Un vero bilancio, una fiscalità e un Tesoro europei: condizioni necessarie per il futuro della UE

Di Aurore Lalucq Lunedì 26 Febbraio 2024 12:05 Stampa
Un vero bilancio, una fiscalità e un Tesoro europei: condizioni necessarie per il futuro della UE ©iStockphoto/saemilee


Il 2024 sarà un anno cruciale. Mentre si sono ricostituite le logiche dei blocchi, rafforzando ulteriormente le tensioni geopolitiche, l’anno 2024 vedrà svolgersi due elezioni che potrebbero redistribuire le carte del gioco del potere mondiale. Negli Stati Uniti, lo spettro del ritorno di Donald Trump aleggia sulle elezioni di fine anno, con tutti i rischi e i cambiamenti che comporterebbe per la democrazia americana, le sue istituzioni e l’Europa. Le recenti dichiarazioni del candidato Trump lasciano temere un abbandono del popolo ucraino e dell’Europa alle ambizioni bellicose della Russia.
Sbaglieremmo quindi a sottovalutare l’importanza dell’altro grande scrutinio che si terrà nel continente europeo, con l’elezione a suffragio universale dei membri del Parlamento. L’Unione europea è infatti di fronte a una svolta esistenziale. Negli ultimi cinque anni, l’UE è stata in grado di resistere e di far fronte alle diverse crisi con cui si è confrontata: debito comune, meccanismo di assicurazione contro la disoccupazione, Piano di ripresa e resilienza. Di fronte alla crisi del COVID-19 e all’aggressione russa in Ucraina, l’Unione europea è stata in grado di reagire unita e di adottare risposte forti e solidali che l’hanno rafforzata. Ora è necessario accelerare.
Ma all’alba di questo nuovo ciclo europeo, le sfide non mancano: l’ascesa dei populismi, la messa in discussione dello Stato di diritto, i pericoli legati al cambiamento climatico, l’inflazione, le diseguaglianze. Mentre l’esecutivo europeo ha avviato nel 2019 un Green Deal volto alla neutralità carbonica entro il 2050, questo progetto è oggi messo in discussione dai conservatori e dai liberali, con il pericolo di mettere a repentaglio i progressi reali ma ancora insufficienti dello stesso Green Deal europeo. Il rischio è quindi quello di assistere a una battuta d’arresto delle conquiste in campo ambientale e sociale e, più in generale, di fare un passo indietro con una maggioranza ancora più conservatrice e populista nel Parlamento europeo. Questo è il motivo per cui le imminenti elezioni europee saranno così centrali e decisive. Comportano al tempo stesso rischi e promesse, che possono sia contribuire al consolidamento dell’Europa sia significarne la perdita. Questo è il motivo per cui abbiamo bisogno di ritrovare una grande narrazione collettiva, che spinga i cittadini a impegnarsi per un’Europa verde, sociale e solidale. Un’Europa in grado di affrontare le sfide del XXI secolo, di offrire soluzioni concrete ai cittadini di fronte ai grandi cambiamenti di domani.
Ciò non può avvenire senza fornire all’Europa i mezzi per la sua autonomia strategica e per la sua potenza, cioè senza gli strumenti economici necessari per un’azione pubblica efficace: ossia un bilancio, un Tesoro e quindi una fiscalità equa a livello europeo. Ma questa evoluzione istituzionale richiederà innanzitutto una vera rivoluzione della mentalità e della filosofia che stanno alla base della stessa costruzione europea. Per più di quarant’anni, la costruzione europea è stata troppo spesso limitata alla creazione di un vasto mercato comune, basato sulle regole del libero scambio e della concorrenza leale. Si è anche cristallizzata attorno all’ossessione del contenimento dei deficit e del debito e, in particolare, dei famosi numeri magici del 3% di deficit e del 60% di indebitamento.
Considerato una garanzia di serietà sin dalla sua introduzione, il limite del 3% non è quasi mai stato rispettato da nessuno degli Stati membri. Inoltre, come ammesso dallo stesso suo creatore, lo statistico francese Guy Abeille, questa regola è stata scarabocchiata su un tovagliolo, in meno di un’ora, senza alcuna riflessione teorica o giustificazione economica. Quanto alle sanzioni previste dal Trattato di Maastricht in caso di deficit eccessivo, semplicemente non sono mai state applicate. Inoltre, si è visto che il primo riflesso dei governanti europei, durante la crisi del COVID, quando si è reso necessario spendere denaro pubblico per sostenere un’economia in stallo, è stato quello di sospendere queste regole di bilancio. Regole di bilancio che quindi non vengono applicate, quando non vengono semplicemente sospese. È chiaro che c’era un’urgenza di modificare tali regole inefficaci e pro-cicliche. Molti hanno pensato che dopo quattro anni di sospensione fosse giunto il momento di dir loro addio. Sfortunatamente, invece di seppellirle, è stato deciso di riformarle marginalmente, dando vita a una nuova serie di regole di bilancio di una complessità sconcertante. Tuttavia, se ciò presenta un problema dal punto di vista democratico, offre la possibilità di non vederle applicate. Ma anche se non venissero applicate, queste nuove regole di bilancio inviano comunque un segnale disastroso ai cittadini europei: quello di un’Europa che combatte in retroguardia, a difesa dell’austerità. Un segnale tanto più dannoso perché maschera i veri progressi dell’Unione europea in materia di giustizia fiscale e di transizione ecologica degli ultimi cinque anni. Soprattutto, il segnale è disastroso nei confronti delle priorità dell’Unione e delle sue istituzioni.
Piuttosto che discutere sul modo migliore per ridurre i nostri deficit, dovremmo dedicare la nostra energia e il nostro tempo a trovare i mezzi per investire massicciamente nella reindustrializzazione, nella transizione ecologica e nell’autonomia strategica dell’Unione. Perché è certo: avremo bisogno di trovare denaro, e molto denaro. Secondo uno studio della Commissione europea, la transizione dell’Europa verso un’economia sostenibile e il raggiungimento dei nostri obiettivi climatici ed energetici entro il 2030 richiederanno investimenti significativi, in tutti i settori, dell’ordine di 260 miliardi di euro aggiuntivi all’anno. Ma l’Unione europea manca oggi grandemente dei mezzi per effettuare questi investimenti. Dei circa 100 miliardi di euro necessari per costruire una solida base industriale entro il 2030, solo 8 miliardi sarebbero disponibili oggi nel bilancio europeo.
Quindi c’è ancora bisogno di una vera rivoluzione. Una rivoluzione soprattutto ideologica, perché per quarant’anni la tassazione sui super ricchi è praticamente sparita e il patrimonio dei miliardari è esploso. Solo la Spagna conserva oggi ancora una forma di imposizione sulla grande ricchezza. Più in generale, è il capitale che non è più tassato abbastanza, molto meno tassato del lavoro, ad esempio. Non si tratta quindi di un errore o di una lacuna nel sistema fiscale ma di un sistema fiscale deliberatamente messo al servizio dei più ricchi tra noi. Una situazione di favoritismo fiscale diventata la norma nelle nostre democrazie europee. L’Europa è diventata un continente in cui è meglio ereditare che lavorare. Un sistema fiscale a due velocità che ricorda molto quello vigente tra le multinazionali e le PMI: le prime mettono in atto strategie e architetture fiscali sempre più complesse per sfuggire alle tasse, mentre le seconde continuano a pagare la loro giusta quota di imposte. Una situazione di ingiustizia fiscale alla quale abbiamo contribuito a porre rimedio portando, al Parlamento europeo, la direttiva sull’imposizione minima delle multinazionali. Questo accordo, di portata storica, mette fine a decenni di corsa fiscale al ribasso. Il suo scopo è far sì che le imprese multinazionali paghino un’aliquota minima del 15%, indipendentemente dal paese in cui operano. In altre parole, queste ultime non avranno più interesse a stabilirsi nei paradisi fiscali, poiché l’aliquota minima sarà ora la stessa ovunque.
Quello che abbiamo fatto per le imprese, ora dobbiamo farlo per gli individui. Non possiamo accettare che alcuni – gli stessi che hanno i mezzi per pagare le tasse – siano proprio quelli che le evitano. Non è solo una questione di efficacia economica al fine di finanziare la transizione ecologica e sociale, ma anche e soprattutto una questione di giustizia e democrazia. Non possiamo più accettare che una piccola parte dei cittadini faccia una sorta di secessione non adempiendo ai propri doveri – compresi quelli fiscali – nei confronti del resto della popolazione. E diversi studi stimano che l’attuazione di un’imposta sul patrimonio dei super ricchi potrebbe portare più di 200 miliardi di euro all’anno. Somme che quindi non sono affatto trascurabili e che potrebbero rivelarsi cruciali per trovare i mezzi per finanziare la transizione ecologica e sociale, evitando che siano ancora le classi medie e i nuclei familiari più poveri a pagarne il prezzo.
È quindi tempo di istituire un’imposta sui patrimoni dei super ricchi. Non è solo una questione di efficacia economica, mentre dobbiamo trovare finanziamenti per la transizione ecologica, ma anche una questione di giustizia fiscale e democrazia, affinché i più ricchi paghino finalmente la loro giusta quota di tasse e contribuiscano veramente al buon funzionamento della società.
Questo è il motivo per cui è stata avviata un’Iniziativa dei cittadini europei da parte di una coalizione di attori politici, sindacati, ONG e membri della società civile, al fine di tassare i miliardari europei e finanziare così la transizione ecologica e sociale.1 Un’iniziativa del genere potrebbe ripristinare una forma di giustizia fiscale, consentendo al contempo di trovare le risorse necessarie proprio per finanziare la transizione. Ricordiamo che i miliardari contribuiscono in modo sproporzionato al riscaldamento climatico. Prendiamo la Francia, ad esempio. Un miliardario emette infatti in media mille volte più di un francese medio. Più in generale, il patrimonio finanziario di 63 miliardari francesi emette la stessa quantità di gas a effetto serra di quella della metà della popolazione francese. Tuttavia, come abbiamo visto, i miliardari sono lontani dall’essere tassati in proporzione alle loro risorse per combattere il cambiamento climatico e le sue conseguenze. Questa iniziativa dovrebbe quindi garantire che i miliardari contribuiscano effettivamente in proporzione alle loro risorse e che il finanziamento della transizione ecologica non ricada solo sulle spalle dei nuclei familiari più poveri e delle classi medie.
Per affrontare le grandi sfide del XXI secolo, l’Unione europea dovrà quindi reinventarsi, non solo a livello istituzionale ma anche politico e ideologico. L’Unione europea è un continente ricco e una potenza economica di primo piano, ma non dispone delle risorse e degli strumenti per agire con efficacia. È un gigante con strumenti da bambino. Ma l’entità delle sfide da affrontare non consente più all'Europa di agire in modo indiretto, deviato. Tale insufficienza si è rivelata particolarmente crudele quando gli Stati Uniti hanno annunciato il loro Inflation Reduction Act, un piano di investimento massiccio nelle energie rinnovabili con ampi sussidi e agevolazioni fiscali per le imprese americane.
Di fronte a questa notizia, l’Unione europea è rimasta completamente paralizzata, limitandosi a denunciare la concorrenza sleale imposta dagli Stati Uniti e minacciando ritorsioni presso l’Organizzazione mondiale del commercio. Se la Commissione europea ha cercato di correggere il tiro presentando a sua volta il Piano industriale del Green Deal, purtroppo si constata che non è abbastanza. Anche qui, è urgente operare un’evoluzione ideologica. Dei tabù sono già saltati riconoscendo la necessità di condurre una vera politica industriale e di proteggere l’autonomia strategica europea. Tuttavia, ora l’Unione deve dotarsi di mezzi all’altezza delle proprie ambizioni e superare il suo status di semplice potenza regolamentare per diventare una vera potenza politica.
Ciò può avvenire solo a diverse condizioni: innanzitutto, l’Europa deve smettere di comportarsi come la brava allieva del neoliberismo e quindi come l’utile idiota della globalizzazione. Non mettiamo in discussione la necessità di commerciare a livello internazionale, i nostri paesi, il nostro continente, vivono anche di ciò che vendono all’estero. Tuttavia, anche noi dobbiamo essere capaci di sostenere le nostre industrie strategiche, invece di affidarci indefinitamente solo agli strumenti della politica commerciale. Il commercio è un mezzo e non un fine.
L’Europa ha già visto la sua industria dei pannelli solari schiacciata dal dumping praticato dalle imprese cinesi. Sta per commettere lo stesso errore con pale eoliche, pompe di calore e batterie. Se nulla viene fatto per porre fine a questa concorrenza sleale, tutta la nostra transizione sarà “made in China”. L’Unione europea dovrà quindi investire nelle sue filiere strategiche e lo dovrà fare massicciamente se vuole mantenere la sua industria e offrire una prospettiva di riqualificazione ai posti di lavoro industriali oggi minacciati dalla transizione ecologica.
Fare politica significa fissarsi degli obiettivi e dotarsi dei mezzi per raggiungerli. Quando si è la prima potenza economica mondiale, non si può improvvisare. Ma è quello che facciamo oggi. Oggi l’Unione si limita ad agire in modo indiretto, puntando su incentivi, norme e sanzioni. Per diventare una vera potenza, in grado di competere con i giganti americani e cinesi, l’Unione deve invece superare alcuni tabù e finalmente dotarsi degli strumenti giusti. In altre parole, avere un bilancio, una fiscalità e un vero tesoro. È la condizione sine qua non per attuare politiche europee efficaci e ambiziose.


[1] Si veda Iniziativa dei cittadini europei: TAX THE RICH, disponibile su tax-the-rich.it/.