Pubblichiamo di seguito il “Manifesto per la democratizzazione dell’Europa”, parte di una articolata proposta per la rifondazione democratica, sociale e ambientalista del progetto europeo avanzata da un gruppo di economisti, giuristi e politologi costituito intorno a Thomas Piketty.
Quando si parla di Europa si usa ormai il condizionale per dire quel che avrebbe potuto essere, e non è stato. Oggi si deve ammettere che, come suggerisce il Manifesto di Thomas Piketty, l’Europa è in una inquietante impasse: da un canto movimenti politici ambigui, il cui programma sembra coagularsi solo nell’odio contro gli stranieri, d’altro canto quel liberismo “duro e puro” che pretende di imporre ovunque il dogma di un’austerità implacabile, producendo una competizione generalizzata tra tutti. A cominciare proprio dagli Stati europei.
Come individuare idee e progetti per rilanciare un’idea di Europa che torni a scaldare i cuori di opinioni pubbliche nazionali scettiche e disilluse, quando non apertamente ostili, e che sia in grado di mobilitare consensi e sostegni oltre a legittime critiche? Si tratta certamente di un’operazione complessa e dagli esiti incerti in questa congiuntura politica. Ma anche di una operazione necessaria se si vorrà evitare che alle prossime elezioni del Parlamento europeo le forze politiche che continuano a investire sul progetto di integrazione subiscano un pesante ridimensionamento.
L’Europa non è (più) “naturalmente” popolare. È questo il dato di cui occorre prendere atto per apprezzare la gravità della situazione, che cosa è in gioco alle prossime elezioni europee, dove abbiamo sbagliato e in che modo possiamo partire per risalire la corrente. Diciamocelo con chiarezza: lo squilibrio dell’Unione attuale è frutto in buona parte del suo successo, la realizzazione del mercato unico, che era il compito assegnato innanzitutto alle istituzioni comunitarie dal Trattato di Maastricht. Per quanto paradossale possa apparire, è proprio il conseguimento di questo storico traguardo – dal quale il consumatore europeo ha tratto più benefici che svantaggi – ad aver progressivamente messo in difficoltà il cittadino europeo. Se per il primo le opportunità di acquisto a prezzi vantaggiosi soprattutto di beni non durevoli e semidurevoli sono sostanzialmente cresciute, per il secondo la tutela e l’implementazione dei diritti sociali sono progressivamente divenute più difficili.
La crescita del sentimento antieuropeo, testimoniata dalla forza che hanno ormai raggiunto nei diversi paesi del continente i partiti che lo interpretano e lo cavalcano elettoralmente, difficilmente potrà essere arginata senza prima aver preso coscienza dei numerosi fattori – storici, culturali, economici e naturalmente politici – che sono alla base di tale crescita. È infatti la crisi del progetto di unificazione europea, per come esso si è sviluppato nell’arco degli ultimi quindici anni, all’interno di un contesto storico radicalmente mutato rispetto a quello in cui si era originato, ad aver determinato l’aumento della disaffezione/delusione dei cittadini nei confronti dell’Europa, non viceversa. Bisogna dunque partire dalle cause, non dagli effetti o dai sintomi.
Le previsioni economiche, talvolta, hanno la stessa durezza dei fatti. In termini di PIL, oggi l’Italia è all’ottavo posto nel mondo e l’Unione europea è al secondo, dopo gli Stati Uniti e prima della Cina. Tra undici anni, nel 2030, l’Italia sarà sparita dall’elenco dei primi otto e l’UE sarà scesa al terzo posto, preceduta, nell’ordine, da Cina e USA. Nel 2050 l’Unione sarà al quarto posto, superata anche dall’India, e per trovare l’Italia bisognerà scendere di molti posti nella classifica. Dei paesi europei, solo la Germania figurerà ancora tra gli otto più ricchi (in termini di PIL) del mondo, ma sarà al settimo posto, incalzata dal Messico. Sarebbe davvero necessario che queste cifre entrassero, oltre che nel dibattito politico, anche nel senso comune. Lo spirito del tempo che considera l’Europa una zavorra da cui liberarsi e una matrigna che impone solo sacrifici dovrebbe essere costretto a misurarsi con i fatti.
L’Unione europea, l’idea più bella del Novecento, è, come è noto, la storia di un sogno, nato nelle terre che hanno visto cadere milioni di vittime durante due guerre mondiali. È la storia di una straordinaria utopia, generata da un forte desiderio di pace e benessere dopo anni di disperazione, distruzioni e morte.
Dalla creazione, nel 1951, della Comunità europea del carbone e dell’acciaio sino alla nascita dell’euro, il processo di integrazione europea ha visto susseguirsi successi e sconfitte: un’altalena di vittorie, grandi speranze e cocenti delusioni; sogni e incubi.
La rinascita del nazionalismo nei paesi dell’Est Europa può essere fatta risalire a due fenomeni tra loro strettamente connessi: la rottura del patto liberaldemocratico che aveva ispirato le élite politiche della Polonia, della Cecoslovacchia e dell’Ungheria all’indomani delle tra-sformazioni del 1989; la perdita d’influenza, dopo la crisi finanziaria del 2008, dell’Unione europea, e dell’Occidente in generale, sulle società postcomuniste rispetto all’obiettivo della costruzione di una “democrazia consensuale” e di un’efficiente economia di mercato.
Nel febbraio del 1991 i leader di Ungheria, Polonia e Cecoslovacchia decisero di creare qualcosa che tenesse insieme le loro ragion d’essere mentre l’Unione Sovietica si inabissava nel caos e il Patto di Varsavia era bello che morto. Per riunirsi scelsero una cittadina sulle rive del Danubio, dove il fiume piega a Sud verso Budapest. Lo fecero con un certo senso della storia: a Visegrad che già nel nome, più slavo che ungherese, evoca destini comuni, s’era tenuto più di sei secoli e mezzo prima, un altro consesso con gli stessi obiettivi. Nel 1335 Carlo Roberto I d’Angiò, re d’Ungheria, Giovanni I di Boemia e Casimiro III di Polonia avevano cercato di dipanare i fili intricati degli interessi dinastici e delle controversie religiose, etniche e linguistiche per garantire la pace in quella parte della cristianità.
Ininterrottamente al potere dal 2010, Viktor Orbán è attualmente noto per essere uno dei leader europei più impegnati nell’affermazione di istanze identitarie e sovraniste. In questi ultimi otto anni si è speso molto, con l’aiuto dei suoi più stretti collaboratori, per creare in Ungheria un sistema fortemente dirigista, teso al controllo dei settori strategici della vita pubblica del paese.