Tra la Cina e gli Stati Uniti c’è l’Europa?

Di Giorgio Prodi e Romano Prodi Giovedì 24 Febbraio 2022 17:31 Stampa
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La lunga rincorsa della Cina nei confronti degli Stati Uniti è ormai una sfida aperta. Secondo le statistiche del Fondo monetario inter­nazionale, il reddito pro capite cinese non è nemmeno paragonabile a quello americano e il totale del PIL cinese non ha ancora raggiunto quello degli Stati Uniti. Se invece ragioniamo in termini di parità di potere d’acquisto, il gigante asiatico è ormai vicino a un quarto del totale mondiale (24,2%) mentre gli Stati Uniti si fermano al 15,9%.

Ancora più significativi sono i dati del commercio estero. In questo campo il deficit americano ha toccato col tempo le cifre inquietanti che hanno spinto il presidente Trump a imporre la politica del rie­quilibrio commerciale come priorità assoluta. Obiettivo non facile da raggiungere almeno per due motivi: il primo è che il deficit com­merciale degli Stati Uniti è lievitato per effetto di decisioni macroe­conomiche interne, cioè per il forte squilibrio tra le entrate e le uscite del bilancio pubblico. Il secondo è che questo deficit bilaterale veni­va, e viene tuttora, alimentato dalle esportazioni negli USA da parte delle imprese multinazionali americane localizzate in Cina. Non di­mentichiamo inoltre che questo deficit era nato durante il lungo pe­riodo di cooperazione economica fra Cina e Stati Uniti e che, per le ragioni elencate in precedenza, non è ora facile da colmare anche se, nel frattempo, la cooperazione si è trasformata in feroce concorrenza.

I difficili rapporti fra la Cina e gli Stati Uniti, dominati dalla cre­scente rivalità politica, hanno talmente concentrato l’attenzione di tutti gli osservatori da mettere in secondo piano il crescente ruolo che l’Unione europea ha assunto nel commercio mondiale. L’Europa si è infatti progressivamente inserita come nuovo protagonista nei rapporti economici con la Cina fino a che, proprio nel 2020, la Cina è addirittura diventata il primo partner commerciale dell’Unione eu­ropea, superando gli Stati Uniti.

Questa nuova centralità della Cina può certamente sorprendere, ma non se poniamo attenzione alla storia passata. Abbiamo infatti l’ob­bligo di ricordare che la Cina si è semplicemente ripresa il ruolo che aveva per lunghi secoli ricoperto nel mondo. La storia e la geografia ancora contano.

Una strategia europea nei confronti della Cina è quindi una neces­sità e, mentre il commercio e gli investimenti hanno compiuto passi giganteschi, questa strategia non esiste ancora. Essa va quindi prepa­rata. Data l’intensità dei rapporti esistenti e tenuto conto dei reci­proci interessi, il punto di partenza deve essere l’elaborazione di un disegno europeo nei confronti della Cina e non contro la Cina. Noi europei, insieme ai ben noti elementi di debolezza, abbiamo infatti molti punti di forza che non solo ci permettono, ma ci obbligano a ruoli costruttivi e non puramente difensivi.

È vero che nel 2019, nel comunicato congiunto della Commissio­ne, del Parlamento e del Consiglio europeo, la Cina è stata per la prima volta definita un rivale sistemico, perché propone modelli di governance (e di valori) diversi dai nostri, ma lo stesso comunicato ci ricorda anche che è un partner con cui negoziare, cooperare e com­petere, a seconda dei contesti.

Trovare un equilibrio tra questi aspetti è sempre più difficile, sia per­ché la forza della Cina è in continuo aumento, sia perché la leadership di Xi Jinping si è dimostrata molto più assertiva rispetto a quelle di Hu Jintao e Jiang Zemin. Il Partito Comunista Cinese, dopo un lun­go e complesso processo di selezione terminato nel 2012, ha affidato a Xi Jinping, accanto al compito di lottare contro la corruzione e la povertà, il grande obiettivo di rendere la Cina più forte militarmente e meno dipendente dal commercio estero, accelerandone con ogni mezzo il progresso tecnologico. L’Europa si trova quindi oggi di fron­te a una Cina completamente diversa dal passato, con caratteristiche qualitative e quantitative che non hanno nulla a che fare con l’imma­ginario collettivo tuttora prevalente nei suoi confronti. Un immagina­rio che confina la Cina al ruolo di concorrente nei beni a basso prezzo.

Una strategia coerente nei confronti della Cina deve quindi fondarsi su tre pilastri. Il primo è prettamente “domestico”, e riguarda cosa deve fare l’Europa al suo interno per poter competere e negoziare efficacemente con la Cina. Il secondo pilastro si fonda sulla gestione dei rapporti negoziali, mentre il terzo riguarda soprattutto gli aspetti cooperativi. Il primo pilastro è condizione ne­cessaria per potere efficacemente gestire gli altri due che, in realtà, tendono a intrecciarsi.

Prima di entrare nell’analisi specifica è necessa­ria una riflessione sul contesto in cui la strategia europea deve svilupparsi. I rapporti tra Europa e Cina debbono infatti essere visti proprio parten­do dalle relazioni triangolari tra Europa, Cina e Stati Uniti alle quali abbiamo fatto riferimento in precedenza.

Partiamo dal dato di fatto che l’Unione euro­pea appartiene – e debba appartenere anche in futuro – in modo condiviso e stabile, al campo dell’Occidente e, in quest’ambito, alla NATO. Tutto ciò, tuttavia, non implica che debba con­dividere al 100% la strategia degli Stati Uniti nei confronti della Cina, anche perché gli Stati Uniti stessi hanno più volte cambiato le proprie posizioni nei confronti del Celeste Impero. L’UE, a sua volta, si trova in un contesto geografico ed economico diverso e quindi, legittimamente, non può che avere necessità e obiettivi in grado di interpretare i mutamenti delle sue contingenze economiche e politi­che. In fondo, pur partendo da principi comuni e condivisi, anche i rapporti fra gli Stati Uniti e l’Europa sono stati oggetto di cambia­menti sostanziali. Trump ha, ad esempio, portato avanti revisioni radicali nelle politiche degli Stati Uniti nei confronti dell’Europa. La strategia “America First” non ha risparmiato i partner europei. Anzi, in alcuni casi, essa è sembrata rivolgersi direttamente contro gli interessi europei. Anche se con Biden i rapporti bilaterali sono migliorati, molte differenze restano e difficilmente si tornerà alle re­lazioni precedenti a Trump: la concentrazione assoluta sui problemi domestici, anche a scapito dei rapporti con antichi e solidi alleati, è oggi sostanzialmente condivisa sia nel campo democratico che in quello repubblicano.

Quanto alle relazioni tra Stati Uniti e Cina non è difficile constatare che le tensioni sono sempre crescenti. Il passaggio dalla presidenza Trump a quella Biden ha reso i rapporti bilaterali più educati e pre­vedibili (elemento non certo trascurabile) ma non meno tesi. L’obiet­tivo degli Stati Uniti di un sostanziale decoupling dalla Cina, almeno per quello che riguarda le supply chain tecnologiche, non riguarda solamente le imprese americane, ma tutte quelle che hanno una rile­vanza tecnologica nei settori che insidiano la supremazia americana o che possono avere un qualsiasi rapporto con il settore militare. Tutto ciò, ovviamente, moltiplica le pressioni formali e informali che il governo americano porta avanti nei confronti delle imprese tecnolo­giche, non solo americane ma anche europee, che hanno a che fare con la Cina.

La presenza di una Cina sempre più assertiva, di supply chain che si accorciano per diversi motivi (pandemia inclusa), spinge gli Stati Uniti, anche senza gli estremismi di Trump, a giocare una partita sempre più autonoma, indipendentemente dai legami con l’Europa. Di conseguenza l’Europa, senza indebolire i legami politici con gli Stati Uniti, deve rendersi più forte, più autonoma e più coesa al suo interno. Deve essere in grado di “mettere a terra” la potenza economi­ca che possiede e crescere nei campi dove essa è più debole. Non di­mentichiamo che l’Europa vanta ancora indiscutibili primati nel set­tore industriale dell’intero pianeta e che solo le sue divisioni interne non permettono che questa potenzialità possa essere adeguatamente sfruttata dal punto di vista della strategia politica e commerciale.

La nostra coesione interna è quindi fondamentale. Troppo spesso i diversi paesi europei hanno invece cercato di scrivere una propria agenda nei confronti della Cina, un’agenda che tiene conto delle esi­genze nazionali, ma non di quelle dell’Unione nel suo complesso e che, per questo motivo, si presenta regolarmente perdente nei con­fronti del gigante asiatico. Riflettiamo per un attimo su un caso che ci riguarda: mentre negli anni Novanta l’Italia soffriva la concorrenza cinese nella produzione di tessile, abbigliamento, giocattoli ecc., al­tri paesi europei, che non avevano produzioni domestiche in questi settori, vedevano le importazioni dalla Cina esclusivamente come un beneficio per i propri consumatori. Tutto questo può sembrare na­turale, ma è proprio questa diversità di situazioni, in mancanza di una politica unitaria, che ha impedito la messa in atto di quella forza contrattuale che rende possibili i compromessi e le composizioni di interessi che stanno alla base del commercio internazionale. Negli ultimi anni la Cina, sia per l’aumento dei suoi costi interni che per il progressivo affinarsi delle sue tecnologie, ha esteso la sua capacità competitiva verso settori a maggiore valore aggiunto, po­nendosi in concorrenza con tutte le produzioni di tutti i paesi euro­pei. Questa nuova sovrapposizione di interessi rende più necessaria, e nello stesso tempo più condivisibile, una comune politica europea, anche se permane ancora una notevole asimmetria fra il deficit della bilancia commerciale di quasi tutti i paesi europei nei confronti della Cina e il costante surplus della Germania. Visioni diverse potevano essere quindi comprensibili in passato, ma oggi appare chiaro che solo la dimensione europea può permettere un rapporto paritetico con la Cina. Pur dall’alto del suo attivo commerciale, anche la Can­celliera Merkel, in uno degli ultimi discorsi prima di lasciare il suo incarico, aveva ammesso che la Germania era stata in alcuni contesti ingenua nei confronti della Cina. La stessa Cancelliera ha quindi aggiunto che era arrivato il momento di mettere in atto un rapporto economico con la Cina in grado di tutelare gli interessi di tutti i paesi europei. Nell’intervallo fra la presidenza di Trump e quella di Biden è stato, di conseguenza, firmato fra Europa e Cina un trattato (CAI, Comprehensive Agreement on Investment) che tendeva a regolare i rapporti economici fra UE e Cina, con una serie di concessioni e di adattamenti da entrambi i lati. È vero che si trattava più di un proto­collo ancora in via di completamento che di un trattato già definito, che non risolveva alcuni dei punti più delicati come il diverso ruolo delle imprese pubbliche nei due diversi contesti e, più in generale, il diverso ruolo che lo Stato ha nell’economia. Tuttavia, l’accordo apri­va una nuova prospettiva in vista di un rapporto meno conflittuale e più equilibrato per il futuro. La simmetria nelle relazioni economi­che bilaterali non può che essere la bussola che guida i rapporti tra le grandi potenze economiche. Per la prima volta il CAI intendeva aprire in modo sistematico la possibilità di negoziati paritari fra Eu­ropa e Cina, anche su temi delicati e controversi come la proprietà intellettuale e i diritti dei consumatori. Vi erano infatti in esso le basi per affrontare finalmente in modo complessivo i problemi riguar­danti l’unfair competition, problemi che avevano sempre avvelenato i rapporti fra l’Unione europea e la Cina. L’acuirsi delle tensioni po­litiche fra Cina e Stati Uniti e la reazione cinese alle – in verità assai blande – sanzioni europee nei confronti di alcuni esponenti cinesi in relazione a quanto stava avvenendo nella provincia dello Xinjiang hanno reso impossibile la ratifica dell’accordo da parte del Parlamen­to europeo. Nel frattempo, le cose si sono ulteriormente complicate. La Cina ha infatti operato attivamente per creare nel Pacifico una zona di libero scambio (RCEP, Regional Comprehensive Economic Partneship) che comprende i paesi dell’ASEAN più il Giappone, la Corea del Sud, l’Australia e la Nuova Zelanda. Non è ancora chiaro quanto questo accordo, entrato in vigore il 1° gennaio 2022, possa portare a risultati concreti, dati i legami politici che la maggioran­za di questi paesi ha con gli Stati Uniti, ma certamente si tratta di un’iniziativa che mette ancora più in luce quale sia stato l’errore di Trump nel ripudiare il TPP (cioè il Partenariato Trans-Pacifico) che consisteva in un accordo commerciale fra gli Stati Uniti e i paesi del Pacifico escludendo la Cina. In ogni caso la nuova realtà rende per noi impossibile mantenerci estranei nei confronti di un’area di libero scambio che conta quasi un terzo della popolazione mondiale, un terzo del PIL mondiale e che, per il prevedibile futuro, è prevista essere in grado di sostenere i due terzi della crescita mondiale.

Il quadro si sta ancora più complicando in quanto la imprevista in­terazione fra le tensioni politiche e la pandemia sta profondamente cambiando l’intera evoluzione della concorrenza mondiale. Non si arriverà certo al ripudio della globalizzazione, ma si sta progressiva­mente procedendo verso una globalizzazione maggiormente gestita e condizionata. “L’effetto mascherine”, cioè la nostra mancanza di di­sponibilità di un bene tanto necessario quanto semplice da produrre, sta spingendo i responsabili delle grandi aree economiche che fanno capo agli Stati Uniti, all’Europa e alla Cina a perseguire con ogni mezzo una politica di progressiva autosufficienza nei settori ritenuti particolarmente strategici per il proprio futuro. “L’effetto mascheri­ne” ha in primo luogo insegnato che una totale dipendenza dall’e­sterno può produrre effetti imprevedibili anche nei confronti delle produzioni più semplici, e ha obbligato imprenditori e governanti a riflettere su come siano ancora più gravi le conseguenze nei settori ad alta tecnologia nei quali è impossibile recuperare la capacità com­petitiva in un breve periodo di tempo. La crisi nella disponibilità di semiconduttori, ad esempio, sta spingendo le politiche industriali delle tre grandi aree economiche a perseguire un sufficiente livello di autonomia almeno nelle filiere che condizionano il futuro della produzione. D’altra parte, le grandi imprese produttrici, consapevoli di quanto sta accadendo, hanno già preso atto di questi mutamenti e si orientano a dividere il rischio di possibili ostacoli al commercio con una nuova strategia di investimenti nelle grandi aree dove esse non sono sufficientemente presenti. Ancora una volta il settore dei semiconduttori ci offre un quadro esemplare. Sia l’impresa leader mondiale, la taiwanese TSMC, che l’americana Intel hanno deciso di prendere atto della nuova realtà e stanno massicciamente trasfe­rendo capacità produttiva in Europa, dove la domanda eccede larga­mente l’offerta e dove la loro presenza nel campo produttivo è tra­scurabile. La localizzazione, fino a ieri assolutamente concentrata nel paese di origine, anche per la convenienza nei costi di produzione che questo comportava, obbedisce ora anche alla necessità di inter­pretare le nuove evoluzioni della concorrenza. Naturalmente questa evoluzione genera, nello stesso tempo, comportamenti difensivi, che si materializzano nel rendere difficili gli investimenti e gli acquisti di impresa nel caso in cui si vogliano escludere operatori che proven­gono da aree che, nel nuovo quadro, vengono considerate ostili. Sia negli Stati Uniti che in Europa si stanno di conseguenza approfon­dendo gli ostacoli agli acquisti da parte degli operatori cinesi: men­tre in Germania nel 2016 è stato dato il via libera all’acquisto della principale impresa di robot (Kuka), oggi vengono proibite anche le acquisizioni di aziende che hanno un’importanza tecnologica ed economica assai minore. A una concorrenza tra le grandi aree eco­nomiche, soprattutto fondata sul costo del lavoro, si sta rapidamente sostituendo una nuova concorrenza incentrata principalmente sulla scienza e sulla tecnologia. Raggiungere un elevato livello di auto­nomia in questi settori è ormai diventato una condizione essenziale per mettere in atto una politica estera efficace. Un elevato grado di autonomia tecnologica è quindi diventato un obiettivo prevalente, anche a scapito dell’efficienza economica. Tutto questo è esasperato dall’attuale livello delle tensioni politiche ma, almeno per ora, non vi sono prospettive di un’inversione di tendenza. Fortunatamente, in conseguenza di decenni di apertura dei mercati, abbiamo ancora legami molto profondi e diffusi fra le imprese di tutte le diverse aree economiche e, fatta esclusione per i settori ad alta tecnologia, il commercio internazionale prosegue con una sua continuità. L’in­treccio dell’economia mondiale è divenuto troppo stretto per essere reciso senza provocare danni irreparabili a tutti i sistemi economici, nessuno escluso.

Questa realtà non impedisce che, per potere negoziare con le altre potenze globali, sia necessario essere indipendenti, o almeno interdi­pendenti, negli ambiti tecnologici più importanti. Il che non significa essere dominanti, ma richiede che la dipendenza sia almeno recipro­ca. È evidente che, in questo quadro, il problema della politica indu­striale europea diventa prevalente. Nella maggior parte dei settori a tecnologia avanzata il nuovo modello di globalizzazione, volto ad au­mentare la necessità di un’autonomia regionale, trova oggi in Europa limiti ancora difficilmente superabili. Le divergenze di interessi fra i diversi paesi e la difficoltà nel portare avanti progetti condivisi con­dizionano negativamente l’autonomia europea che resta difficilmente perseguibile. La mancan­za di una comune politica renderà quindi meno probabile, per il prevedibile futuro, il raggiun­gimento di una maggiore autosufficienza regio­nale, il cui perseguimento deve essere invece un obiettivo primario, in conseguenza dell’aumento delle tensioni politiche e degli insegnamenti del­la lunga pandemia. Se non si metterà in atto una politica industriale unitaria che però appare an­cora improbabile, l’Europa, pur essendo ancora un colosso produttivo e il più grande esportatore del mondo, potrà solo molto parzialmente avvia­re il pur minimo processo di autosufficienza reso necessario dal nuovo modello di globalizzazione. Costrette da questi eventi, cambieranno la stra­tegia produttiva e l’organizzazione delle catene del valore di molte imprese europee. Esse porteranno in un ambito più controllabile e meno rischioso una parte delle loro produzioni e chiederanno comportamenti analoghi ai loro fornitori. Il che com­porterà ovviamente una crescente preferenza nell’ambito dei fornito­ri operanti nell’area economica europea. Non sarà naturalmente un processo generalizzato perché molte delle imprese emigrate in aree lontane, come la Cina, dipendono ormai anche dal mercato locale e non solo dall’export, ma un certo ritorno in patria (comunemente chiamato reshoring) o comunque in Europa, appare un’inevitabile conseguenza di quanto sta avvenendo. Quest’analisi si basa natural­mente sui fatti e sulle decisioni di oggi: le politiche europee, come si è visto con il Next Generation EU, possono anche cambiare. Ri­torna, a questo proposito, l’interrogativo se non debbano cambiare anche alcune norme o alcuni comportamenti riguardanti l’antitrust europeo, rivolto oggi prevalentemente a tutelare la concorrenza in­terna, ma meno sensibile a valutare le conseguenze dell’azione dei concorrenti esterni all’Unione. Questo, tuttavia, è un capitolo che merita approfondimenti che vanno otre i limiti che ci siamo posti in questa sintetica analisi sui problemi posti dall’evoluzione del com­mercio internazionale.

Nei limiti della riflessione di carattere generale che stiamo portan­do avanti, resta comunque difficile comprendere come la politica americana abbia in qualche modo favorito la formazione di un’area commerciale asiatica così grande e potente da essere autosufficiente e, potenzialmente, dominante nei principali settori ad alto contenu­to tecnologico. Terminiamo queste brevi riflessioni con una doman­da e un rimpianto. L’interrogativo riguarda chi dominerà il campo degli standard tecnici, un campo sempre più influente nel gioco del primato tecnologico e nel commercio internazionale. La rapidità con cui agisce in materia, grazie alla sua struttura di governo e alla di­mensione del mercato in cui si trova a operare, fa pensare che Pechi­no possa in futuro disporre più di ogni altro di questa risorsa, ma il problema è ancora aperto. Il rimpianto, invece riguarda la Via della seta (Belt and Road Initiative). Una proposta nata anche come un grande strumento di cooperazione fra Europa e Cina, che era stata accolta con favore dai paesi europei. Essi, compresa la Gran Breta­gna, avevano subito partecipato al capitale della Banca asiatica delle infrastrutture e degli investimenti (AIIB, Asian Infrastructure and Investment Bank) nata come braccio secolare della stessa Via della seta. La quale Via della seta, invece, è cresciuta e si è sviluppata come iniziativa soltanto cinese. Un’iniziativa che ha certamente avuto suc­cesso, specialmente nella sua fase iniziale, ma in uno spirito comple­tamente diverso da quello con cui era partita, anche perché è stata accompagnata dalla nascita dell’iniziativa cinese del 17+1, un pro­getto dedicato più alla divisione dell’Europa che alla cooperazione con essa. Forse non è un caso che oggi entrambi i progetti incontrino difficoltà. La Via della seta è accusata di aver indebitato fortemente i paesi coinvolti e il 17+1 di “perdere pezzi”, vista l’apertura di rap­porti diplomatici tra Taiwan e la Lituania e un certo avvicinamento sempre con Taiwan di paesi come la Repubblica Ceca e la Slovacchia. Quanto alla Via della seta vi sono ancora margini di cooperazione sia diretti fra Cina ed Europa, sia indiretti, operando ad esempio nel costruire infrastrutture od ospedali in Africa. In conclusione: vi sono tante forme di cooperazione compatibili con le attuali tensioni e capaci di attenuare le tensioni stesse. Sarebbe già un passo in avanti lavorare in questa direzione!