Sinistra, quali prospettive

Di Vincenzo Visco Venerdì 16 Novembre 2018 11:45 Stampa


Le difficoltà in cui versano la sinistra italiana e quella internazionale sono evidenti, e sono serie. Nonostante la crisi del capitalismo liberista manifestatasi con il crollo del 2007-08, e il riflusso della globalizzazione, la sinistra non sembra in grado di recuperare identità e iniziativa, travolta dalla sua adesione acritica al pensiero economico dominante negli ultimi dieci-venti anni.

Era già successo dopo la crisi del 1929, con la differenza che allora un’alternativa praticabile sembrava possibile, data la presenza del modello socialista rappresentato dall’Unione Sovietica. Oggi l’unica alternativa che si presenta sembra essere la scelta tra soluzioni neonazionaliste e sostanzialmente autoritarie e un arroccamento difensivo delle élite dei vari paesi.

Ciò non deve sorprendere. La visione del mondo e l’organizzazione dell’economia che avevano segnato il successo delle sinistre nei trenta anni successivi alla conclusione della seconda guerra mondiale hanno subito, tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta del secolo scorso, una sconfitta storica, sia sul piano culturale che poli-tico per l’esaurimento della spinta propulsiva del keynesismo e del compromesso socialdemocratico, arenatisi nella stagflazione, negli eccessi sindacali, nell’uso dissennato delle imprese pubbliche, nella corruzione politica. Quando Reagan licenziò i controllori di volo e la Thatcher piegò i sindacati delle miniere, gran parte delle opinioni pubbliche dei diversi paesi era con loro, e non a caso. La soluzione liberista rappresentò per molti una sorta di liberazione, fornendo in apparenza una prospettiva per il futuro. Pochi allora realizzarono che le riforme portate avanti con estrema decisione negli Stati Uniti e nel Regno Unito avrebbero posto le basi per liquidare progressivamente decenni di lotte e di conquiste redistribuendo il potere economico e politico a favore dei tradizionali ceti dominanti e di una inedita fi­nanziarizzazione delle economie. Ma questo è ciò che è accaduto, e il recupero appare molto complicato, soprattutto perché è venuto meno l’assetto disegnato a Bretton Woods che, accanto alla ripresa degli scambi internazionali e alla integrazione progressiva delle economie occidentali, prevedeva il controllo dei movimenti dei capitali e quin­di la possibilità degli Stati nazionali di organizzare e gestire la rico­struzione e lo sviluppo delle proprie economie utilizzando e mobiliz­zando le risorse interne, in un contesto sostanzialmente cooperativo.

Ritornare a quel modello oggi appare improbabile se non del tutto impossibile. Soluzioni equivalenti vanno studiate e proposte, ma par­tendo dal contesto globale attuale. La battaglia va qui di combattuta sia (e direi soprattutto) a livello internazionale, facendo convergere una nuova consapevolezza culturale e nuove iniziative e movimenti politici, sia nei singoli paesi che presentano caratteristiche differenti, secondo le specificità di ciascuno.

Il problema fondamentale che accomuna tutti i paesi sviluppati è oggi la crescita straordinaria delle diseguaglianze all’interno di ognu­no di essi, che non è altro che l’esito inevitabile di trenta anni di liberismo. Il fatto che l’aumento delle diseguaglianze si sia associato al riscatto di enormi masse di diseredati nei paesi emergenti, e che quindi la diseguaglianza tra paesi si sia ridotta, non cancella la circo­stanza che ciò è avvenuto a spese dei redditi e dell’occupazione dei ceti medi americani ed europei e a beneficio dei grandi gruppi mul­tinazionali, delle grandi banche, e soprattutto dei loro manager. Del resto, la consapevolezza degli effetti distributivi perversi del capitali­smo liberista lasciato a se stesso è acquisita da molto tempo. Scriveva ad esempio Frank H. Knight, grande economista di Chicago, nel 1923: «Un sistema competitivo distribuisce il prodotto delle attività sulla base del potere, cosa che può definirsi etica solo se giustizia e potere sono considerate la stessa cosa».

Si tratterebbe allora di introdurre riforme radicali nel funzionamento della economia mondiale che riguardano sia le politiche macroeco-nomiche, che gli assetti istituzionali, le politiche retributive e il ruolo dei sindacati, le politiche fiscali, della concorrenza, del welfare ecc. Si tratta di interventi che andrebbero effettuati sia a livello nazionale che sovranazionale.

Ma preliminarmente va posto con forza il problema della legittimità del capitalismo liberista in quanto tale: un sistema che non è in grado di assicurare una crescita ragionevole, occupazione e posti di lavoro decenti, che concentra redditi e patrimoni in poche mani, che rischia continuamente il collasso finanziario, che non è in grado di programmare la transizione energetica e pone a rischio il futuro dell’umanità, che non sa gestire i fenomeni migratori, che crea sul piano politico-sociale conflitto, radicalizzazione e rischi di guerra e cancella il futuro di intere generazioni non merita di durare e va pro­fondamente riformato. Finché tutto ciò non diventerà senso comune è difficile immaginare un futuro per la sinistra che nacque proprio per denunciare queste drammatiche ingiustizie, e che oggi è afona e inconsapevole in molti dei suoi rappresentanti. In mancanza di una piena consapevolezza cultu­rale e politica è inevitabile che la gente comune tenderà a riconoscersi nelle proteste e rivendica­zioni populiste, per quanto sempliciste e inaffi­dabili possano essere.

Per fare qualche esempio, le politiche macro­economiche dovrebbero ridare centralità alla promozione dell’occupazione, i debiti nazionali andrebbero diluiti e progressivamente riassorbiti come avvenne nel secondo dopoguerra, il ruolo di indirizzo delle politiche pubbliche andrebbe riconosciuto e rafforzato, lo stesso dicasi del ruo­lo dei sindacati, il progresso tecnologico andreb­be orientato in direzioni non avverse al lavoro e alla sua retribuzione. Il sistema finanziario an­drebbe radicalmente riformato: se si guardano i bilanci delle grandi banche si può verificare che i prestiti alla clientela rappresentano percentuali irrisorie (3-4%) degli attivi, e che la parte rimanente e preponderante è rappresentata da transazioni all’interno dello stesso settore finanziario finalizzate all’e­strazione di rendite e fonte di possibili instabilità e crolli. Si tratta di una costruzione artificiale e in larghissima parte inutile. Le banche sono oggi troppo grandi, troppo potenti e troppo pericolose, e la si­tuazione si è ulteriormente aggravata dopo la crisi del 2007-08 grazie ai salvataggi intervenuti e alle fusioni e acquisizioni che ne sono deri­vate. Il dibattito in proposito si è interrotto, ma deve riprendere. La premessa di ogni intervento è comunque il superamento della banca universale. Va rilanciata la lotta ai monopoli: negli ultimi trenta anni è aumentata la concentrazione dei sistemi produttivi in tutti i settori; le politiche della concorrenza hanno dato scarso rilievo alle dimen­sioni assunte dalle imprese e quindi alla loro capacità di controllare e influenzare il funzionamento dei mercati (e dei governi), nella con­vinzione che fusioni e acquisizioni, nella misura in cui comportano costi più bassi, determinano comunque benefici per i consumatori. Ciò è illusorio. E in realtà abbiamo assistito a un enorme processo di estrazione di rendite, spesso a scapito di imprese più piccole, situate in paesi di modesta rilevanza politica, che sono state eliminate con la conseguente perdita di migliaia di posti di lavoro e l’indebolimento dell’economia e dell’autonomia del paese considerato. Lo stesso può dirsi delle normative sui brevetti che hanno avuto e hanno la stessa funzione di estrarre rendite da situazioni di monopolio artificialmen­te create dai governi. Oggi tutto è brevettabile, dal software alle pro­cedure aziendali, lo spirito della ricerca scientifica è stato corrotto alla radice: oggi ciò che è importante è brevettare qualcosa che possa dar luogo a una start up e successivamente venderla o quotarla in borsa realizzando un profitto di monopolio. Andrebbero cambiate le politiche retributive e le modalità di governance delle imprese che non sono più indirizzate al soddisfacimento dei clienti, al miglioramento della produzione e alla valorizzazione della forza lavoro, bensì alla massimizzazione del valore per gli azionisti, nuovo imperativo etico, che implica la massima durezza nei confronti dei dipendenti e dei fornitori, la compressione delle paghe e dei salari, e naturalmente compensi stratosferici per i manager.

Un ulteriore problema è rappresentato dalle imprese che controllano le piattaforme digitali: si tratta di monopoli che si impossessano del frutto gratuito delle attività degli utilizzatori, che si appropriano gratuitamente dei loro dati che poi usano o rivendono, monopolizzando al tempo stesso pubblicità e attività di intermediazione. Si tratterebbe, a rigor di logica, di imprese che andrebbero regolate e smembrate, esattamente come le grandi banche. Interventi molto importanti dovrebbero essere previsti per le politiche fiscali: l’obiettivo finale dovrebbe essere la costituzione di una World Tax Authority con il compito di uniformare le normative per evitare la scandalosa elusione fiscale delle multinazionali, la concorrenza fiscale dannosa e la fuga verso i paradisi fiscali che andrebbero combattuti sistemati-camente e senza esitazioni; l’evasione fiscale andrebbe sconfitta con l’ausilio delle nuove tecnologie; andrebbero abbandonate le aliquote “piatte” per le imposte sui redditi, ritornando a strutture chiara­mente progressive; andrebbero tassati come reddito le stock options e i bonus dei dirigenti, introdotta una imposta personale progressiva sul patrimonio complessivo (mobiliare e immobiliare) e riformate le imposte di successione; e soprattutto andrebbe superato il sistema di finanziamento del welfare mediante i contributi sui redditi di lavoro, estendendo il prelievo all’intero valore aggiunto, dal mo­mento che la quota di redditi che va al lavoro si è drammaticamen­te ridotta negli ultimi trenta anni a beneficio di profitti, royalties, rendite ecc.

In questo modo si ridurrebbe fortemente il costo del lavoro incenti­vando l’occupazione e si eviterebbe una possibile crisi finanziaria dei sistemi di welfare che a ben vedere è il vero obiettivo delle politiche liberiste che aspirano a tornare a uno Stato mini­mo, che si limiti ad assicurare la difesa nazionale, l’ordine pubblico, i tribunali, qualche infrastrut­tura e basta. La difesa del welfare e la sua rifon­dazione devono essere la priorità della sinistra. In prospettiva non va esclusa la possibilità di introdurre un reddito di cittadinanza universale che potrebbe rendersi necessario qualora l’evolu­zione tecnologica e l’intelligenza artificiale ridu­cessero strutturalmente le possibilità di lavoro. Le politiche del lavoro attuali vanno a loro volta drasticamente cambiate.

È possibile tutto questo? Certo non è facile. Ma senza una rinnovata presa di coscienza generale

della iniquità del funzionamento delle economie contemporanee e delle sue cause non sarà possibile compiere progres­si significativi, e le masse popolari resteranno strumento di manovra per la propaganda nazional-populista funzionale al mantenimento dei privilegi attuali da parte dei ceti dominanti.

Un aumento della consapevolezza su questi problemi è tuttavia in corso perfino presso le organizzazioni internazionali come il FMI e l’OCSE, e numerosi saggi, articoli e libri hanno cominciato ad analizzare i problemi indicati. Negli Stati Uniti, inoltre, è in corso un processo di rinnovamento del Partito democratico che va nella direzione auspicata. Ci vorrà tempo, e probabilmente un tempo non breve, ma non esistono altre possibilità: la sinistra deve riacquistare una sua identità e legittimazione sul campo.

Per quanto riguarda il nostro paese, la prima questione da affrontare è quella europea. Non c’è dubbio che l’adozione generalizzata di politiche di austerità ha provocato danni gravissimi e che esse sono state ispirate dall’adesione a teorie economiche chiaramente errate. In questo modo l’Unione ha perso miliardi di euro di reddito che si sarebbero potuti facilmente ottenere adottando politiche più sensate. L’olocausto del popolo greco ha dimostrato chiaramente fino a che punto gli eccessi ideologici, la volontà di potenza e la discriminazione politica possono portare. Va quindi condotta una battaglia esplicita su questi punti, sul ruolo della BCE, sull’unione bancaria, sugli investimenti pubblici, sul Fiscal Compact, sulle politiche industriali ecc., cercando alleanze, sollevando problemi, avanzando proposte, contestando la leadership franco-tedesca, che in realtà è stata negli ultimi dieci anni solo germanica, cercando di spiegare a Macron che se vuole veramente aumentare il suo peso e ruolo in Europa deve costruire un’alleanza ampia dei paesi che non accettano più le ricette economiche tedesche, e non illudersi di poter ottenere risultati con l’adesione spontanea a quanto proposto dalla Germania. Non ci si può limitare a chiedere flessibilità, anzi sarebbe preferibile rispettare comunque i Trattati per acquisire maggiore forza contrattuale, ma è evidente che l’Europa è il terreno di lotta più prossimo e per noi decisivo. Naturalmente le illusioni e le regressioni sovraniste e nazionaliste diffuse anche nella sinistra vanno respinte perché non portano da nessuna parte. Anche in Europa è necessaria una svolta antiliberista, a favore della crescita e della redistribuzione del reddito. Alcune misure di sicuro impatto positivo possono essere anticipate nell’Unione, prima che si estendano a livello globale. L’Europa in-fatti è affezionata al suo sistema di welfare e deve inoltre cercare di contenere e contrastare le spinte populiste che non sono altro che il frutto delle politiche seguite dopo la crisi del 2007-08 (e non dopo l’introduzione dell’euro, come alcuni continuano a sostenere).

L’Italia infine deve utilizzare tutti i gradi di libertà compatibili con la partecipazione all’Unione europea e alla moneta unica. È stato dimostrato (dal NENS, ma non solo) che concentrando le risorse sugli investimenti produttivi (infrastrutture, conversione energetica, risanamento urbano e territoriale ecc.) è possibile riportare rapidamente la crescita sopra il 2% aumentando al tempo stesso la produt-tività della nostra economia. Occorre avere una strategia di crescita per l’Italia, la cui crisi dipende dal fatto che il modello di sviluppo postbellico, basato sulle grandi imprese pubbliche, ma anche private, sulla diffusione di una imprenditoria minore ma dinamica, sui finanziamenti bancari e la gestione consapevole del credito, è venuto meno e non è stato sostituito da un disegno alternativo minimamente convincente che non fosse un liberismo d’accatto, basato sulla de-regolamentazione, sull’affarismo, l’evasione fiscale, la compressione dei diritti dei lavoratori. In questo contesto la soluzione definitiva del problema meridionale deve essere il punto centrale di una politica di riforme in cui il ruolo dello Stato e delle imprese pubbliche deve tornare a svolgere una funzione di stimolo, supplenza e sostegno.

Affrontare tutti questi problemi a livello nazionale, europeo, e internazionale rappresenta una grande sfida per la sinistra italiana oggi paralizzata e confusa tra l’incomprensione del PD delle origini della

sua sconfitta, e la frammentazione a sinistra del PD, dove il rischio di derive massimaliste, sovraniste, nazionaliste e regressive, nell’illusione di poter competere con Movimento 5 Stelle e Lega sul loro terreno, non è inesistente. Ma soprattutto la sinistra deve recuperare conoscenza, consapevolezza, cultura e umiltà, misurandosi con i pro-blemi reali e puntando sul medio periodo.