Costruire un campo vincente

Di Chiara Geloni Lunedì 26 Febbraio 2024 12:55 Stampa
Costruire un campo vincente ©iStockphoto/saemilee


Per capire perché a detta di tanti osservatori l’opposizione al governo Meloni sia da considerarsi addirittura inesistente, e comunque farla sia un mestiere così particolarmente duro e ingrato, si può forse partire da tre flash temporali. Proviamo ad elencarli, e conviene cominciare dalla fine.
Intanto, il futuro è un’ipotesi. Nel senso che l’obiettivo finale non è condiviso. Il cosiddetto “Campo largo”, la cui indeterminatezza, com’è stato notato, è dimostrata fin dal fatto che ancora non gli si è trovato un nome migliore, non ha – come vedremo – confini chiari e condivisi. Perfino sull’idea di costruire quello che dovrebbe esserne l’asse portante – l’alleanza tra i due partiti principali, il PD e il M5S – non c’è totale consenso, a dispetto del fatto oggettivo che senza tale asse la partita col centrodestra sembra destinata a non cominciare nemmeno, 2022 docet.
Questa situazione, spiegano i commentatori mainstream e gli stessi protagonisti, dipende dal fatto che il presente si chiama elezioni europee. Il sistema proporzionale, ragionano, condanna tutti alla conflittualità e alla competizione. Addirittura si teorizza, chi con intenzione chi con rassegnazione: ci contiamo a giugno, definiamo i rapporti di forza, poi con calma costruiamo il campo. Affermazione che sorprendentemente non fa i conti con alcuni altri elementi del presente, come il fatto che anche a destra si compete ma intanto si governa restando una coalizione; che intanto che si vota per le europee si va alle urne anche in diverse regioni (Sardegna subito, poi Abruzzo, poi Umbria, Basilicata, Piemonte) e Comuni (tra i quali Firenze, Bari, Cagliari, Campobasso, Perugia, Potenza) dove una coalizione, per vincere, serve; che non è detto che il presente duri quanto previsto e che per ricostruire ci sia poi tutto questo tempo, con calma, magari dopo l’estate. Ma soprattutto, questa analisi del presente non fa i conti con il passato.
Il centrosinistra – o campo largo, o campo progressista, o campo delle opposizioni, appunto: un nome non ce l’ha – è al Ground zero. Non va semplicemente aggiustato o ricostruito: va creato dal nulla. Il passato, per le forze che lo compongono, è un ingombro di rotture, insofferenze, reciproche rivalità, diffidenze, tradimenti, fallimenti e divergenze politiche e strategiche reali. Di questo passato non c’è una lettura comune e condivisa non solo tra i partiti, ma nemmeno all’interno dei partiti, e in assenza di questo pesano ancora di più le sue scorie (non solo politiche ma anche personali). Per cui ogni scaramuccia, dispetto, sottolineatura di differenze non allontana semplicemente i futuribili alleati come avverrebbe in una coalizione “normale”. Ma è tutto sale sulle ferite, dentifricio che esce dal tubetto e sarà difficile far rientrare. Ciò che resta dell’orgoglio maggioritario del PD e del “né destra né sinistra” originario dei 5 Stelle nonché del loro passato da feroci avversari tra la Kasta e Bibbiano è lì, sotto la brace, nell’animo profondo di tanti osservatori, dirigenti ed elettori, pronto sempre a riprendere fiamma. In pratica, le opposizioni scherzano col fuoco, o meglio scherzerebbero col fuoco se il loro obiettivo comune fosse presentarsi insieme contro le destre alle prossime elezioni politiche. Ma, appunto, non è nemmeno detto che lo sia.
Eppure l’esperienza del passato qualcosa dovrebbe insegnare. Perché l’occasione per costruire il campo le opposizioni l’hanno persa in un momento ben preciso e non troppo remoto: alla fine della scorsa legislatura. Non era un destino segnato che la caduta del Conte II significasse la fine dell’ipotesi politica “giallorossa” che, a dispetto del colpo di scena della sua nascita, aveva sostenuto un governo dimostratosi non solo all’altezza delle gravissime sfide affrontate ma anche capace di creare un amalgama nei casi migliori sorprendente tra forze che si erano guardate in cagnesco per anni.
La scelta non scontata dei 5 Stelle di sostenere il governo di Mario Draghi avrebbe potuto essere la premessa perché le forze contrarie alla destra avviassero un percorso comune, basato sull’esperienza giallorossa, in vista della fine della legislatura. Ma intorno all’avvento di Draghi c’erano troppe cose non chiarite, troppi equivoci (anche sul ruolo e le prospettive dello stesso premier e sull’uso della sua famosa “agenda”) e arrivarono presto troppe complicazioni (la più grave, la guerra in Ucraina). I rapporti tra grillini e PD si deteriorarono. Da un lato crebbe l’insofferenza revanscista e identitaria dei 5 Stelle, dall’altro lo spasmodico conformismo e lo smodato draghismo di una parte della sinistra, innamorata di un’ipotesi politica inesistente per definizione (il governo Draghi era infatti “senza formula politica”). Inerzia e diffidenza fecero il resto, insieme alle complessità interne solite del PD e al percorso di trasformazione del “non-partito” di Grillo nel partito di Conte.
La finestra temporale si chiuse. Per poi precipitare nel disastro della caduta di Draghi e della dichiarata fine di ogni prospettiva di alleanza, che condusse PD e Movimento 5 Stelle alle elezioni del settembre 2022 completamente disarmati (nonché l’uno contro l’altro inutilmente armati) rispetto alla possibilità di contrastare la coalizione di Giorgia Meloni. Da queste macerie occorre partire per comprendere, se non giustificare, le difficoltà di oggi, e magari provare a reagire.

I POST PARTITI
La scelta, per un partito europeo di sinistra nel 2024, alla fine è relativamente semplice: si tratta di decidere se per vincere sia meglio puntare, come si diceva ai tempi della Terza Via, “al voto moderato”, o se si pensa che i tempi chiedano risposte di sinistra più nette sui temi sociali, i diritti, l’ambiente. Competere per conquistare gli elettori dell’altra parte o, in tempi di astensionismo e disamoramento crescenti, rimotivare quelli che hanno abbandonato la propria. Semplificando molto, anzi troppo: si può prendere la strada inglese, tardoblairiana, di Keir Starmer, oppure quella spagnola, neosocialista, di Pedro Sanchez. Scelte entrambe legittime, detto senza equidistanza; tuttavia il problema del Partito democratico forse è a monte: è che per decidere non ci sono le sedi, non c’è il metodo, e forse non c’è nemmeno la volontà.
Sono decisioni, queste, di rango congressuale, ma il PD è un partito che il congresso non lo fa. Nel lavacro presidenzialista delle primarie, ha finito per sposare di volta in volta valori e personalità del leader di turno, salvo poi logorarlo e fagocitarlo nelle rivendicazioni, nelle slealtà, nei nodi politici irrisolti, perdendo infine bussola e credibilità negli anni dello sbandamento renziano. Successivamente ha preso altre strade, ma senza mai sottoporre gli errori del passato a una verifica politica delle premesse e delle conseguenze e senza chiamarle col loro nome; piuttosto consolidando filiere interne che in nome di un “pluralismo” spesso malinteso e strumentale difendono ciascuna una fase, una scelta o un errore quando non una personalità e un ruolo, e ostacolano di fatto ogni decisione chiara.
L’elezione, un anno fa, di una leader anomala come Elly Schlein, spinta da un’onda di partecipazione alle primarie formata anche da tanti elettori sfiduciati e delusi oltre che dal nucleo sempre più ristretto (e territorialmente sempre meno ben distribuito e rappresentativo) degli iscritti, ha al tempo stesso certificato lo stallo al quale era giunta l’esperienza di quel partito, del quale ormai si discuteva perfino la possibilità di sopravvivenza, e offerto un’imprevista opportunità di superarlo. Ma a questa clamorosa richiesta di cambiamento, peraltro introdotta da quella che il segretario uscente Enrico Letta aveva battezzato addirittura “fase costituente”, hanno corrisposto finora pochi e piccoli passi. Un anno dopo, altro che fase costituente; il partito appare in pieno ritorno al business as usual: dalla nuova segreteria non sono uscite nuove forti personalità, i territori e le correnti tornano a rispondere ciascuno alle proprie logiche. Decidere una posizione e tenerla, che sia sul terzo mandato o sull’abuso d’ufficio o sulle armi all’Ucraina o sulle candidature, è ogni volta un’impresa.
Eppure, fuori dall’autoreferenzialità della vita interna e parlamentare e dal circuito mediatico che in modo stereotipato la descrive come “estremista” e “fumosa”, la leadership della Schlein c’è e anzi cresce. La trovi perfettamente a suo agio nelle piazze, le più spontanee e inedite come quella del 25 novembre contro il femminicidio di Giulia Cecchettin e quelli di tutte le altre, le piazze per l’ambiente, il lavoro, la pace; e ripensando all’anno trascorso c’è da chiedersi dove sarebbe il PD oggi senza una leader con questo tipo di standing. Alla manifestazione nazionale del partito in piazza del Popolo dell’11 novembre 2023 sono saliti sul palco rappresentanti di associazioni e intellettuali in numero inimmaginabile da anni. I rapporti con i possibili alleati del “campo”, invitati e presenti quel giorno sotto il palco sono, almeno personalmente e al netto della “sindrome europee”, tornati costanti e almeno sul piano umano accettabilmente sereni.
In mezzo a tanti silenzi, tattici o dovuti a debolezza, e alla solita cacofonia correntizia (qualunque cosa ormai significhi la parola corrente), paradossalmente ma forse non tanto Elly Schlein, la segretaria venuta da fuori, vista da fuori è leader del PD molto più di quanto il partito sia disposto a riconoscere. E la sua idea di dover essere in campo il più visibilmente possibile alle elezioni europee potrebbe non essere una strategia solo personalistica, ma un’altra proposta di cambiamento per un partito che talora sembra non solo non sapere chi è ma anche non volerlo decidere. Tra i segretari fagocitati dal partito e quelli che hanno divorato il partito, come ha notato su “Domani” Marco Damilano, forse Schlein cerca una sua “terza via”: mostrare un PD che si muove come una squadra, dove il capo pro tempore, senza per questo farne un partito personale, sta in prima linea e gli altri si uniscono per combattere dietro di lui, o lei. Perché ci vorrà pure un principio unificante, un messaggio riconoscibile, un la per cantare in coro in quello che rischia di apparire sempre più un assemblaggio di potentati e filiere personalistiche e localistiche. Ma, se è questa, è un’idea che Schlein fa molta fatica a spiegare, e il PD fa molta fatica a capire. Una linea che al momento va più che altro indovinata.
Sull’altra riva del fiume, Giuseppe Conte ha preso a definirsi “progressista”, cerca l’elettorato pacifista, mostra sensibilità sui temi ambientali e sociali, cita Berlinguer e la “questione morale” ma col tono di chi lo fa più per sfidare e competere che per gettarsi nell’abbraccio del PD. E non è solo per il permanere di alcuni temi – il fisco, l’immigrazione, la politica estera – su cui le distanze tra i due partiti sono invece reali. Il leader dei 5 Stelle non vuole fare lo junior partner, vuole contarsi, non nasconde troppo l’ambizione di tornare alla guida dell’alleanza e probabilmente confida in un recupero elettorale come quello del 2022, anche se le europee non sono un terreno favorevolissimo per il Movimento. Più ancora che tenersi le mani libere per altre possibili alleanze, il leader pentastellato dà l’impressione di non fidarsi. Di chiedersi quale PD avrà davanti dopo il voto di giugno. E se quel PD sarà potabile per i suoi elettori e la classe dirigente del suo partito.
Sotto la guida di Conte, quello che fu il “non partito” di Grillo è diventato più solido e strutturato e si è dato uno statuto, un abbozzo di gruppo dirigente e un’identità, per quanto post ideologica, più precisa e pragmatica. Tuttavia resta un esperimento politico anomalo, in evoluzione (è tuttora privo di una famiglia europea), e diffidente verso politiche organiche di alleanza. Il permanere di alcune regole come la rigidità sul limite dei mandati rende molto difficile il consolidarsi di un vero gruppo dirigente e spesso sui territori i possibili interlocutori del Movimento non riescono nemmeno a comprendere bene con chi relazionarsi.
Infine, l’esperimento fallito del sedicente Terzo polo, naufragato rapidamente sotto il peso dei personalismi e delle ristrettezze elettorali. A un anno dal voto, Renzi e Calenda sono diventati i peggiori nemici l’uno dell’altro, offrendo fra l’altro nella gestione della loro separazione ben pochi esempi di moderazione. Al di là delle sorti personali dei due leader, impegnati alle europee in una lotta per la sopravvivenza dagli esiti al momento abbastanza incerti, la matematica e la storia suggerirebbero in effetti l’utilità, per il “campo”, di dotarsi di un partner “centrista” di cultura liberaldemocratica. Ma i narcisismi e i veti di Calenda, per non parlare della slealtà conclamata di Renzi, non sembrano destinati a portare lontano.

I NODI POLITICI E L’ALLEANZA A BASSA INTENSITÀ
Che fare quindi per costruire un campo, possibilmente largo? Anche da questa ricostruzione un po’ spietata qualcosa di buono emerge: un certo (ri)avvicinamento nelle piazze e sui temi in questi mesi c’è stato, e la positiva vicenda della battaglia parlamentare sul salario minimo ne è la bandiera più gloriosa, anche se non è stato fin qui possibile replicarla, ed è davvero un delitto dato che sembrava ce ne fossero tutte le condizioni, su altri argomenti a partire dalla difesa della sanità pubblica. Certo su temi come la politica estera e la pace le distanze restano invece assai significative. Allora?
Aspettare di essere d’accordo su tutto non sembra realistico, né consigliabile. E a dire la verità nemmeno pretendere di trovarlo, l’accordo su tutto, magari scrivendo un bel librone del programma di centinaia di pagine come quelli di cui si dotò, ai suoi tempi, l’Ulivo di Prodi versione 1 e 2. No, non è “andando al regolamento” come il bravo presentatore Nino Frassica che il futuribile campo largo troverà il segreto per sciogliere i nodi che dovrà affrontare se (quando) tornerà al governo. Ma nella politica.
Una volta deciso di farlo, il campo (perché prendere questa decisione, abbiamo visto, è la prima cosa da fare), occorrerà inventare soluzioni inedite, perché inedita è la situazione. Archiviare (anche come retorica) la vocazione maggioritaria, prendendo atto che il bipolarismo tendente al bipartitismo se mai c’è stato non c’è più, né in Italia né in Europa (con almeno dieci anni di ritardo, forse è il momento di rassegnarsi). Ma andrà messo da parte anche lo schema del PD che assembla i cespugli, che ha funzionato (così così) negli ultimi anni ma non può essere utilizzato con un partner di forza più o meno equivalente.
Mettere insieme PD e 5 Stelle assomiglierà, più che all’Ulivo degli anni Novanta e al centrosinistra degli anni Dieci, al processo di aggregazione di DS e Margherita negli anni Zero: e al PD farà bene ricordare che in quella vicenda al partito “junior” i DS offrirono quote e garanzie molto generose, nonché addirittura la leadership della coalizione. Questo (prima che qualcuno si inalberi) non per affermare che il leader del “campo” dovrà essere Conte ma per dire (a tutti) che non si tratta tanto di vedere chi arriva primo per comandare, ma di capire chi è più grande perché – è la regola della politica, checché ne pensi Giorgia Meloni – dovrà essere quello più generoso.
E bisognerà però tenere a mente che l’esito non potrà essere lo stesso che ebbe quel percorso. Non solo non si tratta di fare di Movimento 5 Stelle e PD un partito unico, ma probabilmente nemmeno una coalizione classica. Non è infatti col Mattarellum che bisognerà vincere le prossime elezioni ma col Rosatellum: una legge elettorale figlia di una logica assurda, dove i partiti si presentano come tali e non come coalizione, e tuttavia devono mettersi insieme per vincere i collegi. Ecco perché più che un programma comune – espressamente non previsto dal legislatore – servirà rendere compatibili gli elettorati. Fare in modo cioè che i voti si sommino nei collegi, che i candidati degli uni siano votabili dagli altri e viceversa.
È quasi più un lavoro psicologico che programmatico: valorizzare le vicinanze, sdrammatizzare le differenze, che resteranno, e forse in parte è anche meglio così. Certo, qualche punto fermo sarà necessario per poter dire al paese cos’è questo Campo: qualcosa già c’è, lo abbiamo visto e non va sottovalutato, su lavoro, Stato sociale e sanità. Qualcosa sul fisco, sull’ambiente, sull’assetto democratico, sulla sobrietà della politica, sui diritti si può senz’altro costruire. Su altri argomenti, la politica estera, l’immigrazione, bisognerà avvicinare il più possibile le distanze. Ma soprattutto, bisognerà gestire una competizione sana tra alleati: una coalizione a bassa intensità. Darsi un metodo per decidere, più che ostentare di aver preso tutte le decisioni. È un paziente e pedagogico lavoro di ricucitura, anche umana, anche simbolica, da condurre con maturità e umiltà. Un cambio di clima. Qualcosa che non sarà possibile fare all’ultimo momento perché richiederà molto tempo. Ecco perché sarà sempre troppo tardi quando finirà la stagione delle scaramucce e dei dispetti e si comincerà a vedere chi ha più filo, e tifare per chi tesse. Anzi, a tifare per chi tesse, meglio cominciare subito.