Papa Francesco e la Cina

Di Elisa Giunipero Martedì 14 Dicembre 2021 16:37 Stampa
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C’è un’idea di papa Francesco che aiuta a comprendere la sua posi­zione verso il mondo cinese: il tempo è superiore allo spazio. “Noi dobbiamo avviare processi – ha dichiarato il papa – più che occupare spazi. Dio si manifesta nel tempo ed è presente nei processi della sto­ria. Questo fa privilegiare le azioni che generano dinamiche nuove”.

Pur ponendosi in sostanziale continuità con i suoi due predecessori, nel dialogo con le autorità politiche della Repubblica Popolare Cine­se, Francesco ha però impresso una “dinamica nuova” alle relazioni tra Santa Sede e Cina, in linea con la sua visione “poliedrica” del mondo: la Cina non è una periferia lontana su cui estendere gradual­mente l’influenza del cristianesimo, ma un luogo che può irradiare cultura e contribuire alla pace. Questo ha portato a un passo storico, dopo settant’anni di conflitti e incomprensioni tra la Chiesa di Roma e il grande paese asiatico, cioè alla firma dell’“Accordo provvisorio tra Santa Sede e Repubblica Popolare Cinese sulla nomina dei vescovi”, avvenuta a Pechino il 22 settembre 2018, dopo secoli di relazioni complesse e dopo decenni segnati dall’assenza di rapporti ufficiali, da forti ostilità e da grandi sofferenze da parte dei cattolici cinesi. L’Ac­cordo, firmato in un clima di forti e crescenti tensioni tra Stati Uniti e Repubblica Popolare Cinese, è stato poi rinnovato nell’ottobre del 2020, nonostante le brutali pressioni sulla Santa Sede da parte statu­nitense, in particolare con il viaggio a Roma di Mike Pompeo, allora impegnato a sostenere la candidatura di Trump alla presidenza degli Stati Uniti.

Il testo dell’Accordo non è stato reso pubblico ma si sa che riguarda la procedura per la nomina dei vescovi cattolici nella Cina continen­tale e il ruolo del papa in tale procedura. La questione è centrale nei rapporti sino-vaticani perché è stato proprio sulla nomina e consa­crazione dei vescovi cattolici che, dal 1958 in avanti, si è aperta una frattura che ha fatto persino adombrare il pericolo di uno scisma. In altri termini, l’Accordo del 2018, che non riguarda l’instaurazione direlazioni diplomatiche tra le due parti, affronta comunque un nodo cruciale e va al cuore del problema storico della divisione dei fedeli cattolici in Cina in due comunità (non in due Chiese, come spesso viene impropriamente affermato), che dipende principalmente dal riconoscimento dei vescovi.

Dal 1958 infatti, nella Cina continentale si è avuta la presenza, a un tempo, di vescovi cosiddetti “patriottici”, riconosciuti dal gover­no cinese e la cui ordinazione episcopale era considerata dalla Santa Sede valida ma illegittima, e di vescovi cosiddetti “clandestini”, rico­nosciuti solo dalla Santa Sede e non dal governo cinese. Ecco come, negli ultimi decenni, si è sviluppata la divisione in due comunità dei cattolici cinesi: l’una ufficiale, riconosciuta dalle autorità cinesi perché aderente all’Associazione patriottica cattolica cinese, e l’altra clandestina, che, rifiutando di aderire a tale Associazione, respinge la politica religiosa del governo cinese in nome di una maggiore fedeltà al papa.

Va sottolineato però come questa divisione non abbia determinato uno scisma, lo scenario più traumatico e da sempre temuto a Roma. Molti hanno messo in dubbio la validità canonica delle ordinazioni illegittime dei vescovi cosiddetti “patriottici”, cioè riconosciuti dal governo comunista cinese, e quindi anche la validità dei sacramenti che questi vescovi hanno da allora amministrato. A metà degli anni Ottanta, sotto la direzione della Congregazione per la dottrina della fede guidata dall’allora prefetto, il cardinale Joseph Ratzinger, la San­ta Sede ha perciò effettuato un’attenta analisi del modo in cui erano state celebrate queste consacrazioni, finalizzata soprattutto a rilevare sostanziali violazioni dei principi liturgici e sacramentali. Al termine dell’istruttoria, la Congregazione ha concluso che, sebbene illegitti­me a causa dell’assenza del mandato apostolico, le ordinazioni dei vescovi “patriottici” erano da considerarsi valide. Dagli anni Ottanta, molti vescovi “patriottici” hanno inviato richieste di riconoscimento a Roma, e molte di queste richieste sono state accolte. Da decenni, quindi, la maggioranza dei vescovi “patriottici” è stata reinserita nella piena comunione ecclesiale.

Procedere a un Accordo con il governo cinese proprio su questo pun­to è stata dunque una scelta in continuità con un lungo percorso precedente di avvicinamento e dialogo tra Roma e Pechino, ma solo Francesco ha abbandonato la tradizionale logica centro-periferia se­condo cui l’Occidente è il centro per la Chiesa e la Cina la periferia. Al contrario ha manifestato un atteggiamento di forte simpatia e ri­spetto verso il popolo cinese e ha perseguito una politica di avvicina­mento alla Cina con un’inedita chiarezza e determinazione, sceglien­do collaboratori che condividono pienamente le sue idee e che le realizzano con competenza ed efficacia, in primo luogo il Segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin, che Francesco ha ri­chiamato dal Venezuela non appena eletto papa.

L’atteggiamento di papa Francesco verso la Cina si comprende nel suo ampio e universale oriz­zonte che è quello di una sfida comune per la pace globale in cui la Cina è chiamata a giocare un ruolo attivo e positivo. Tuttavia questa scelta si colloca oggi in un momento nel quale da più parti si pretende di semplificare il quadro delle relazioni internazio­nali proponendo la narrazione del ritorno alla guerra fredda. Il papa deve perciò costantemente affrontare critiche per l’Accordo con la Cina che si saldano al tentativo di ingabbiare la Chiesa cattolica nel ruolo di baluardo dell’Occidente.

Non si può dimenticare il fatto che papa Francesco sia un gesuita: oltre a suscitare ammirazione agli occhi degli intellettuali cinesi, che conoscono l’atteggiamento di rispetto della cultura cinese da parte di molti gesuiti del passato, questo lo rende ancor più ricettivo di diver­si aspetti culturali e capace di riconoscere la manifestazione di Dio in specifici contesti culturali. Dal XVII secolo a oggi, i gesuiti e la Cina hanno vissuto un rapporto privilegiato e, grazie alla loro rigorosa formazione umanistica, alcuni grandi missionari gesuiti sono diven­tati studiosi appassionati di una civiltà antica come quella cinese e si sono dimostrati in grado di comprenderla.

D’altra parte, l’Accordo sta lentamente dimostrando la sua efficacia. Le due principali novità rese possibili dall’Accordo sono: due vesco­vi della Repubblica popolare cinese hanno partecipato nel 2018 al Sinodo dei vescovi sui giovani, per la prima volta dal 1949 potendo recarsi a Roma per incontrare il papa e gli altri vescovi della Chiesa universale; dal settembre 2018 a oggi si sono avute nella Repubblica popolare cinese sei ordinazioni episcopali, avvenute senza incidenti sulla base della nuova procedura: in cinque casi su sei durante lacerimonia è stato ufficialmente sottolineato che “il candidato è ap­provato dal papa”. L’ultima in ordine di tempo si è avuta lo scorso mese di settembre a Wuhan, metropoli che è stata epicentro della pandemia di Covid-19 e che era senza guida da quattordici anni, cioè dalla morte dell’anziano vescovo Dong Guangqing, che fu il primo tra i vescovi cinesi nel 1958, durante la campagna del Grande balzo in avanti lanciata da Mao, ad accettare la consacrazione episcopale illegittima e che in seguito venne segretamente riconosciuto dalla Santa Sede. Inoltre, nello stesso percorso verso il superamento della divisione tra cattolici “patriottici” e “clandestini”, dal 2018 a oggi, sei vescovi in precedenza ordinati segretamente e quindi “clandestini” sono stati pubblicamente riconosciuti dalle autorità cinesi.

Sebbene dal mese di gennaio 2020 i contatti tra le due parti abbiano inevitabilmente subito una battuta d’arresto a causa della situazione creata dalla pandemia di Covid-19, degno di nota è l’incontro, avve­nuto a Monaco di Baviera il 14 febbraio 2020, tra monsignor Paul R. Gallagher, Segretario per i Rapporti con gli Stati della Santa Sede, e Wang Yi, ministro degli Esteri del governo di Pechino: l’incontro non ha precedenti nella storia delle relazioni sino-vaticane dal 1949 e segnala la volontà di proseguire sulla strada dell’Accordo.

IL PUNTO DI VISTA CINESE

Il recente VI Plenum del XIX Comitato centrale del Partito Comu­nista Cinese (8-11 novembre 2021) ha approvato una nuova risolu­zione sulla storia del Partito che celebra quest’anno il suo centenario. Si tratta della terza risoluzione di questo genere dalla fondazione del PCC a oggi ed è opinione condivisa che questo passo preannunci il terzo mandato presidenziale che dovrebbe essere conferito a Xi il prossimo anno, facendo così saltare il limite di due mandati, rispetta­to invece dai suoi predecessori. Il Comitato centrale ha elevato il pre­stigio di Xi Jinping al livello di Mao Zedong e Deng Xiaoping e dun­que il suo contributo ideologico alla storia della Repubblica Popolare Cinese è destinato ad avere un peso crescente e decisivo. Del resto, il “Pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi nella nuova era”, già in precedenza era stato considerato importante guida ideologica per l’azione del PCC con il suo ufficiale inserimento nello Statuto del Partito nel 2017 e nella Costituzione della RepubblicaPopolare Cinese nel 2018. Il contributo di Xi ruota intorno a due pilastri: ricerca di maggiore stabilità interna e rafforzamento della capacità di proiezione internazionale (senza però che questo implichi necessariamente l’idea di realizzare un’egemonia globale cinese).

Quale sia il pensiero di Xi Jinping in particolare sul ruolo delle reli­gioni in Cina si può dedurre da alcuni suoi interventi. In particolare, durante l’ultima Conferenza nazionale sul lavoro religioso, svolta­si nell’aprile 2016, ha indicato la “sinizzazione politica” come linea programmatica per tutte le comunità religiose in Cina. Del discorso tenuto da Xi, non pubblicato, l’agenzia ufficiale Xinhua ha sottoli­neato l’“unità tra gruppi religiosi e non religiosi nella società, insieme all’unità etnica e regionale”; la “localizzazione di religioni ‘straniere’ per renderle più ‘cinesi’ e prevenire infiltrazioni straniere”; la “limi­tazione dell’influenza della religione tenendo la religione separata dall’amministrazione governativa, dal sistema legale e dall’istruzio­ne”; la “guida del Partito sulle religioni”. Una “sinizzazione politica” delle comunità religiose presenti nel paese che devono contribuire alla stabilità interna e al prestigio internazionale del­la Cina nella “nuova era” di cui parla Xi Jinping.

L’apertura verso la Santa Sede conferma il per­seguimento di una politica estera di inedita ambizione e, dal punto di vista cinese, non è in contrasto con una rigida politica religiosa che rafforza il controllo delle autorità politiche sulle comunità religiose. La dirigenza politica cinese cioè non considera questa firma in contrasto con la «sinizzazione politica» delle religioni perché, in entrambi i casi, l’obiettivo è anzitutto quello irrinunciabile del­la stabilità sociale. Si vuole evitare che siano nominati nuovi vesco­vi clandestini, con le conseguenti divisioni tra i fedeli e polemiche internazionali nonché le potenziali opposizioni al regime da parte dei cattolici clandestini. Con l’Accordo, si punta a superare anche le tensioni legate alle ordinazioni di vescovi illegittimi, cioè quelli riconosciuti solo da Pechino, perché creano dissenso nelle comuni­tà cattoliche. Oggi le comunità cattoliche sono composte e guidate da cittadini cinesi e ben inserite nel contesto sociale e culturale del paese. Mentre la leadership politica affronta il crescente problemadella presenza in Cina di nuove Chiese cristiane, di sette e religioni di vario genere, più sfuggenti al controllo governativo, le autorità considerano opportuna la “pacificazione” delle comunità cattoliche sparse in tutto il paese. La ricerca di maggiore stabilità interna è stret­tamente legata al rafforzamento della capacità di proiezione interna­zionale di Pechino.

LA QUESTIONE DI TAIWAN

Storicamente le relazioni diplomatiche tra Santa Sede e Cina risalgo­no a pochi anni prima della vittoria comunista nella Guerra civile ci­nese. Fu dunque con la Repubblica di Cina che la Santa Sede stabilì le relazioni nel 1942, inviando nell’allora capitale Nanchino il primo internunzio apostolico, monsignor Antonio Riberi, nel 1946. Due anni dopo la proclamazione della “Nuova Cina”, nel 1951, Riberi venne espulso dal territorio della Cina continentale come “nemico del popolo”, trasferendosi a Hong Kong e di qui a Taipei, dove le forze nazionaliste sconfitte dal PCC si erano ritirate, preservando la continuità giuridica della Repubblica di Cina come Stato sovrano limitatamente al territorio di Taiwan e di piccoli arcipelaghi a essa contigui.

Dal 1949 in poi, come è noto, Taipei e Pechino avrebbero continuato a considerare il proprio governo il legittimo governo della Cina. Non riconoscendo l’esistenza della Repubblica popolare, Chiang Kai-shek e i suoi successori fino a oggi non hanno mai proclamato la formale indipendenza di Taiwan. D’altra parte, la questione, a lungo bloccata nella gabbia del bipolarismo Est-Ovest, è rimasta irrisolta e si presenta oggi come un perdurante lascito della vecchia Guerra fredda. Il PCC da oltre settant’anni rivendica Taiwan come parte del territorio della Repubblica popolare ed esclude categoricamente l’esistenza di “due Cine”. La politica di “Una sola Cina” è stata accettata pubblicamente da molti Stati, tra cui gli Stati Uniti. Su questo punto è in gioco la le­gittimità stessa del Partito che considera da sempre quella di Taiwan una questione interna, ormai l’ultimo tassello della grande missione storica di pieno recupero da parte di Pechino della sovranità su tutto il territorio che era stato dell’ultima dinastia imperiale dei Qing, pri­ma dell’“umiliazione” delle guerre dell’oppio. Non a caso Xi Jinping ne ha parlato il 10 ottobre 2021, cioè nel 110° anniversario dellarivoluzione del 1911, richiamandosi così implicitamente al progetto di riunificazione del paese che, dopo la caduta del sistema imperiale, fu ideato dal padre della Repubblica cinese, Sun Yatsen. È da notare come in questa occasione il presidente cinese abbia parlato dell’uni­ficazione tra Pechino e Taiwan omettendo di pronunciare la formula, usata in occasioni precedenti: “senza escludere l’utilizzo della forza”. Diversamente quindi da quanto riportato da molti media occiden­tali, il suo discorso, pur proseguendo chiaramente nella prospettiva di lungo periodo e nell’ipotesi di giungere alla riunificazione con Taiwan entro il 2049, segnalava un tono più disteso. È chiaro che per Pechino l’interesse strategico e quello storico-politico nei confronti di Taiwan si saldano, ma la maggiore volontà di indipendenza della popolazione dell’isola e l’attuale politica statunitense per il conteni­mento della RPC nell’Asia-Pacifico complicano il quadro e possono contribuire ad accelerare il cambiamento dello status quo.

Per quanto riguarda la Santa Sede, essa intrattiene ancora rapporti diplomatici con Taipei dando così all’isola il riconoscimento più im­portante a livello internazionale che abbia conservato rispetto a Pe­chino. A questo proposito non va dimenticato che due sono sempre stati gli ostacoli che le autorità di Pechino per decenni hanno posto come condizioni irrinunciabili per il dialogo con la Santa Sede: la rottura delle relazioni con la Repubblica di Cina e l’assoluto rifiuto di qualsiasi interferenza negli affari interni della Repubblica Popolare Cinese da parte di entità straniere. Se la firma dell’Accordo non ha coinciso con la rottura delle relazioni con Taiwan ciò significa che nel 2018 da parte di Pechino non è stata considerata prioritaria e che l’o­biettivo dell’allacciamento di relazioni diplomatiche tra Santa Sede e RPC, pur senza essere stato escluso, è stato quantomeno rinviato nel tempo.

Sebbene i diplomatici della Segreteria di Stato vaticana abbiano da tempo aggirato l’ostacolo di una scelta esclusiva per Taiwan – ri­dimensionando il rango della rappresentanza diplomatica cui, dal 1971, non è stato più preposto un nunzio – il fatto che recentemente siano cresciute le tensioni su questo snodo strategico espone la Santa Sede al rischio che la questione dei rapporti Vaticano-Taiwan ven­ga trascinata nella nuova competizione USA-Cina per il controllo dell’Asia-Pacifico.