Una scelta per il Ventunesimo secolo

Di Micheal Werz Giovedì 09 Ottobre 2008 17:58 Stampa
Uno dei due candidati alle elezioni presidenziali americane si troverà presto a fare i conti con uno scenario politico globale estremamente complesso ed entrambi dovranno dunque precisare il loro programma politico. McCain sarà costretto a scegliere fra le diverse correnti che animano il suo entourage, imprimendo finalmente un carattere univoco al suo programma in politica estera. Obama, invece, dovrà dare maggiore determinatezza alle sue parole, che fino ad ora hanno raccolto un seguito considerevole non tanto perché espressione di una profonda innovazione, quanto perché pronunciate da una persona che incarna in sé una società in costante mutamento.

Le prossime elezioni presidenziali americane, che si svolgeranno nella prima settimana di novembre, chiudono un’era che non è stata tale. Dopo la fine della guerra fredda e il crollo del socialismo reale nel corso degli anni Novanta si è imposta una presunta supremazia americana che, anche senza l’invasione dell’Iraq, si sarebbe comunque rivelata un malinteso storico. A Washington i neoconservatori parlavano di un momento unilaterale, ridottosi poi a una frazione di secondi nel panorama della storia mondiale.

I democratici, come Madeleine Albright, continuarono a definire gli Stati Uniti una indispensable nation, una nazione indispensabile. Simili espressioni sono oggi estranee sia al candidato repubblicano John McCain sia al suo avversario democratico Barack Obama. Questo perché entrambi si distaccano dalle tradizioni dell’amministrazione Bush e, nonostante tutte le scaramucce, non hanno punti di vista così divergenti in materia di politica estera, come del resto la maggior parte dei partiti cristiano-democratici e socialisti in Europa. Questo fatto è strettamente legato allo scenario politico globale che caratterizza il Ventunesimo secolo. La comoda semplicità dello scontro tra blocchi ha lasciato il posto a indistinte e complesse formazioni geopolitiche, nelle quali confluiscono spesso la po- litica interna e quella estera, gli aiuti umanitari e gli attacchi militari, senza che sia sempre possibile distinguere gli uni dagli altri. Sia John McCain sia Barack Obama sanno che è finito per sempre il tempo delle formule semplici. Si aggiunga a questo che in novembre il Partito democratico riuscirà a guadagnare un numero considerevole di seggi alla Camera dei Rappresentanti e al Senato, tanto da rendere impossibile la prosecuzione della politica del confronto che ha caratterizzato i primi anni dell’amministrazione Bush, anche nel caso in cui fosse un presidente come John McCain a imporla. L’ironia della sorte vuole che l’identificazione con George Bush rappresenti una barriera forse insormontabile per la candidatura di John McCain. Quasi la metà degli elettori americani nutre forti perplessità nei confronti del candidato repubblicano proprio a causa di una prossimità a quanto pare troppo stretta tra i due uomini politici.

Tali incertezze non si sono affievolite neppure con il viaggio dimostrativo compiuto da McCain alla fine di aprile nelle “regioni dimenticate” del paese, nella città ancora ampiamente distrutta di New Orleans, in occasione del quale il candidato repubblicano ha sferrato un abile attacco retorico al governo Bush. All’epoca della catastrofe il presidente aveva sorvolato New Orleans a bordo dell’Air Force One a un’altezza di ottocento metri dal suolo, lasciandosi fotografare mentre guardava costernato fuori dal finestrino. «Lo dico in tutta sincerità», ha affermato McCain a New Orleans, «se fossi stato presidente degli Stati Uniti in quel momento avrei ordinato l’atterraggio immediato dell’aereo presidenziale nella base aerea più vicina e mi sarei precipitato qui». Ha poi aggiunto immediatamente dopo: «Il potere decisionale era in mano a gente incompetente che ha completamente sottovalutato la portata della catastrofe». Con queste parole McCain si riferiva all’amico di Bush, Michael D. Brown, sottosegretario di Stato per la preparazione e la risposta alle emergenze. Poco dopo le inondazioni, il presidente aveva speso parole calorose di encomio per il funzionario politico che due settimane dopo era stato però costretto a dimettersi a causa della sua dichiarata incompetenza.

New Orleans è la metafora di un partito repubblicano dilaniato che negli ultimi sette anni ha assistito a un processo di disintegrazione delle fondamenta politiche su cui poggiava ad opera delle correnti neoconservatrici e corporative. Evitare la rottura definitiva tocca ora proprio a un candidato legato a gran parte dell’establishment repubblicano e alla Casa Bianca da un sentimento di cordiale avversione e che è riuscito a vincere solo perché gli altri due concorrenti alla nomination, Mitt Romney e Mike Huckabee, avevano spaccato il fronte dei voti dell’ala destra del partito.

Per quanto riguarda la politica estera la posizione di McCain risulta imperscrutabile. A Washington sono in molti a chiedersi se nel quartier generale del candidato repubblicano si giungerà a una gara a eliminazione tra i pragmatici e alcuni sparuti neoconservatori che sembra abbiano guadagnato terreno negli ultimi mesi. Bob Kagan, forse il principale intellettuale tra i neoconservatori, aveva scritto parte di un discorso conclusivo in materia di politica estera tenuto da McCain alla fine di marzo a Los Angeles, nel quale il candidato repubblicano si definiva un “idealista realista”. Anche Randy Scheunemann, cofondatore del famigerato “comitato per la liberazione dell’Iraq”, fidato e saggio consigliere in materia di politica estera di McCain, nutre simpatie per gli esportatori radicali della democrazia. In un articolo apparso sul “Financial Times” Gideon Rachman aveva espresso il proprio malcontento nei confronti di presunti progetti in base ai quali risultava che il candidato repubblicano intendesse dare vita a un’organizzazione costituita dalle cento principali democrazie mondiali, con l’esclusione della Russia e della Cina, che operasse quasi come antagonista delle Nazioni Unite. McCain, attenuando tali considerazioni, aveva risposto di considerare un proprio dovere mostrarsi aperto a una molteplicità di posizioni.

L’opposizione nello schieramento di McCain è invece costituita da amici di vecchia data e alleati politici, come l’ex ministro degli Esteri Colin Powell, il suo ex vice Richard Armitage e Brent Scowcroft, che fu consigliere per la sicurezza nazionale di Bush padre e nel 2002 attirò su di sé l’avversione del figlio, dichiarando al “Wall Street Journal” la propria disapprovazione per l’invasione dell’Iraq. Costoro sono preoccupati per la rinnovata influenza esercitata da questo esiguo gruppo di neoconservatori convinti e per la certezza che nutrono di dover rendere il mondo migliore a tutti i costi. Si tratta di tradizioni che concorrono con quelle dell’establishment repubblicano e che si richiamano agli «intellettuali liberali e delusi degli anni Settanta », come afferma Irving Kristol, uno dei padri fondatori del neoconservatorismo.

Non è ancora chiaro da quale parte si schiererà John McCain. In politica estera il candidato si mostra energico, ma non è possibile delineare una linea univoca nella sua posizione. Gary Schmitt ritiene che non ci si possa aspettare una revisione completa della politica estera americana, perché le numerose discussioni sugli interventi militari, sugli aiuti allo sviluppo e sulla presenza degli Stati Uniti in diverse aree di crisi hanno provocato, a partire dagli anni Novanta, una «certa stanchezza in materia di riforme»; meglio concentrarsi dunque sulle «istituzioni per farle funzionare nel miglior modo possibile». Grazie a una trentennale esperienza di politica estera McCain, a differenza di Barack Obama o di George Bush, non dipende dai suoi consiglieri ed è in grado – aggiunge Schmitt – di decidere autonomamente sui temi cruciali, lasciando a questi ultimi il compito di «colmare qua e là qualche lacuna».

La biografia di Barack Obama è completamente diversa: un altro sguardo sull’America e sul mondo. Eppure le posizioni politiche del senatore dello Stato industriale dell’Illinois non si distaccano del tutto da quelle del senatore dell’Arizona. Barack Obama è interessante perché rappresenta una novità e non tanto perché simbolo di una politica effettivamente nuova. I discorsi e il programma fino ad ora presentati sono ancora troppo indeterminati e incerta risulta l’effettiva capacità di attuazione delle grandi idee – tutela ambientale, energie rinnovabili, assistenza sanitaria generale, riforma fiscale per la classe media e rapido ritiro delle truppe dall’Iraq. La sua campagna elettorale ha sviluppato una straordinaria dinamica perché la candidatura di un uomo politico di colore, figlio di un immigrato africano, lo ha posto al centro di una società americana in perenne mutamento. Obama rappresenta gli Stati Uniti e parla a nome di tutti. Quando, dopo una campagna politica durata un anno e mezzo, è stato finalmente nominato candidato, ha esclamato davanti a 17.000 sostenitori entusiasti: «America, questo è il nostro momento». La portata di questo momento era visibile ovunque. I pessimisti ritengono che il senatore dell’Illinois si sia avventurato in una missione disperata, mentre gli ottimisti vedono nella straordinaria mo- bilitazione degli elettori un segno premonitore di una storia di successo. Il prossimo novembre gli elettori americani decideranno se cambiare la storia, con una netta rottura col passato.

Barack Obama è cresciuto tra il Kansas, l’Indonesia e le Hawaii. Figlio di una madre bianca e di un padre keniota, appartiene a un nuovo gruppo di americani e non è il solo a non avere un’origine etnica univoca. Nel 2000 negli Stati Uniti è stato condotto un censimento adeguato alla realtà del paese, che prevedeva per la prima volta la possibilità di barrare più di una razza di appartenenza. Sei milioni di cittadini hanno scelto questa opzione. Intervistato dal “New York Times” in merito all’indefinitezza della sua origine, Obama ha risposto: «Sono un test di Rorschach; anche se la gente sarà delusa da una mia eventuale vittoria, otterrà comunque qualcosa». Obama infatti non sarà solo il primo presidente di colore nella storia degli Stati Uniti, ma anche il quarantaquattresimo presidente bianco. Certo, la vecchia equazione “nero più bianco uguale nero” è ancora valida ovunque, ma la biografia di Obama oltrepassa questa tradizionale costellazione cromatica. Walter F. Fauntroy, ex deputato del Congresso, definisce la candidatura di Obama un «punto di svolta nella storia americana» che potrebbe condurre a un nuovo contratto sociale nel quale la razza, la fede e il colore della pelle svolgeranno solo un ruolo marginale. Tali dichiarazioni non sorprendono né hanno un forte impatto sui sostenitori più giovani del candidato democratico. La generazione dei ventenni statunitensi è cresciuta in un società eterogenea con la consapevolezza di farne parte. Orlando Patterson, sociologo dell’università di Harvard, ha coniato la calzante espressione “cultura ecumenica” per descrivere questo nuovo gruppo contraddistinto da una cultura inconsapevolmente eterogenea.

Ma chi ricorda il movimento per i diritti civili e gli scontri legati al fenomeno è in grado di comprende che Barack Obama sta tentando di ridistribuire le carte negli Stati Uniti. La consapevolezza, incarnata simbolicamente nella persona stessa del candidato democratico, che, in una mescolanza di bianco e nero, i due colori non si escludono a vicenda ha ampie trasposizioni politiche. Il segretario di Stato Condoleezza Rice, subito dopo la sua nomina, esclamò che «gli Stati Uniti sono un paese davvero singolare che ha avuto bisogno di due se- coli per attuare i propri principi», aggiungendo tutto d’un fiato a proposito della dichiarazione di indipendenza del 1776 che l’espressione «noi il popolo, inizia finalmente a comprendere noi tutti». Ma le cose non sono così semplici. Barack Obama produce costanti dissonanze tra percezione e realtà. La sua è una grandiosa retorica che non deve essere confusa con la realtà. Obama può rivelarsi una profonda delusione perché la profusione delle sue parole verrà arrestata dall’evidenza dei fatti. L’Iraq sarà il primo scoglio a esigere abili manovre realiste. Fino ad oggi Obama è stato bravo soprattutto a promettere.

Le dissonanze tra percezione e realtà riguardano anche la sua persona. Il candidato democratico è nero, ma nella sua compagna elettorale non c’è traccia della tradizionale retorica afroamericana. Eppure quando entra in una sala quasi nessuno riconosce in lui un candidato post etnico. Ciò corrisponde anche alle esperienze vissute nei quartieri meridionali di Chicago; alla domanda se nella sua città era considerato nero, Obama risponde ironico: «Sì, nella misura in cui riesco a valutarlo». D’altro canto, su entrambi i lati del confine costituito dal colore della pelle, il lascito di Obama rappresenta la società americana del Ventunesimo secolo. Il giornalista James Burnett ha sottolineato con sagacia che ignorando la multietnicità di Obama «si sminuisce il significato storico di quello che ha raggiunto » perché «c’è stato un tempo in cui nel nostro paese non ci si poteva definire multietnici (biracial) senza mettere in gioco la propria vita». Barack Obama proviene da una terra di nessuno e il suo essere privo di una patria etnica rovescia gli schemi percettivi tradizionali – per i neri forse più che per i bianchi. Per questo motivo è difficile valutare le chances del senatore di Chicago, pur essendo molti i segnali che lasciano presumere una schiacciante vittoria dei democratici. A prescindere da quali saranno gli sviluppi futuri della politica, commenta il giornalista della CNN Frank Sesno, in uno degli orari di maggior ascolto: «Non siamo ancora mai stati in questo posto».

Quando Nancy Pelosi, leader della maggioranza democratica alla Camera dei Rappresentanti, dichiarò «Obama apre nuove prospettive per noi tutti», era chiaro che quel “noi” andava ben oltre il partito democratico. La candidatura di Obama non crea solo nuovi legami tra i cittadini ame- ricani, ma richiama alla mente anche episodi storici e lo fa con una forza indescrivibile. In un’intervista il giovane studente Chad Mace ha descritto le dimensioni sensoriali ed extrasensoriali dell’anno politico 2008 affermando: «Esiste una nuova via d’accesso per i sogni dei neri. La cosa ha assunto caratteristiche intime, personali. Tutti noi ci sentiamo chiamati alla mobilitazione; questo è il magnetismo di Obama». Tale idealizzazione non fa di lui un uomo da invidiare: il candidato democratico porta sulle spalle le promesse gloriose della Costituzione americana e l’altezza di caduta aumenta di giorno in giorno.

La vecchia amministrazione repubblicana ha reso possibile questo momento americano. L’attuale opposizione politica e culturale non sarebbe pensabile senza gli otto anni distruttivi di George W. Bush e Dick Cheney. I cheks and balances, il processo di controllo reciproco e di divisione del potere, sono previsti dal sistema politico americano per consentire necessarie correzioni di tendenza. Nel 2008 il partito repubblicano è alle prese con una svolta che rischia di annientarlo: il passato contro il futuro. Il “Washington Post” ha riassunto in un fotomontaggio la stridente discrepanza tra il nonno McCain, reduce del Vietnam, e il nuovo arrivato da Chicago, Barack Obama. I volti dei due candidati sono stati combinati con le figure di attori, la foto mostra dunque un John McCain alias John Wayne e un Barack Obama alias Will Smith. Se a novembre Obama vincerà, Bush entrerà nella storia non solo come il presidente della guerra, ma anche come precursore involontario e irrinunciabile di questo momento americano.