesione al gruppo europeo dei Socialisti e Democratici hanno di­mostrato.

Le dinamiche interne al M5S hanno inevitabil­mente disorientato gli elettori, soprattutto quelli più vicini alle istanze “della prima ora”, determi­nando un flusso di voti verso la Lega di Salvini e l’astensionismo. Inoltre, le analisi dell’Istituto Cattaneo e i sondag­gi della European Social Survey (EES) forniscono un quadro chiaro dell’impatto del cambiamento del partito sulle preferenze degli eletto­ri nel periodo 2013-18. Il profilo sociodemografico degli elettori non è sostanzialmente mutato mentre si riscontrano modifiche nell’atteg­giamento verso la politica e le istituzioni, nella posizione sui temi che dividono destra e sinistra e nel baricentro territoriale del partito.

In particolare, con le elezioni politiche del 2018 la distribuzione dei voti in favore del M5S si è meridionalizzata, con una forte concen­trazione di consenso nella regione Campania, probabilmente dovuta al ruolo di Luigi Di Maio e Roberto Fico e alla promessa elettorale di istituire il reddito di cittadinanza.

Nel 2012 la fiducia nelle istituzioni dell’elettorato 5 Stelle si attestava all’11% e al 32% verso l’Unione europea. Otto anni dopo, ben il 61% dei rispondenti al questionario della EES afferma di avere fidu­cia nelle istituzioni e il 59% verso quelle europee. Una certa sintonia tra l’elettorato e il M5S è stata quindi mantenuta nel tempo, anche sulla tematica della politica dell’immigrazione: nel 2012 circa il 60% degli intervistati ha affermato che gli immigrati arricchiscono la cul­tura italiana, per poi calare al 40% durante il governo giallo-verde.

Quale segnale emerge verso la classe dirigente del M5S dall’esito del­le elezioni amministrative? Se si escludono i casi eclatanti di Torino e Roma del 2016, il M5S non ha mai avuto delle performance elet­torali significative alle elezioni amministrative. Tuttavia, si è soliti so­stenere che questo tipo di competizione elettorale anticipi scenari di evoluzioni nazionali nel breve periodo. Nel caso di Torino il candida­to del centrosinistra, Lo Russo, ha vinto anche per il recupero di una parte del bacino elettorale del M5S mentre il resto si è trasformato in astensione. L’elezione di Gaetano Manfredi a Napoli ha, invece, rap­presentato la prova generale del cosiddetto “Nuovo Ulivo”, ovvero di una coalizione allargata del centrosinistra, ma è bene è precisare che solo in 29 sui 118 Comuni superiori ai 15.000 abitanti il M5S si è presentato insieme al PD.

Per il M5S si apre una nuova fase nella quale dovrà affrontare diverse sfide e scelte complicate per la sua sopravvivenza. In vista delle pros­sime elezioni politiche dovrà trovare e proiettare una nuova identità all’esterno, sapendo conciliare il “buono” delle tematiche del passato, come, ad esempio, riprendere la questione ambientale, con l’espe­rienza maturata in questi anni al governo. Non può, invece, permet­tersi di continuare a diffondere l’immagine di un partito conflittuale che si adagia sull’attuale percentuale di consenso per fare la “ruota di scorta o la stampella del PD” nella prospettiva, non del tutto (con) vincente, di una “stretta e organica alleanza”.